4. LE FUNZIONI DEI SENTIMENTI

 

 

 

 

 

DELLA GIOIA E DEL DOLORE

Ora che abbiamo un’idea della possibile natura dei sentimenti, è tempo di chiedersi a che cosa possano servire. Per rispondere a questa domanda, è forse utile cominciare con una riflessione su come si arrivi a provare gioia e dolore - i due emblemi della nostra vita affettiva - e su che cosa essi rappresentino.

La catena di eventi è innescata dalla presentazione di un oggetto adatto - lo stimolo emozionalmente adeguato. L’elaborazione di quello stimolo, nel contesto specifico in cui esso si manifesta, conduce alla selezione e all’esecuzione di un programma preesistente: l’esperienza emozionale. Questa, a sua volta, porta alla formazione di un particolare insieme di mappe neurali dell’organismo, un processo al quale contribuiscono in modo preponderante i segnali afferenti dal corpo propriamente detto. Mappe caratterizzate da una particolare configurazione sono alla base dello stato mentale che chiamiamo gioia e delle sue varianti - qualcosa di simile a uno spartito composto nella chiave del piacere. Altre mappe sono alla base dello stato mentale che chiamiamo dolore e che, nell’ampia definizione di Spinoza, comprende stati negativi come l’angoscia, la paura, il senso di colpa e la disperazione. Tutti spartiti composti nella chiave della sofferenza.

Le mappe associate alla gioia significano stati di equilibrio dell’organismo. Tali stati possono essere effettivamente in atto; oppure può trattarsi di una situazione «come se». Gli stati di gioia indicano una coordinazione fisiologica ottimale e un procedere fluido e senza intoppi delle funzioni vitali. Essi favoriscono non soltanto la sopravvivenza, ma anche il benessere. Gli stati di gioia si caratterizzano anche per una maggior facilità nella capacità di agire.

Si può quindi essere d’accordo con Spinoza quando dice che la gioia (laetitia) è associata a una transizione dell’organismo verso una «maggior perfezione»1 - senza dubbio intesa nel senso di una maggiore armonia funzionale, come in quello di un aumento della potenza e della libertà di agire -,2 ma bisogna pur sempre rammentare che le mappe neurali della gioia possono essere falsate da un gran numero di farmaci e droghe, e non rispecchiare quindi lo stato reale dell’organismo. Alcune mappe «drogate» possono riflettere un miglioramento transitorio delle funzioni vitali. Alla fine, però, quel miglioramento è biologicamente insostenibile, ed è un preludio a un peggioramento.

Le mappe corrispondenti al dolore, inteso sia nel senso stretto del termine sia in quello più ampio della tristitia spinoziana, si accompagnano viceversa a stati di squilibrio funzionale. In questo caso la facilità d’azione è ridotta; vi è una qualche sofferenza - segni di malattia o dissonanza fisiologica, tutti indicativi di una coordinazione non ottimale delle funzioni vitali. Se non è tenuta sotto controllo, una tale situazione può favorire l’insorgere di gravi patologie, capaci di portare a morte anzitempo.

Vi è una buona probabilità che le mappe corporee del dolore rispecchino lo stato reale dell’organismo. Non esistono, infatti, droghe specificamente intese a indurre dolore e depressione. Nessuno si sognerebbe di prenderle, e meno che mai di abusarne! E tuttavia, dopo l’iniziale ebbrezza gioiosa, le sostanze d’abuso inducono realmente, per un effetto di rimbalzo, dolore e depressione. A detta degli intenditori lo «sballo» da ecstasy darebbe luogo a uno stato di tranquilla beatitudine, associata a pensieri positivi. L’uso ripetuto della droga, tuttavia, provoca crisi depressive sempre più gravi, che fanno seguito a momenti di euforia sempre meno euforici. Il normale funzionamento del sistema serotoninergico appare direttamente compromesso, e così una sostanza da molti considerata sicura si rivela pericolosissima.

In armonia con quanto asserito da Spinoza a proposito della tristitia, le mappe del dolore sono associate alla transizione dell’organismo verso uno stato di «perfezione minore». Qui, potenza e libertà di agire sono diminuite. Nella concezione spinoziana, l’individuo stretto nella morsa della sofferenza è separato dal proprio conatus, ossia dalla tendenza all’autoconservazione. Questo sicuramente si applica ai sentimenti presenti nei casi di depressione grave, nonché alla loro estrema conseguenza, il suicidio. La depressione può essere considerata parte di una «sindrome di malattia». Nella depressione prolungata, i sistemi endocrino e immunitario sono coinvolti proprio come se un batterio o un virus patogeno invadesse l’ organismo.3 Purché restino isolati, è poco probabile che gli episodi di tristezza, paura o rabbia inneschino la spirale negativa tipica della depressione. Resta il fatto che ogni singola occasione di emozione negativa - e dei sentimenti negativi che emergono in seguito - colloca l’organismo al di là del suo normale modo di operare. Nel caso della paura, ciò può rivelarsi vantaggioso - purché essa sia giustificata, e non il risultato di una valutazione impropria della situazione, né sintomo di una fobia. La paura giustificata è un’eccellente polizza d’assicurazione: ha salvato o migliorato molte vite. Tristezza e rabbia, invece, sono meno utili, sia dal punto di vista personale che da quello sociale. Di sicuro, una manifestazione di rabbia ben indirizzata può scoraggiare molti abusi e funzionare da arma difensiva, come tuttora accade in natura. In molte situazioni politiche e sociali, però, la rabbia è un ottimo esempio di emozione il cui valore omeostatico è oggi in declino. Lo stesso si potrebbe dire per la tristezza, un modo per reclamare aiuto e conforto versando qualche lacrima. Tuttavia, nelle circostanze opportune, anch’essa può avere una funzione protettiva - per esempio quando ci aiuta a adattarci a una perdita personale. A lungo andare, comunque, finisce per essere pericolosa e può provocare un cancro - in questo caso, un cancro dell’anima.

I sentimenti possono quindi essere i sensori mentali per monitorare l’interno dell’organismo, testimoni dei processi vitali colti nel loro svolgimento. Possono anche essere le nostre sentinelle. Essi consentono al nostro sé cosciente, fugace e limitato, di conoscere, per un breve periodo, lo stato corrente dei processi vitali dell’organismo. I sentimenti sono le manifestazioni mentali dell’equilibrio e dell’armonia, come della disarmonia e della dissonanza. Essi non riguardano necessariamente il carattere armonico o dissonante di oggetti o eventi presenti nel mondo esterno, ma hanno piuttosto a che fare con l’armonia o la dissonanza nel profondo del corpo. La gioia, il dolore e gli altri sentimenti sono, in larga misura, idee del corpo mentre esso si orienta verso stati di sopravvivenza ottimale. La gioia e il dolore sono rivelazioni mentali dello stato in cui versano i processi vitali, salvo i casi in cui le sostanze d’abuso o la depressione corrompano la fedeltà della rivelazione (anche se, dopotutto, si potrebbe sostenere che la sofferenza rivelata dalla depressione sia un’immagine fedele all’autentico stato in cui versa la vita).

È estremamente interessante che i sentimenti rispecchino lo stato vitale nel profondo di noi. Nei nostri tentativi di ripercorrere l’evoluzione a ritroso e di scoprire l’origine dei sentimenti, possiamo ben chiederci se non sia proprio questo ruolo di testimoni che essi rivestono nella nostra mente la ragione per cui si sono conservati come una caratteristica prominente degli esseri viventi complessi.



I SENTIMENTI E IL COMPORTAMENTO SOCIALE

Vi sono indicazioni sempre più numerose che i sentimenti, come gli appetiti e le emozioni che generalmente ne sono la causa, abbiano un ruolo decisivo nel comportamento sociale. In diversi studi pubblicati nel corso degli ultimi vent’anni, il nostro gruppo di ricerca, insieme ad altri, ha dimostrato che in individui in precedenza normali, che abbiano subito un danno alle regioni cerebrali necessarie al dispiegamento di certe classi di emozioni e sentimenti, la capacità di orientare la propria vita in seno alla società risulta estremamente disturbata. In particolare, essi appaiono incapaci di prendere decisioni appropriate in situazioni in cui l’esito è incerto, come quando si tratta di fare un investimento o di iniziare una relazione impegnativa.4 In questi casi i contratti sociali si rescindono. Molto spesso, i matrimoni si sciolgono, i rapporti fra genitori e figli diventano difficili e la gente perde il posto di lavoro.

Quasi sempre, le vittime della lesione cerebrale non sono più in grado di conservare il loro status sociale, e tutte cessano di essere economicamente indipendenti. Di solito non diventano violente e il loro comportamento improprio resta nei confini della legalità. Tuttavia, non controllano più la propria vita. E evidente che, lasciando questi individui a se stessi, se ne mette seriamente in discussione la sopravvivenza e il benessere.

Prima della malattia, il tipico paziente da noi studiato era un individuo attivo e di successo, faceva un lavoro specializzato e guadagnava bene. Non di rado aveva un ruolo attivo nella vita sociale ed era percepito dagli altri come leader della comunità. Dopo l’insorgenza del danno prefrontale, era emersa una persona completamente diversa. Il paziente era ancora sufficientemente abile per mantenere il posto, ma non si poteva fare affidamento sul fatto che si presentasse al lavoro regolarmente né sperare che eseguisse fino in fondo il compito assegnatogli, in vista di un obiettivo. La sua capacità di pianificazione risultava compromessa sia su base quotidiana che a lungo termine. Soprattutto, era compromessa la pianificazione finanziaria.

Il comportamento sociale, in questi soggetti, è un campo particolarmente difficile. Non è facile, per loro, capire chi sia degno di fiducia né orientare di conseguenza le proprie azioni. Essi non rispettano le convenzioni sociali e possono violare norme etiche.

I loro coniugi notano una mancanza di empatia. La moglie di un paziente osservò che prima, quando lei non si sentiva bene, il marito era sempre affettuoso e pieno di premure, mentre ora reagiva con indifferenza. Persone che prima della malattia si interessavano a iniziative in campo sociale, nell’ambito della comunità, o delle quali era nota la capacità di consigliare parenti e amici nelle situazioni difficili, non mostravano più alcuna propensione ad aiutare il prossimo. Ai fini pratici, non erano più esseri umani indipendenti.

Se ci interroghiamo sul perché di questa tragica situazione, scopriamo cose decisamente interessanti. La causa immediata dei problemi del paziente è il danno cerebrale subito in una regione specifica. Nei casi più gravi e significativi - nei quali il quadro clinico è dominato da disturbi del comportamento sociale - la lesione è localizzata in alcune regioni del lobo frontale. Nella maggior parte dei casi, ma non in tutti, è coinvolto il settore prefrontale, soprattutto la parte ventromediale. In genere, un danno circoscritto alla porzione laterale del lobo frontale sinistro non causa questo tipo di problema (sebbene io conosca almeno un’eccezione); viceversa, una lesione dello stesso tipo nell’emisfero destro può effettivamente indurre tale patologia ( fig. 4.1).5 Lesioni che interessino altre regioni cerebrali - e precisamente la regione parietale dell’emisfero destro - causano problemi analoghi, ma in forma meno pura, giacché in questi casi sono presenti anche importanti sintomi neurologici. Di solito, infatti, i pazienti parietali sono paralizzati, almeno in parte, sul lato sinistro del corpo. Ciò che distingue i pazienti con danni al settore ventromediale del lobo frontale è che, nel loro caso, i disturbi sembrano limitarsi a un bizzarro comportamento sociale. Per il resto, essi appaiono del tutto normali.

Il comportamento del paziente prefrontale è comunque ben diverso da prima dell’instaurarsi della patologia. Egli prende regolarmente decisioni svantaggiose per se e per i propri cari, ma dal punto di vista intellettuale è integro. Parla normalmente, si muove normalmente, non ha problemi di percezione visiva o uditiva. Non si lascia facilmente distrarre, quando è impegnato in una conversazione. È in grado di registrare e di richiamare alla mente episodi della vita passata, ricorda le convenzioni e le regole che quotidianamente infrange e, se qualcuno glielo fa notare, arriva persino a rendersene conto. E' «intelligente», nel senso che, sottoposto ai test per

Figura 4.1 Localizzazione del danno prefrontale nella ricostruzione tridimensionale in vivo del cervello di un paziente adulto sulla base di dati di risonanza magnetica. Il danno (in nero) è facilmente distinguibile dalle altre parti del cervello, rimaste intatte. Le due immagini in alto mostrano il cervello visto dalla prospettiva dell’emisfero destro e sinistro. Le due immagini al centro mostrano le sezioni mediali (interne) degli emisferi cerebrali destro (al centro, a sinistra) e sinistro (al centro, a destra). Le immagini in basso mostrano la lesione vista dal basso (a sinistra) in modo da rivelare l’esteso danno della superficie orbitale del lobo frontale; e vista frontalmente (a destra), così da evidenziare l’esteso danno ai poli frontali.

la misurazione del Q.I., ottiene punteggi elevati, ed è in grado di risolvere problemi logici.

Per molto tempo, l’insufficiente capacità decisionale di questi soggetti è stata attribuita a un deficit cognitivo. Poteva trattarsi - è stato ipotizzato - di una questione legata all’apprendimento, o alla capacità di richiamare le nozioni necessarie per comportarsi in modo appropriato. Forse era proprio l’incapacità di ragionare su quel materiale in modo intelligente. Oppure poteva darsi che la difficoltà riguardasse qualcosa di semplice, come il tenere a mente per il tempo necessario tutti i dati che occorre considerare per giungere alla soluzione di un problema (una funzione, questa, nota come «memoria operativa»).6 Nessuna di queste spiegazioni era però soddisfacente. In un modo o nell’altro, la maggior parte di questi pazienti non ha veri problemi in alcuna delle presunte funzioni compromesse. E sconcertante vederli ragionare in modo intelligente e risolvere correttamente uno specifico problema sociale quando viene loro presentato in un test sotto forma di situazione ipotetica. Magari si tratta dello stesso tipo di problema che il paziente, poco prima, non riusciva a risolvere nella situazione reale. Questi individui esibiscono una vasta conoscenza delle situazioni sociali che, nella realtà, gestiscono in modo così mirabilmente inadeguato. Conoscono le condizioni iniziali, le opzioni disponibili e le probabili conseguenze di quelle opzioni sia nell’immediato che sul lungo periodo, e sanno orientarsi in modo logico in mezzo a tali conoscenze.7 Tutto questo, però, non è loro di alcuna utilità nel mondo reale, quando più ne avrebbero bisogno.

Studiando questi pazienti cominciai a interessarmi alla possibilità che il loro difetto di ragionamento non fosse legato a un problema cognitivo primario, ma piuttosto a un deficit nella sfera dell’emozione e del sentimento. Due fattori contribuivano a quest’ipotesi. In primo luogo, c’era l’evidente fallimento dei tentativi di spiegazione sulla base delle funzioni cognitive più ovvie. In secondo luogo - elemento ancor più importante - mi ero reso conto del grado di piattezza emotiva di questi individui, al livello di emozioni sociali. Emozioni come l’imbarazzo, la compassione e il senso di colpa apparivano smorzate o del tutto assenti. Le storie personali che alcuni pazienti mi raccontavano sembravano intristire e imbarazzare me più di loro.8

Ecco dunque come arrivai all’idea che il difetto di ragionamento di questi individui, la loro incapacità di dirigere la propria vita, potesse essere dovuto all’impedimento di un segnale legato alle emozioni. Ipotizzai che nell’affrontare una data situazione - la scelta fra azioni alternative, e la rappresentazione mentale dei loro esiti - essi non riuscissero ad attivare una memoria emozionale che li avrebbe aiutati a fare scelte più vantaggiose. In altre parole, i pazienti non facevano uso dell’esperienza emozionale accumulata nel corso della loro vita. Le decisioni prese in tali circostanze, impoverite della componente emozionale, avevano esiti imprevedibili, quando non decisamente negativi, soprattutto in termini di ripercussioni future. Questo aspetto era particolarmente evidente quando si trattava di operare una scelta fra opzioni nettamente contrastanti, senza sapere quale sarebbe stato il risultato. Scegliere la professione, decidere se sposarsi o meno, o se iniziare una nuova attività, sono tutti esempi di decisioni dall’esito incerto, non importa quanto si sia preparati al momento di prenderle. In genere siamo chiamati a compiere scelte di questo tipo, ed è qui che emozioni e sentimenti tornano utili.

In che modo emozione e sentimento potrebbero contribuire al processo decisionale? La risposta è che vi sono molti modi - sottili e meno sottili, concreti e meno concreti - in cui gli affetti non intervengono genericamente nel ragionamento, ma vi hanno un ruolo essenziale. Mentre si accumula l’esperienza personale, per esempio, vanno formandosi varie categorie di situazione sociale. Le conoscenze che noi archiviamo, riguardanti quelle esperienze di vita, comprendono:


1. i dati di fatto relativi al problema;

2. l’opzione scelta per risolverlo;

3. l’esito effettivo di quella scelta e, cosa importante,

4. l’esito della scelta in termini di emozioni e sentimenti.


Per esempio: l’esito immediato dell’azione prescelta ha comportato una punizione o una ricompensa? In altre parole, si è accompagnato a emozioni e sentimenti di sofferenza, dolore e vergogna, o di piacere, gioia e orgoglio? E ancora - fatto non meno importante - l’esito nel futuro è risultato punitivo o gratificante, a prescindere da quanto lo fosse al momento? Come sono andate le cose nel lungo periodo? Da quell’azione specifica sono derivate conseguenze positive o negative? Il fatto di troncare, o di iniziare, una relazione ha portato benefici o ha condotto al disastro?

L’enfasi sulle conseguenze non immediate della scelta richiama l’attenzione su un aspetto del tutto particolare del nostro comportamento. Ragionare in termini di futuro è uno dei tratti principali del comportamento degli esseri umani civilizzati. Il bagaglio delle conoscenze accumulate con l’esperienza e la capacità di confrontare passato e presente ci hanno aperto la possibilità di «fare attenzione» al futuro, di prevederlo, di anticiparlo in simulazioni, nel tentativo di dargli la forma più vantaggiosa possibile. In cambio di un futuro migliore, siamo disposti a rinunciare a una gratificazione momentanea e posticipiamo un piacere immediato, ed è nello stesso spirito che compiamo sacrifici nel presente.

Come abbiamo già detto, ogni esperienza della nostra vita si accompagna a un certo grado di emozione e questo è particolarmente evidente in rapporto a problemi personali e sociali importanti. Poco importa che l’emozione compaia come risposta a uno stimolo fissato dall’evoluzione (come spesso avviene nel caso della compassione) o a uno stimolo appreso (come nel caso del timore acquisito per associazione a uno stimolo primario della paura): le emozioni - positive o negative - e i sentimenti che ne conseguono diventano componenti obbligate delle nostre esperienze sociali.

L’idea, allora, è che col passare del tempo noi non ci limitiamo più a rispondere automaticamente alle diverse componenti di una situazione sociale con il nostro repertorio di emozioni innate. Sotto l’influenza delle emozioni sociali (da compassione e vergogna, a orgoglio e indignazione) e delle emozioni indotte da ricompense e punizioni (varianti della gioia e del dolore) a poco a poco classifichiamo le situazioni sperimentate: la struttura degli scenari, le loro componenti, il loro significato in relazione alla nostra storia personale. Inoltre, mettiamo in collegamento le categorie concettuali che andiamo formando - sia a livello mentale, sia al corrispondente livello neurale - con il dispositivo cerebrale usato per l’induzione delle emozioni. Per esempio, alle diverse decisioni e ai diversi risultati che esse potranno avere in futuro associamo diversi stati emozionali. In virtù di tali associazioni, quando nella nostra esperienza incontriamo una situazione che rientra in una determinata categoria, rapidamente e automaticamente noi dispieghiamo le emozioni appropriate.

In termini neurali, il meccanismo funziona così: quando i circuiti presenti nelle cortecce sensoriali posteriori e nelle regioni temporali e parietali elaborano una situazione appartenente a una data categoria concettuale, si attivano i circuiti prefrontali contenenti l’archivio pertinente a quella categoria di eventi. Poi, grazie a un legame acquisito fra quella particolare categoria di eventi e le risposte in termini di emozione-sentimento date a essi in passato, ha luogo l’attivazione di regioni, come le cortecce prefrontali ventromediali, che scatenano i segnali emozionali appropriati. Questo dispositivo ci consente di collegare categorie di conoscenza sociale - acquisite o perfezionate attraverso l’esperienza individuale - all’apparato innato, codificato nel genoma, delle emozioni sociali e dei sentimenti che ne conseguono. Fra queste emozioni e questi sentimenti, io annetto particolare importanza a quelli associati all’esito differito delle azioni, giacché segnalano una previsione del futuro, in altre parole, un’anticipazione delle conseguenze delle azioni stesse. Per inciso, è un buon esempio di come le giustapposizioni operate dalla natura possano generare complessità - di come cioè, mettendo insieme le componenti appropriate, si ottenga più della loro semplice somma. Emozioni e sentimenti non sono la sfera di cristallo in cui leggere il nostro futuro. Nel giusto contesto, tuttavia, diventano segni premonitori di ciò che potrebbe rivelarsi un bene o un male in un futuro più o meno prossimo. Il loro dispiegarsi può essere parziale o totale, esplicito o implicito.

Il richiamo del segnale emozionale assolve a compiti importanti. Implicitamente o esplicitamente, esso porta a concentrare l’attenzione su particolari aspetti del problema e pertanto migliora la qualità del ragionamento. Un segnale palese innescherà allarmi automatici nei confronti di opzioni che, probabilmente, avrebbero esiti negativi. Una sensazione viscerale può sconsigliarci di compiere un passo che, a suo tempo, ha avuto conseguenze negative, e questo ancor prima che il normale ragionamento ci dica: «Non farlo». Ma il segnale emozionale, anziché attivare l’allarme, può anche spingerci a prendere rapidamente una certa decisione, perché, nella storia del sistema, essa ha finito col venire associata a un esito positivo. In breve, il segnale in questione marca opzioni ed esiti attribuendo loro una valenza, positiva o negativa, che restringe lo spazio della decisione e aumenta la probabilità di conformare l’azione presente all’esperienza passata. Poiché, in un modo o nell’altro, i segnali riguardano il corpo, cominciai a riferirmi a queste idee come all’ «ipotesi del marcatore somatico».

Il segnale emozionale non è un sostituto del ragionamento vero e proprio, ma ha semplicemente un ruolo ausiliario, giacché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, può renderlo quasi superfluo, come accade, per esempio, quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe a un disastro sicuro o, viceversa, cogliamo al volo una buona opportunità in base alla sua elevata probabilità di successo.

In alcuni casi il segnale emozionale può essere molto forte, e condurre alla parziale riattivazione di emozioni come la paura o la felicità, seguite dal sentimento cosciente appropriato di quella particolare emozione. E questo il presunto meccanismo della percezione viscerale, che utilizza quello che ho definito circuito corporeo. D’altra parte, i segnali emozionali possono funzionare anche in modo più sottile, e presumibilmente, nella maggior parte dei casi, è così che svolgono la loro funzione. In primo luogo è possibile produrre percezioni viscerali senza usare davvero il corpo, ma attingendo dal circuito «come se» discusso nel capitolo precedente. In secondo luogo, poi, c’è un fatto più importante, e cioè che il segnale emozionale può operare interamente al riparo dal radar della coscienza. Può produrre alterazioni nella memoria operativa, nell’attenzione e nel ragionamento, così che il processo decisionale sia orientato verso la scelta dell’azione che, sulla base dell’esperienza precedente, ha maggiore probabilità di condurre al miglior esito possibile. L’individuo può anche non avere cognizione di queste operazioni implicite. In tali condizioni, noi intuiamo una decisione e la mettiamo in atto, in modo rapido ed efficace, senza avere alcuna conoscenza dei passaggi intermedi.

Il nostro gruppo di ricerca, insieme ad altri, ha accumulato dati sostanziali a conferma di tali meccanismi.9 Il loro legame con il corpo è noto da secoli al buon senso comune. Spesso ci riferiamo ai presentimenti che orientano nella giusta direzione il nostro comportamento come ai «visceri» o al «cuore» - per esempio quando diciamo: «So, in cuor mio, che questa è la cosa giusta da fare». Il termine portoghese per presentimento, fra l’altro, è palpite, vicinissimo a «palpitazione», ossia un battito cardiaco irregolare.

L’idea che le emozioni siano intrinsecamente razionali, sebbene si sia mantenuta marginale, ha una lunga storia. Sia Aristotele che Spinoza pensavano che almeno alcune emozioni, in certe circostanze, fossero razionali. In un certo senso, David Hume e Adam Smith la pensavano allo stesso modo. Anche i

4.2

Figura 4.2 In condizioni normali, il processo decisionale si serve di due vie complementari. Di fronte a una situazione che richiede una risposta, la via A induce immagini riferite alla situazione, alle possibili opzioni, e alle anticipazioni dei loro esiti futuri. Le strategie di ragionamento possono operare su quella conoscenza e produrre una decisione. La via B opera in parallelo, e induce l'attivazione di esperienze emozionali vissute precedentemente in situazioni paragonabili. Successivamente, il richiamo del materiale emozionalmente collegato, implicito o esplicito che sia, influenza il processo decisionale costringendo l'attenzione ad appuntarsi sulla rappresentazione degli esiti futuri o interferendo con le strategie di ragionamento. In qualche caso, la via B può portare direttamente a una decisione, come quando una sensazione viscerale stimola una risposta immediata. In quale misura ciascuna delle due vie sia usata da sola o in combinazione con l'altra dipende dallo sviluppo individuale di una persona, dalla natura della situazione e dalle circostanze. Probabilmente gli interessanti schemi decisori descritti negli anni Settanta da Daniel Kahnemann e Amos Tversky sono dovuti al coinvolgimento della via B.

filosofi contemporanei Ronald de Sousa e Martha Nussbaum hanno sostenuto in modo persuasivo la razionalità dell’emozione. In questo contesto il termine «razionale» non denota il ragionamento logico esplicito, ma piuttosto l’associazione ad azioni o esiti che si rivelano benefici per l’organismo che esibisce le emozioni. I segnali emozionali richiamati dal meccanismo descritto, pur non essendo di per sé razionali, favoriscono esiti che si sarebbero potuti ottenere procedendo razionalmente. Forse, come ha proposto Stefan Heck, un termine migliore per denotare questa caratteristica delle emozioni sarebbe «ragionevole».10



IL COLLASSO DI UN MECCANISMO NORMALE

In che modo il danno cerebrale, in individui adulti precedentemente normali, produce il deficit del comportamento sociale che abbiamo descritto? La lesione causa due menomazioni complementari: da un lato distrugge la regione che induce le emozioni - dove di solito hanno origine i comandi per il dispiegarsi delle emozioni sociali - e dall’altro distrugge la regione vicina, che sostiene il legame acquisito fra determinate categorie di situazioni e determinate emozioni, legame che è la miglior guida all’azione, in relazione ai risultati futuri. In tali circostanze, il repertorio ereditario delle emozioni sociali automatiche non può essere utilizzato in risposta allo stimolo naturalmente adeguato, né possono esserlo le emozioni che, nel corso della nostra esperienza individuale, abbiamo imparato a collegare a determinate situazioni. Sono inoltre compromessi anche i sentimenti che, in condizioni normali, insorgerebbero sulla scia di queste emozioni. La gravità del deficit varia da paziente a paziente. In ogni caso, però, l’individuo diviene incapace di produrre regolarmente emozioni e sentimenti sintonizzati su categorie specifiche di situazioni sociali.

I pazienti che hanno riportato una lesione in regioni quali il lobo frontale ventromediale appaiono incapaci di cooperazione. Essi non riescono a esprimere emozioni sociali; il loro comportamento non è più rispettoso delle regole sociali e le loro prestazioni, nei test che richiedano una competenza sociale, appaiono del tutto anomale.11 Nell’individuo normale, l’adozione di strategie cooperative coinvolge le regioni frontali ventromediali, come mostrano le immagini funzionali ottenute nel corso di un esperimento che prevedeva la soluzione del Dilemma del prigioniero - un test quanto mai efficace nel discriminare gli individui cooperativi da quelli inclini alla defezione. Recentemente si è scoperto che la cooperatività porta anche all’attivazione di regioni coinvolte nella liberazione di dopamina e nei comportamenti associati al piacere - il che indica che la virtù ricompensa se stessa.12

Vista la condizione dei nostri pazienti, nei quali il danno si era verificato in età adulta, si poteva essere tentati di prevedere che quella loro «conoscenza sociale» rimasta intatta, e la loro pratica nella risoluzione di problemi sociali prima del danno cerebrale, sarebbero bastate ad assicurare un comportamento sociale normale. Ma la verità è diversa. In un modo o nell’altro, per potersi esprimere normalmente, la conoscenza fattuale del comportamento sociale esige i meccanismi dell’emozione e del sentimento.

L’incapacità di guardare al futuro causata da un danno prefrontale trova un corrispettivo nel comportamento di chi altera abitualmente i propri sentimenti normali facendo uso di stupefacenti o di alcolici. Ne risultano mappe distorte dei processi vitali, che in modo sistematico forniscono a mente e cervello informazioni sbagliate sullo stato reale del corpo. Qualcuno potrebbe credere che ciò rappresenti un vantaggio. Che c’è di male a sentirsi bene e a essere felici? In verità - se quel benessere e quella felicità si discostano sostanzialmente e cronicamente da ciò che il corpo segnalerebbe al cervello in condizioni normali - sembra che di male ce ne sia molto. In effetti, nel caso della dipendenza da droga, i processi decisionali falliscono miseramente e l’individuo compie scelte sempre meno proficue per se stesso e per i suoi cari. L’espressione «miopia rispetto al futuro» descrive adeguatamente questa difficile situazione. Se lasciata senza controllo, essa porta immancabilmente a una perdita di indipendenza sociale.

Nel caso della dipendenza da sostanze, la carente capacità decisionale potrebbe venire attribuita all’azione diretta di farmaci e droghe sui sistemi neurali che sostengono le facoltà cognitive in generale, piuttosto che il sentimento in particolare; ma la spiegazione sarebbe un po’ troppo estensiva. Senza un aiuto adeguato, il benessere di queste persone svanisce quasi completamente, tranne che nei momenti in cui le sostanze d’abuso creano occasioni di piacere, peraltro sempre più brevi. Ho il sospetto che la spirale discendente tipica della tossicodipendenza cominci proprio in seguito alle distorsioni del sentimento e alla conseguente compromissione del processo decisionale, anche se poi, alla fine, i disturbi fisici prodotti dall’assunzione cronica di sostanze d’abuso causeranno ulteriori patologie e non di rado la morte.



IL DANNO PREFRONTALE NEL SOGGETTO MOLTO GIOVANE

I risultati relativi a pazienti adulti con danni al lobo frontale, e le loro interpretazioni, diventano particolarmente convincenti alla luce della recente descrizione di giovani - non ancora o da poco ventenni - portatori di danni simili dall’infanzia.13 I miei colleghi Steven Anderson e Hanna Damasio stanno riscontrando che questi pazienti, per molti versi, assomigliano a quelli che subiscono la lesione in età adulta. Proprio come loro, infatti, non mostrano compassione, imbarazzo o sensi di colpa, e sembrano non aver mai avuto, in vita loro, quelle emozioni, e i relativi sentimenti. Esistono tuttavia notevoli differenze. I pazienti nei quali il danno cerebrale si instaura nei primi anni di vita presentano, nel comportamento sociale, difetti ancora più gravi; inoltre, cosa più importante, sembrano non aver mai appreso le convenzioni e le regole che poi infrangono. Un esempio, a questo punto, può aiutare.

Quando la conoscemmo, la nostra primissima paziente con questi disturbi aveva vent’anni. Il suo ambiente familiare era stabile e accogliente, e i suoi genitori non avevano mai sofferto di malattie neurologiche o psichiatriche. All’età di quindici mesi, la paziente era stata investita da una macchina, riportando un trauma cranico; nell’arco di qualche giorno, comunque, si era ripresa. Non erano state rilevate anomalie comportamentali fino all’età di tre anni, quando i genitori osservarono che la bambina non reagiva alle punizioni verbali e fisiche - ben diversamente dai fratelli, che invece crebbero normalmente come adolescenti e giovani adulti. A quattordici anni, i suoi comportamenti erano ormai talmente distruttivi che i genitori l’affidarono a un centro di recupero, il primo dei molti che sarebbero seguiti. A scuola, la ragazza veniva giudicata un’allieva capace, ma non finiva mai i compiti. La sua adolescenza fu contrassegnata dall’incapacità di adeguarsi a qualsiasi tipo di regola e da frequenti scontri con i coetanei come con gli adulti. Era violenta sia a livello verbale sia a livello fisico. Mentiva abitualmente, e venne fermata più volte dalla polizia per furtarelli nei negozi; rubava anche ai coetanei e perfino in famiglia. Cominciò a essere sessualmente attiva in età giovanissima, adottando comportamenti a rischio; rimase incinta a diciotto anni. Dopo il parto, il suo comportamento materno si distinse per insensibilità nei confronti delle esigenze del figlio. Perdeva regolarmente il lavoro, poiché non rispettava le regole e non dava alcun affidamento. Non manifestava mai sensi di colpa o rimorso per il proprio operato, né compassione per le disgrazie altrui. Dava sempre la colpa agli altri delle sue difficoltà. La terapia comportamentale e il trattamento farmacologico non furono di alcun aiuto. Dopo essersi ripetutamente esposta a gravi rischi, sia per la salute sia sul lato economico, finì col dipendere totalmente dall’aiuto dei genitori e dai servizi sociali, incaricati di sorvegliare la sua vita personale. Non aveva progetti per il futuro, né desiderava trovare un lavoro.

Alla giovane non era mai stato diagnosticato un danno cerebrale. L’episodio dell’infanzia, in cui aveva colpito la testa, era stato praticamente dimenticato. Finché i genitori cominciarono a sospettare qualcosa, e si rivolsero a noi. La risonanza magnetica rivelò - come del resto c’era da aspettarsi - un danno cerebrale paragonabile a quello di pazienti con lesioni prefrontali comparse in età adulta. Abbiamo studiato altri casi analoghi, e tutti presentavano la stessa combinazione di comportamento sociale anormale e danno prefrontale. Il nostro gruppo sta mettendo a punto programmi di riabilitazione per questi malati.

Questo non vuol dire che ogni adolescente con un tale comportamento abbia un danno cerebrale non diagnosticato. E probabile che all’origine di anomalie comportamentali del genere, dovute ad altre cause, vi sia comunque un malfunzionamento dello stesso sistema cerebrale che in questi nostri

Figura 4.3 Ricostruzione tridimensionale del cervello di un giovane adulto che aveva subito un danno localizzato nella regione prefrontale in tenera età. Come nel caso mostrato in figura 4.1, la ricostruzione si basa su dati di risonanza magnetica. Si noti la somiglianza con l’area danneggiata nel paziente adulto.

pazienti era da tempo danneggiato. Il malfunzionamento potrebbe esser dovuto a un difetto nella funzione dei circuiti neurali a livello microscopico. Un tale difetto potrebbe avere molte cause: da una segnalazione chimica anormale su base genetica, a fattori sociali e culturali.

Data la situazione cognitiva e neurale discussa in precedenza, si capisce come mai un danno localizzato nella regione prefrontale, subito in giovanissima età, possa avere conseguenze devastanti. La prima di esse è che il soggetto non dispiega normalmente il repertorio innato di emozioni e sentimenti sociali. Come minimo, egli finisce per interagire con gli altri in modo innaturale: reagisce impropriamente a moltissime situazioni sociali attirandosi altrettanto improprie reazioni da parte degli altri, e come risultato si fa un ’idea distorta del mondo sociale. In secondo luogo, non acquisisce un repertorio di reazioni emozionali sintonizzato su specifiche azioni precedenti: infatti, l’apprendimento dell’esistenza di un nesso fra una particolare azione e le sue conseguenze emozionali presuppone l’integrità della regione prefrontale. In questi soggetti, l’esperienza del dolore, che è una componente della punizione, è scollegata dall’azione che ha causato la punizione stessa; e pertanto non vi sarà alcun ricordo di un tale collegamento di cui fare uso in futuro; lo stesso vale per gli aspetti piacevoli della gratificazione. In terzo luogo, infine, vi è una carente elaborazione delle conoscenze personali riguardanti il mondo sociale. La classificazione delle situazioni, la classificazione delle risposte - adeguate e inadeguate - e l’organizzazione e connessione di convenzioni e regole sono distorte.14



E SE IL MONDO...

Vi sono pochi dubbi sul fatto che l’integrità dei meccanismi dell’emozione e del sentimento sia necessaria per un comportamento sociale umano normale, espressione con la quale intendo un comportamento sociale conforme alle norme dell’etica e alle leggi, tale da poter esser descritto come «giusto». C’è da rabbrividire al pensiero di come sarebbe il mondo - dal punto di vista sociale - se la patologia rilevata nei soggetti con danni del lobo frontale insorti in età adulta interessasse più che una piccola minoranza della popolazione.

Un brivido ancora più forte suscita l’idea di un danno prefrontale che colpisse un gran numero di persone in giovane età. Sarebbe già spaventoso se ciò si verificasse al giorno d’oggi. Ma c’è da chiedersi quale sarebbe stata l’evoluzione del mondo se l’umanità avesse esordito con una popolazione di individui incapaci di rispondere ai propri simili con simpatia, attaccamento, compassione, imbarazzo, e altre emozioni sociali che sappiamo esser presenti, sebbene in forma semplice, anche in alcune specie non umane.

Si potrebbe esser tentati di liquidare questo esperimento concettuale dicendo che una specie siffatta si sarebbe rapidamente estinta. Devo chiedervi, invece, di non accantonarlo tanto in fretta, perché proprio qui sta il punto. In una società privata di quelle emozioni e di quei sentimenti, non vi sarebbe stata alcuna esibizione spontanea delle risposte sociali innate che fanno presagire un semplice sistema etico - nessun altruismo in boccio; nessuna gentilezza e nessuna riprovazione là dove, rispettivamente, gentilezza e riprovazione sono appropriate; nessuna automatica percezione dei propri fallimenti. Senza il sentimento di tali emozioni, gli esseri umani non avrebbero mai potuto dialogare per risolvere i problemi del gruppo - quali l’individuazione e la condivisione di risorse alimentari, la difesa dalle minacce o la composizione delle dispute tra i membri della comunità. Non vi sarebbe stata una crescente consapevolezza del nesso fra situazioni sociali, risposte naturali, e altre evenienze come la punizione e la ricompensa cui si va incontro permettendo o inibendo le risposte naturali. La codificazione delle regole espresse nei sistemi giuridici e nelle organizzazioni sociopolitiche sarebbe difficilmente concepibile in simili circostanze, anche ammettendo che tutto l’apparato dell’apprendimento, dell’immaginazione e del ragionamento fosse rimasto intatto a dispetto della devastazione emozionale - possibilità davvero remota. Con il naturale meccanismo di orientamento emozionale più o meno invalidato, l’individuo non avrebbe potuto sintonizzarsi sul mondo reale. Inoltre, costruire un sistema di orientamento sociale basato su dati di fatto, indipendentemente dal meccanismo naturale mancante, appare improbabile.

4.4

Figura 4.4 Alcune delle principali emozioni sociali, positive e negative. In ciascun gruppo di emozioni è possibile identificare lo stimolo emozionalmente adeguato in grado di indurre l’emozione; le principali conseguenze dell’emozione stessa; e le sue basi fisiologiche. Per un approfondimento sulle emozioni sociali si vedano gli scritti e il lavoro di J. Haidt e di R. Shweder.15

Questo scenario è una descrizione verosimile qualunque versione si dia dell’origine dei princìpi etici che guidano la vita sociale. Per esempio, se i princìpi etici fossero emersi a seguito di un processo di negoziazioni culturali condotte sotto la spinta delle emozioni sociali, i portatori di un danno prefrontale non vi avrebbero preso parte, e non avrebbero neppure cominciato a costruirsi un codice etico. Il problema, tuttavia, rimane anche se si crede che quei princìpi siano stati affidati a pochi eletti tramite una profezia religiosa. Tanto per cominciare, in uno scenario in cui la religione è una delle creazioni umane più straordinarie, è poco probabile che esseri umani privi delle fondamentali emozioni sociali e dei sentimenti corrispondenti potessero mai creare un sistema religioso. Come discuteremo nel capitolo 7, le narrazioni religiose possono essere sorte in risposta a importanti pressioni, e precisamente al dolore e alla gioia analizzati a livello cosciente e all’esigenza di creare un’autorità che desse valore alle norme etiche e le facesse attuare. In assenza di normali emozioni, però, difficilmente vi sarebbe stata una spinta verso la creazione della religione. Non vi sarebbero stati profeti, né seguaci desiderosi di sottomettersi, con reverenza e ammirazione, a una figura dominante cui fosse affidato un ruolo di guida, o a un’entità con il potere di proteggere e di ripagare le sconfitte, nonché di spiegare l’inspiegabile. Il concetto di Dio, applicato a uno o a molti, avrebbe faticato a emergere.

Le cose non andrebbero meglio, tuttavia, presumendo che le profezie religiose abbiano un’origine soprannaturale, e considerando il profeta come semplice veicolo della verità rivelata. Anche in tal caso, infatti, sarebbe necessario inculcare i princìpi etici nelle innocenti menti infantili facendo leva su punizioni e gratificazioni: un’operazione impossibile in presenza di un danno prefrontale insorto precocemente. Gioia e dolore - nella misura in cui, in alcune circostanze, tali soggetti potrebbero sperimentarli - non verrebbero comunque collegati alle categorie di conoscenza personale e sociale che definiscono le fondamentali questioni dell’etica. In breve, indipendentemente dal fatto che si considerino i princìpi etici come sviluppi fondati essenzialmente sulla natura o sulla religione, è evidente che la compromissione del sistema dell’emozione e del sentimento in una fase precoce dello sviluppo umano non sarebbe stato un buon terreno per l’emergere del comportamento etico.

L’eliminazione dell’emozione e del sentimento dallo scenario umano implica un impoverimento della successiva organizzazione dell’esperienza. Se le emozioni sociali e i sentimenti corrispondenti non vengono adeguatamente dispiegati, e se il legame fra situazioni sociali da una parte, e gioia e dolore dall’altra, si rompe, l’individuo si trova nell’impossibilità di classificare nella propria memoria autobiografica l’esperienza degli eventi servendosi di quel marchio affettivo che servirebbe ad attribuirle la sua qualità «buona» o «cattiva». Questo precluderebbe di accedere a qualsiasi livello successivo nella costruzione dei concetti di bene e di male, e in particolare impedirebbe la costruzione, culturale e ragionata, di che cosa debba essere considerato buono o cattivo, in relazione al bene e al male che ne deriva.



NEUROBIOLOGIA E COMPORTAMENTO ETICO

Ho il sospetto che in assenza delle emozioni sociali e dei sentimenti conseguenti - anche basandosi sull’improbabile assunto che in tali circostanze le altre abilità intellettuali possano conservarsi intatte - gli strumenti culturali che conosciamo come comportamenti etici, credenze religiose, leggi, giustizia e organizzazione politica, o non sarebbero comparsi affatto, o sarebbero emersi come costruzioni intelligenti di tipo molto diverso. Prudenza, però: non intendo dire che emozioni e sentimenti abbiano causato, da soli, l’emergere di quegli strumenti culturali. In primo luogo, i dispositivi neurobiologici che probabilmente facilitano l’emergere di tali strumenti culturali includono non solo emozioni e sentimenti, ma anche quella capace memoria personale che permette agli esseri umani di costruirsi un’autobiografia complessa, nonché il processo della coscienza estesa che consente strette relazioni reciproche fra i sentimenti, il sé e gli eventi esterni. In secondo luogo, difficilmente sarebbe ipotizzabile una semplice spiegazione neurobiologica per la comparsa dell’etica, del diritto e della religione. E ragionevole supporre che la neurobiologia avrà un ruolo importante nelle future spiegazioni di questi fenomeni culturali; ma per comprenderli in modo soddisfacente dovremo prendere in considerazione anche idee provenienti da altre discipline, quali l’antropologia, la sociologia, la psicoanalisi e la psicologia evoluzionista, nonché i risultati di studi nel campo dell’etica, del diritto e della religione. In effetti, la via che ha maggiori probabilità di portare a risultati interessanti è quella di un nuovo tipo di indagini, volte a verificare ipotesi basate sulla conoscenza integrata dei risultati di tutte queste discipline e della neurobiologia.16 Tale impresa sta appena cominciando a prender forma e, in ogni caso, va oltre gli scopi di questo capitolo e della mia preparazione. Sembra comunque verosimile che i sentimenti possano aver rappresentato una base necessaria per l’emergere del comportamento etico ben prima che gli esseri umani procedessero consapevolmente alla elaborazione di norme intelligenti di condotta sociale. I sentimenti sarebbero comparsi sulla scena negli stadi evolutivi precedenti, nelle specie non umane, e avrebbero rappresentato un fattore importante nel consolidamento di emozioni sociali automatiche e di strategie cognitive di comportamento cooperativo. La mia posizione, relativamente all’intersezione fra neurobiologia e comportamento etico, può essere riassunta come segue.

I comportamenti etici sono un sottoinsieme di quelli sociali e possono essere studiati scientificamente da varie angolazioni, attingendo a discipline che spaziano dall’antropologia alla neurobiologia. Quest’ultima comprende tecniche diverse, come quelle della neuropsicologia sperimentale (a livello dei sistemi su grande scala) e della genetica (a livello molecolare). E probabile che i risultati più fecondi proverranno da approcci combinati.17

Nella sua essenza, il comportamento morale non nasce con gli esseri umani. Osservazioni effettuate su uccelli (per esempio i corvi) e sui mammiferi (pipistrelli, lupi, babbuini e scimpanzé) indicano che anche i membri di altre specie possono adottare comportamenti che ai nostri occhi di spettatori sofisticati appaiono morali. Essi mostrano compassione, attaccamento reciproco e imbarazzo, orgogliosa dominanza e umile sottomissione. Possono punire o ricompensare particolari azioni altrui. I vampiri (Desmodus rotundus), per esempio, individuano i comportamenti sleali nei membri del gruppo dediti alla raccolta del cibo, e li puniscono di conseguenza. Lo stesso fanno i corvi. Tali esempi sono particolarmente convincenti fra i primati e non sono affatto limitati alle scimmie antropomorfe, ossia ai nostri parenti più prossimi. Le scimmie rhesus possono comportarsi in modo apparentemente altruista verso i cospecifici. In un interessante esperimento eseguito da Robert Miller e discusso da Marc Hauser, le scimmie si astenevano dal tirare una catena - operazione con la quale avrebbero ottenuto del cibo - se lo stesso atto causava la somministrazione di una scarica elettrica a un compagno. Alcune non mangiavano per ore, o addirittura per giorni. Particolare suggestivo, l’altruismo era più frequente tra le scimmie che conoscevano l’individuo potenziale bersaglio della scarica. Il freno della compassione era più efficace nei confronti di individui familiari che verso gli estranei. Un’elevata quota di altruisti era presente anche tra i soggetti che in precedenza avevano subito lo shock. All’interno del gruppo, i primati non umani possono sicuramente decidere se cooperare o meno.18 Questo forse non piacerà a chi è convinto che il comportamento corretto sia una prerogativa umana. Come se non fossero bastate le lezioni di Copernico, Darwin e Freud - che l’uomo non è al centro dell’universo, ha origini umili e non è del tutto padrone del suo comportamento - dobbiamo ammettere che perfino nel regno dell’etica esistono antenati e discendenti. Nell’uomo, tuttavia, il comportamento morale presenta un livello di elaborazione e complessità che lo rende del tutto peculiare. Le norme etiche creano, nell’individuo normale, responsabilità esclusivamente umane. La loro codificazione è umana; come umane sono le narrazioni costruite intorno alla situazione. Riconoscere che parte della nostra costituzione biologica e psicologica ha origini animali non è dunque incompatibile con l’idea che la nostra profonda comprensione della condizione umana ci conferisca una dignità esclusiva.

Il fatto che le nostre più nobili creazioni culturali abbiano dei precursori non implica del resto che animali o esseri umani dispongono di un unico comportamento sociale, fissato in origine. Esistono vari tipi di comportamento sociale, buoni e cattivi, derivanti dalle stravaganze della variazione evolutiva, dal sesso, e dallo sviluppo individuale. Come Frans de Waal ha dimostrato nelle sue ricerche, esistono scimmie antropomorfe come gli scimpanzé, aggressivi e territoriali, e altre, come i bonobo, d’indole mite, il cui straordinario comportamento fa pensare a una felice combinazione di Bill Clinton e Madre Teresa.

Negli esseri umani, la costruzione di quella che chiamiamo etica potrebbe aver avuto inizio nell’ambito di un programma generale di regolazione biologica. La comparsa di comportamenti etici embrionali sarebbe stata un ulteriore passaggio in una progressione comprendente in primo luogo tutti i meccanismi automatici e non coscienti che forniscono una regolazione metabolica; in secondo luogo, gli impulsi e le motivazioni; e, infine, le emozioni di vario tipo e i sentimenti. E' molto importante osservare come le situazioni che evocano queste emozioni e questi sentimenti richiedano soluzioni comprendenti la cooperazione. Dall’esercizio di quest’ultima, poi, non è difficile immaginare l’emergere della giustizia e dell’onore. Infine, un altro livello di emozioni sociali, espresse in forma di comportamenti dominanti o subordinati all’interno del gruppo, avrebbe avuto un ruolo importante in quei rapporti di dare e avere che definiscono la cooperazione.

Verosimilmente, esseri umani dotati di questo repertorio di emozioni, e con tratti della personalità che includessero strategie cooperative, avrebbero avuto una maggior probabilità di vivere a lungo e di lasciare una discendenza numerosa. In questo modo, cervelli capaci di dar luogo a un comportamento cooperativo si sarebbero consolidati su base genetica. Ciò non significa che esista un gene per il comportamento cooperativo, e meno che mai per il comportamento morale in generale. In realtà, basterebbe la presenza costante dei molti geni che probabilmente dotano alcune regioni del cervello di particolari circuiti e dei cablaggi associati - per esempio regioni come il lobo frontale ventromediale, in grado di stabilire un nesso fra certe categorie di eventi percepiti, e certe risposte in termini di emozione-sentimento. In altre parole, alcuni geni, lavorando di concerto, promuoverebbero la formazione di determinate componenti cerebrali e il loro regolare funzionamento; tutto questo, con l’esposizione all’ambiente appropriato, renderebbe più probabili, in particolari circostanze, determinati tipi di strategia cognitiva e di comportamento. Essenzialmente, l’evoluzione avrebbe dotato il nostro cervello dell’apparato necessario per riconoscere particolari situazioni cognitive e scatenare determinate emozioni legate alla gestione di problemi o di opportunità venute a crearsi in relazione a quelle situazioni. La taratura di questo notevole dispositivo dipenderebbe dall’esperienza individuale e dalle influenze ambientali nel corso dello sviluppo.19

Affinché non si pensi che l’evoluzione, col suo bagaglio di geni, abbia semplicemente fatto le cose nel modo migliore donandoci tutti questi comportamenti appropriati, vorrei sottolineare che le emozioni positive e l’altruismo, tanto encomiabile e adattativo, riguardano esclusivamente il gruppo. Nel mondo animale, questi gruppi comprendono i branchi di lupi e le bande di scimmie antropomorfe. Nell’uomo, abbiamo la famiglia, la tribù, le città e le nazioni. La storia evolutiva di tali reazioni mostra che, al contrario, l’atteggiamento nei confronti di estranei dev’essere stato tutt’altro che amichevole. Indirizzate all’esterno della cerchia di individui che ne rappresentano il normale bersaglio, le emozioni positive possono facilmente trasformarsi in reazioni malevole e brutali. Ne derivano rabbia, risentimento e violenza, che riconosciamo come possibili forme embrionali degli odi tribali, del razzismo e della guerra. E giunto il momento di ricordare che la parte migliore del comportamento umano non è necessariamente cablata sotto il controllo del genoma. La storia della nostra civiltà è, in una certa misura, la storia dei tentativi di estendere i nostri migliori «sentimenti morali» a una cerchia di esseri umani sempre più ampia, superando le limitazioni del piccolo gruppo e abbracciando alla fine l’intera umanità. Basta leggere i titoli dei giornali per rendersi conto di quanto siamo lontani da questo traguardo.

Ma la natura ha anche altri lati oscuri con i quali dobbiamo fare i conti. Il tratto della dominanza - come il suo complementare, la sottomissione - è una componente importante delle emozioni sociali. La dominanza ha un aspetto positivo, in quanto gli individui dominanti tendono a inventare soluzioni ai problemi della comunità. Conducono le trattative e, all’occorrenza, le operazioni militari; trovano la via della salvezza lungo le piste che portano all’acqua, alla frutta, al riparo - oppure l’additano incamminandosi sulla strada dei profeti e dei saggi. Tuttavia, quegli stessi individui dominanti possono anche diventare bulli prepotenti, tiranni e despoti, soprattutto quando il potere si accompagna al carisma, suo malvagio gemello. In tal caso, possono condurre malamente i negoziati e trascinare gli altri in guerre sbagliate. In questi individui, l’esibizione delle emozioni positive è riservata a una cerchia ristretta, costituita da loro stessi e dai loro più vicini sostenitori. In modo analogo, i tratti della subordinazione - senz’altro utili nel raggiungere accordo e consenso in una situazione conflittuale - possono anche rendere gli individui codardi dinanzi a un tiranno, accelerando la caduta di un’intera collettività per un semplice eccesso di obbedienza.

In quanto creature coscienti, dotate di intelligenza e creatività e immerse in un ambiente culturale, noi esseri umani siamo stati in grado di forgiare le regole dell’etica, di strutturarne la codificazione nelle leggi, e di progettare le modalità di applicazione di queste ultime. Saremo coinvolti in questo sforzo anche in futuro. Non meno importante, per la comprensione di questi fenomeni, è la collettività degli organismi interattivi - nell’ambiente sociale e nella cultura che una tale comunità produce, nonostante la cultura sia anch’essa condizionata in larga misura dall’evoluzione e dalla neurobiologia. Sicuramente il ruolo benefico della cultura è legato all’accuratezza della descrizione scientifica della natura umana di cui la cultura stessa si serve per forgiare il proprio percorso futuro. Ed è qui che la moderna neurobiologia, integrata nel tessuto tradizionale delle scienze sociali, può fare la differenza.

In buona parte per le stesse ragioni, il fatto di chiarire i meccanismi biologici alla base dei comportamenti etici non implica che quei meccanismi, o la loro disfunzione, siano la sola causa di un particolare comportamento. Essi possono essere determinanti, ma non necessariamente. Il sistema è talmente complesso e stratificato da operare con un certo grado di libertà.

Io credo, e questo non dovrebbe sorprendere, che il comportamento morale sia legato al funzionamento di particolari sistemi cerebrali. Questi ultimi, tuttavia, non sono centri - noi non abbiamo qualcosa di simile a uno o più «centri della morale». Nemmeno la corteccia prefrontale ventromediale dovrebbe essere concepita come un «centro». Inoltre, è probabile che i sistemi sottesi ai comportamenti etici non siano dedicati esclusivamente a essi. Piuttosto, sono dedicati alla regolazione dei processi biologici, alla memoria, ai processi decisionali e alla creatività. Quanto ai comportamenti etici, essi sono i meravigliosi e utilissimi effetti collaterali di tutte quelle altre attività. Ma io non vedo alcun centro morale nel cervello, e nemmeno un sistema morale in quanto tale.

Sulla scorta di queste ipotesi, allora, il ruolo fondamentale dei sentimenti appare legato alla loro naturale funzione di monitoraggio dei processi vitali. Fin da quando emersero, il loro ruolo naturale dovette essere quello di tenere presenti le condizioni della vita facendo in modo che esse avessero un peso nell'organizzazione del comportamento. Proprio perché i sentimenti continuano a svolgere questa funzione, io credo che debbano avere anche una parte essenziale nella valutazione, nello sviluppo e addirittura nell’applicazione degli strumenti culturali ai quali stiamo qui alludendo.20

Se i sentimenti indicano lo stato vitale in ciascun essere umano, possono farlo anche in qualsiasi gruppo umano, grande o piccolo che sia. Una riflessione intelligente sul rapporto tra i fenomeni sociali e l’esperienza di sentimenti di gioia e dolore sembra indispensabile ai fini di quella perenne attività umana che consiste nell’escogitare sistemi di organizzazione giuridica e politica. Fatto forse ancor più importante, i sentimenti, e specialmente quelli di gioia e di dolore, possono ispirare la creazione di condizioni che, nell’ambiente fisico e culturale, promuovano la riduzione del dolore e il potenziamento del benessere a livello sociale. In questa direzione, negli ultimi secoli, gli sviluppi della biologia e il progresso delle tecnologie mediche hanno costantemente migliorato la condizione umana. Altrettanto hanno fatto le scienze e le tecnologie che hanno a che fare con il controllo e la gestione dell’ambiente fisico. In una certa misura, altrettanto hanno fatto le arti. E anche, sempre in una certa misura, lo sviluppo economico nelle nazioni democratiche.21



L’OMEOSTASI E L’ORGANIZZAZIONE DELLA VITA SOCIALE

La vita umana è regolata innanzitutto dai dispositivi naturali e automatici dell’omeostasi: equilibri metabolici, appetiti, emozioni, eccetera. Questa riuscitissima organizzazione garantisce qualcosa di assolutamente sorprendente, e cioè che tutte le creature viventi abbiano uguale accesso alle soluzioni automatiche per risolvere i problemi fondamentali della vita, in modo commisurato alla complessità del loro organismo e della nicchia ambientale che occupano. La regolazione della nostra vita adulta, tuttavia, deve spingersi oltre quelle soluzioni automatiche; il nostro ambiente infatti è talmente complesso, dal punto di vista fisico e sociale, che facilmente insorgono conflitti causati dalla competizione per le risorse necessarie alla sopravvivenza e al benessere. Processi semplici, come l’ottenimento del cibo e il reperimento di un partner sessuale, diventano attività complicate. A essi vanno poi ad aggiungersi molti altri processi elaborati: pensate alle attività di produzione, commerciali e bancarie; all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle assicurazioni; e a tutte le numerose altre attività di supporto, che nell’insieme costituiscono una società umana dotata di un’economia. La nostra vita deve essere regolata non solo sulla base dei nostri desideri e dei nostri sentimenti, ma anche dal nostro interesse per i desideri e i sentimenti altrui, interesse espresso sotto forma di convenzioni sociali e norme di comportamento etico. Quelle convenzioni e quelle regole - come pure le istituzioni che le fanno rispettare: la religione, la giustizia e le organizzazioni sociopolitiche - diventano meccanismi per esercitare l’omeostasi a livello del gruppo sociale. A loro volta, anche attività come la scienza e la tecnologia contribuiscono ai meccanismi dell’omeostasi sociale.

Nessuna delle istituzioni implicate nella regolazione del comportamento sociale tende a essere considerata come un dispositivo per regolare la vita - forse perché spesso esse non riescono a fare bene il loro lavoro, oppure perché la loro finalità immediata ne maschera la connessione con i processi vitali. Il fine ultimo di quelle istituzioni, tuttavia, è proprio quello di regolare la vita in un particolare ambiente. Con leggere variazioni di accento, a livello individuale o collettivo, direttamente o indirettamente, tutte mirano a proteggere la vita e a evitare la morte, aumentando nel contempo il benessere e riducendo la sofferenza.

Questo fu molto importante per gli esseri umani: infatti, quando le condizioni ambientali - non solo fisiche, ma anche sociali - diventano eccezionalmente complesse la regolazione automatica dei processi vitali non può spingersi oltre. Senza l’aiuto della riflessione, dell’insegnamento e degli strumenti formali della cultura, le specie non umane esibiscono comportamenti utili che vanno dal banale (trovare del cibo o un partner sessuale) al sublime (mostrar compassione verso qualcun altro). Ma volgiamo per un attimo lo sguardo agli esseri umani. Di certo, noi non possiamo fare a meno di alcun elemento dell’apparato comportamentale innato trasmesso geneticamente. D’altra parte è evidente che, mentre le società umane si andavano facendo più complesse - e cioè negli ultimi diecimila anni almeno, a partire dallo sviluppo dell’agricoltura - la sopravvivenza e il benessere dell’uomo dipesero da un ulteriore meccanismo di regolazione non automatica, attivo in uno spazio sociale e culturale. Mi riferisco a ciò che solitamente associamo al ragionamento e alla libera decisione.22 Non soltanto noi esseri umani mostriamo compassione per la sofferenza altrui - cosa di cui son capaci anche i bonobo e altre specie non umane - ma sappiamo anche che stiamo provando compassione e, forse come conseguenza, interveniamo in qualche modo sulle circostanze che hanno provocato quell’emozione e quel sentimento.

La natura ha avuto a disposizione milioni di anni per perfezionare i meccanismi automatici dell’omeostasi, mentre quelli non automatici hanno una storia limitata a qualche migliaio di anni. Ma io ravviso ulteriori notevoli differenze fra i due tipi di meccanismi. Una differenza fondamentale ha a che fare con i «fini» in relazione ai «mezzi». Nel caso dei dispositivi automatizzati, gli uni e gli altri sono ben consolidati ed efficaci. Quando invece consideriamo i dispositivi non automatici, vediamo che mentre su alcuni obiettivi - per esempio quello di non uccidere - vi è un largo consenso, molti altri sono ancora materia di discussione - come l’aiuto a malati e bisognosi. Inoltre, i mezzi per raggiungere gli obiettivi sono cambiati notevolmente a seconda del gruppo umano e del periodo storico considerato, e sono tutt’altro che fissati. Può darsi che i sentimenti abbiano contribuito a precisare gli obiettivi che definiscono l’umanità nella sua forma più alta: non fare del male al prossimo tuo, ma cerca il suo bene. La storia dell’umanità è tuttavia quella di una continua lotta per trovare mezzi accettabili per realizzare quei fini. Per quanto limitato, l’obiettivo del marxismo era per certi versi lodevole, giacché l’intenzione dichiarata era quella di creare un mondo più giusto. Ciò nondimeno, i mezzi scelti furono disastrosi, anche perché vennero frequentemente in conflitto con i ben consolidati meccanismi di regolazione automatica dei processi vitali. Il bene della collettività più ampia spesso richiedeva la sofferenza e il dolore di molti individui, e il risultato fu una tragedia umana dai costi elevatissimi. L’immaturità e la fragilità dei dispositivi non automatici sono evidenti nel nazismo, in cui sia il fine che i mezzi erano profondamente sbagliati. Per molti aspetti, quindi, i dispositivi non automatici sono ancora nella fase di messa a punto, ancora intralciati dall’enorme difficoltà di negoziare obiettivi e trovare mezzi che non violino altri aspetti della regolazione della vita. In questa prospettiva, io credo che i sentimenti rimangano essenziali per mantenere gli obiettivi che il gruppo culturale considera inviolabili e meritevoli di perfezionamento. I sentimenti sono anche una guida indispensabile per escogitare e negoziare procedure che, in qualche modo, non vadano a cozzare con la fondamentale regolazione dei processi vitali, né stravolgano l’intenzione alla base dell’obiettivo. I sentimenti rimangono importanti, come quando gli esseri umani capirono, per la prima volta, che uccidere il proprio simile era un’azione discutibile.

In parte, le convenzioni sociali e le regole morali possono essere considerate estensioni, a livello sociale e culturale, dei fondamentali dispositivi omeostatici. Il risultato della loro applicazione è infatti lo stesso ottenuto dai principali dispositivi omeostatici, quali per esempio la regolazione metabolica o gli appetiti: un equilibrio della vita che assicura sopravvivenza e benessere. Ma l’analogia non si ferma qui. Essa si spinge ai livelli di organizzazione superiori, di cui i gruppi sociali sono parte. La costituzione su cui si regge uno Stato democratico, le leggi conformi a quella costituzione, e la loro applicazione in un sistema giudiziario sono anch’essi tutti dispositivi omeostatici, legati da un lungo cordone ombelicale agli altri livelli di regolazione sui quali sono modellati: appetiti e desideri, emozioni e sentimenti, nonché il controllo cosciente di entrambi. Così è per lo sviluppo, cominciato nel ventesimo secolo e ancora nella sua prima infanzia, di organismi internazionali quali l’Organizzazione mondiale della Sanità, l’unesco e le tanto bistrattate Nazioni Unite. Tutte queste istituzioni possono essere considerate parte integrante della nostra tendenza a promuovere l’omeostasi su vasta scala. Pur ottenendo talvolta risultati apprezzabili, questi organismi soffrono di molti mali e spesso le loro politiche si ispirano a concezioni errate dell’uomo, che non tengono nel debito conto i fatti della scienza. Eppure, con tutti i loro difetti, sono un segno di progresso e un faro di speranza, per quanto fioca sia la sua luce. E vi sono altre ragioni di speranza. Lo studio delle emozioni sociali sta muovendo i primi passi. Se le indagini cognitive e neurobiologiche sulle emozioni e i sentimenti potessero unire le proprie forze a quelle, per esempio, dell’antropologia e della psicologia evoluzionista, sarebbe possibile verificare alcune delle ipotesi contenute in questo capitolo. Potremmo sollevare un velo su come biologia e cultura umane davvero si mescolino dietro le apparenze, e riusciremmo forse a capire in che modo il genoma e l’ambiente fisico e sociale abbiano interagito durante la lunga storia dell’evoluzione.

Il contenuto delle idee che ho appena esposto, torno a sottolinearlo, dev’essere ancora analizzato. Una proposta formale per la neurobiologia dei comportamenti etici esula dallo scopo di questo libro, come pure la discussione di queste idee in una prospettiva storica.23



IL FONDAMENTO DELLA VIRTÙ

Al principio di questo libro ho scritto che il mio ritorno a Spinoza avvenne quasi per caso, quando cercai di controllare l’accuratezza di una citazione che mi ero appuntato su un pezzo di carta ingiallito: un legame con lo Spinoza che avevo letto tanto tempo prima. Perché l’avevo conservata? Forse perché era qualcosa di cui avevo intuito la specificità e il carattere illuminante. Tuttavia, non mi ero mai soffermato ad analizzarla in dettaglio finché essa non si trasferì dalla mia memoria alla pagina su cui stavo lavorando.

Il passo in questione (Etica, IV, proposizione 18, scolio) recita: «... il fondamento della virtù è lo stesso sforzo (conatum) di conservare il proprio essere, e ... la felicità consiste appunto nel fatto che l’uomo può conservare il suo essere». Nell’originale latino, «... virtutis fundamentum esse ipsum conatum proprium esse conservandi, et felicitatem in eo consistere, quod homo suum esse conservare potest». Prima di procedere, è d’obbligo un commento sui termini usati da Spinoza. Come abbiamo già visto, conatus può essere reso con «sforzo», «tentativo» o «tendenza», e può darsi che Spinoza intendesse uno qualunque di questi significati, o forse un loro amalgama. Inoltre, la parola virtus può riferirsi non solo al suo significato morale tradizionale, ma anche alla «potenza» e alla «capacità di agire». Tornerò su questo punto. Stranamente Spinoza usa qui la parola félicitas, che è tradotta benissimo con «felicità», invece di laetitia, che può essere resa con «gioia», «esaltazione», «piacere» e «felicità».

Di primo acchito, le sue parole suonano come una ricetta della cultura egoista dei nostri tempi, ma nulla potrebbe esser più lontano dal loro reale significato. Per come la interpreto io, quella proposizione è la pietra angolare di un sistema etico generoso. Alla base di qualsiasi regola di comportamento che si possa imporre all’umanità - afferma Spinoza - c'è qualcosa di inalienabile: un organismo vivente, conosciuto dal suo possessore perché la mente del possessore ha costruito un sé, ha una naturale tendenza a preservarsi in vita; e il buon funzionamento, incluso nel concetto di gioia, consegue dal suo sforzo, coronato dal successo, di resistere e conservarsi. Parafrasandola in termini profondamente americani, riscriverei la proposizione 18 come segue: «Ritengo di per se stesse evidenti le seguenti verità: che tutti gli uomini sono creati con la tendenza a preservare la propria vita e a cercare il benessere; che la loro felicità deriva dall’impegnarsi con successo in quel tentativo; e che i fondamenti della virtù poggiano su questi fatti». Echi e risonanze, forse, non sono casuali.

La dichiarazione di Spinoza suona chiara come una campana, ma va approfondita per poterne apprezzare appieno l’impatto. Perché mai l’interesse per se stessi dovrebbe essere la base della virtù, a meno che quella virtù non abbia a che fare solo con il sé individuale? Oppure, in modo più diretto: in che modo Spinoza muove dal singolo individuo a tutti i sé a cui la virtù deve applicarsi? Egli compie quella transizione ricorrendo, ancora una volta, a fatti biologici. Ecco la sua procedura: la realtà biologica dell’autoconservazione conduce alla virtù perché nel nostro inalienabile bisogno di preservare noi stessi siamo necessariamente costretti a contribuire alla conservazione di altri individui, di altri sé. Se non lo facciamo, periamo, violando pertanto il principio fondamentale, e rinunciando alla virtù che risiede nell’autoconservazione. Il fondamento secondario della virtù è pertanto la realtà di una struttura sociale, nonché la presenza di altri organismi, in un complesso sistema di interdipendenza con il nostro. Siamo letteralmente nei guai, ma in senso positivo. In fondo, questa transizione si trova già in Aristotele, ma Spinoza la lega a un principio biologico: l’imperativo dell’autoconservazione.

Ecco dunque il bello della citazione che tanto mi stava a cuore, vista dalla mia attuale prospettiva: essa contiene il fondamento di un sistema di comportamenti etici - un fondamento neurobiologico, derivante da una scoperta basata sull’osservazione della natura umana, e non dalla rivelazione di un profeta.

Gli esseri umani sono come sono: esseri viventi dotati di appetiti, emozioni e altri dispositivi per l’autoconservazione, compresa la capacità di conoscere e di ragionare. La coscienza, nonostante le sue limitazioni, apre la strada alla conoscenza e alla ragione, che a loro volta consentono agli individui di scoprire che cosa sia bene e che cosa sia male. Ancora una volta, il bene e il male non sono rivelati, ma vengono scoperti, individualmente o attraverso accordi stretti fra esseri sociali.

La definizione di bene e di male è semplice e logica. Gli oggetti buoni sono quelli che, riproducibilmente e inesauribilmente, inducono quegli stati di gioia che, secondo Spinoza, aumenterebbero la potenza e la libertà d’azione. Gli oggetti cattivi, viceversa, sono quelli che sortiscono il risultato opposto: il loro incontro con un organismo è percepito da quest’ultimo come un evento spiacevole.

Quanto alle azioni «buone» o «cattive», esse non sono tali solo perché in accordo o meno con gli appetiti e le emozioni dell’individuo. Sono buone azioni quelle che, mentre recano vantaggio all’individuo attraverso appetiti ed emozioni naturali, non danneggiano altri individui. Quell’imperativo è inequivocabile. Un’azione potenzialmente vantaggiosa a livello personale, ma che danneggiasse altri individui, non è cosa buona: fare del male al prossimo, infatti, si accompagna sempre al tormento e alla lunga si ritorce contro l’autore dell’azione. Di conseguenza, tali azioni sono cattive. «Agli uomini è soprattutto utile unire le loro consuetudini e stringersi tra di loro con quei legami mediante i quali riescono meglio a comporre una unità dalla loro totalità, e in generale fare quelle cose che servono a saldare le amicizie» (Etica, IV, capitolo XII dell’Appendice). Nella mia interpretazione, Spinoza vuol dire che il sistema costruisce imperativi etici basati sulla presenza, in ciascuno di noi, di meccanismi di autoconservazione, tenendo però conto anche di elementi sociali e culturali. Dietro ogni singolo sé vi sono gli altri, intesi come individui e come entità sociali, e la loro autoconservazione - in altre parole, i loro appetiti e le loro emozioni - va tenuta presente. L’essenza del conatus, o il concetto che il male fatto ad altri è male fatto a se stessi, non sono invenzioni di Spinoza. Forse, la novità della sua filosofia sta nella potente miscela di quelle due idee.

Lo sforzo di vivere in un’armonia condivisa e pacifica con gli altri è un’estensione dello sforzo di preservare se stessi. I contratti sociali e politici sono estensioni dell’imperativo biologico individuale. Ci è capitato di essere strutturati biologicamente in un certo modo - obbligati a sopravvivere e a ricercare il piacere, anziché il dolore - e da, quella necessità deriva una certa armonia sociale. E ragionevole ipotizzare che la tendenza a cercare un accordo sociale sia stata essa stessa incorporata negli imperativi biologici, almeno in parte, a causa del successo evolutivo di popolazioni il cui cervello esprimeva in notevole misura comportamenti cooperativi.

Al di là della biologia di base vi è una decisione umana: anch’essa ha radici biologiche, ma nasce solo nell’ambiente sociale e culturale, prodotto intellettuale della conoscenza e della ragione. Spinoza lo percepì chiaramente: «Per esempio, è legge universale di tutti i corpi e consegue alla necessità naturale, che ogni corpo quando si incontra con un altro più piccolo perda quella quantità del proprio moto che trasmette all’altro corpo. Così pure è legge che necessariamente consegue alla natura umana che un uomo, ricordando una cosa, subito si ricordi di un’altra simile alla prima, o che ha percepito insieme alla prima. Dipende invece dalla decisione umana il fatto che gli uomini rinuncino o siano costretti a rinunciare al diritto di cui godono per natura e si attengano ad una determinata condotta di vita. E, pur ammettendo in via assoluta che tutto è determinato in vista dell’esistenza e dell’azione dalle leggi universali della natura secondo una norma certa e stabilita, affermo tuttavia che questo secondo tipo di leggi dipende dalla decisione dell’uomo».24

A Spinoza avrebbe fatto piacere sapere che una delle ragioni per cui la decisione umana può radicarsi nella cultura è che l’architettura del nostro cervello tende a facilitarne l’esercizio. È probabile che le forme più semplici di alcuni comportamenti necessari per realizzare quella decisione, come l’altruismo reciproco e la vicendevole critica, non aspettino altro che di essere risvegliate dall’esperienza sociale. Formulare e perfezionare la decisione umana di cui parla Spinoza richiede un grande impegno ma, in una certa misura, il nostro cervello è cablato per cooperare con gli altri al fine di renderla possibile. Questa è la buona notizia. La notizia cattiva, ovviamente, è che molte emozioni sociali negative, unitamente al loro sfruttamento da parte delle culture moderne, rendono la decisione umana difficile da realizzare e da perfezionare.

L’importanza dei fatti biologici nel sistema spinoziano non sarà mai abbastanza apprezzata. Visto alla luce delle moderne conoscenze biologiche, il sistema è condizionato dalla presenza della vita e da una naturale tendenza a preservarla; dal fatto che la conservazione della vita dipende dall’equilibrio delle funzioni vitali e di conseguenza dalla regolazione dei processi vitali; dal fatto che lo status della regolazione dei processi vitali è espresso sotto forma di affetti - gioia, dolore - ed è modulato dagli appetiti; dal fatto, infine, che gli appetiti, le emozioni, e la precarietà della vita possono essere conosciuti e stimati dall’individuo umano grazie alla costruzione del sé, della coscienza e di una ragione basata sulla conoscenza. Gli esseri umani coscienti approfondiscono la propria conoscenza della fragilità della vita, e la trasformano in un interesse. E per tutte le ragioni appena delineate, l’interesse si riversa dal sé all’altro.

Non sto suggerendo che Spinoza abbia mai detto che l’etica, la legge, e l’organizzazione politica fossero dispositivi omeostatici, ma questa idea è compatibile con il suo sistema, visto il modo in cui egli considerava l’etica, la struttura dello Stato e la legge quali mezzi per consentire agli individui di raggiungere lo stato di equilibrio naturale espresso nella gioia.

Spesso si dice che Spinoza non credesse nel libero arbitrio, un concetto che sembra in diretto conflitto con un sistema etico nel quale gli esseri umani decidono di comportarsi in un certo modo in base a chiari imperativi. Spinoza, d’altra parte, non negò mai che noi siamo consapevoli di compiere delle scelte e che siamo realmente in grado di compierle e di controllare il nostro comportamento. Egli raccomandava costantemente di rinunciare a ogni azione che si considerasse sbagliata, a favore di azioni considerate giuste. Tutta la sua strategia per la salvezza umana dipende dal fatto che noi compiamo scelte consapevoli. Il problema, per Spinoza, è che molti comportamenti apparentemente intenzionali possono essere spiegati da precedenti condizioni della nostra costituzione biologica, e che, in ultima analisi, ogni cosa noi pensiamo e facciamo deriva da certe condizioni e processi antecedenti che potremmo non essere in grado di controllare. Ciò nondimeno possiamo sempre pronunciare un categorico no, con la stessa imperativa fermezza con cui l’avrebbe pronunciato Immanuel Kant, per quanto illusoria possa essere la libertà di quel no.

C’è poi, nella proposizione 18 di Spinoza, un altro significato, imperniato sul doppio significato della parola virtù, sull’enfasi data al concetto di felicità, e sui molti commenti che seguono nella quarta e quinta parte dell’Etica. Un certo grado di felicità deriva molto semplicemente dall’agire in conformità con la nostra tendenza all’autoconservazione, né più, né meno. Oltre a esortare l’istituzione di un contratto sociale, Spinoza ci sta dicendo che la felicità coincide con il potere di essere liberi dalla tirannia delle emozioni negative. La felicità non è una ricompensa per la virtù: è la stessa virtù.



A CHE COSA SERVONO I SENTIMENTI?

E dunque, perché abbiamo sentimenti? Che cosa fanno per noi i sentimenti? Ce la caveremmo meglio senza di essi? Si è sempre pensato che fosse impossibile rispondere a queste domande, ma io credo che oggi possiamo invece cominciare ad affrontarle. Tanto per cominciare, abbiamo un’idea di che cosa siano i sentimenti, idea sulla quale è possibile lavorare - e questo è un primo passo nel tentativo di scoprire perché essi esistano e che cosa facciano per noi. E poi, abbiamo appena visto come il sodalizio fra emozione e sentimento abbia un ruolo essenziale nel comportamento sociale e, per estensione, in quello etico. Ciò nondimeno, gli scettici potrebbero rimaner tali, e sostenere che la sola emozione non cosciente basterebbe a guidare il comportamento sociale; o che basterebbero le mappe neurali degli stati emozionali, senza ravvisare alcun bisogno che quelle mappe diventino eventi mentali, ossia sentimenti. Per farla breve, non ci sarebbe alcun bisogno della mente, e meno che mai di una mente cosciente. Vorrei provare a rispondere a questi scettici.

La mia risposta alla domanda «perché?» comincia come segue. Affinché coordini la miriade di funzioni corporee dalle quali dipende la vita, il cervello deve poter disporre di mappe nelle quali siano rappresentati, istante per istante, gli stati dei diversi sistemi del corpo. Il successo di tale operazione dipende proprio da questa massiccia costruzione di mappe. E essenziale conoscere che cosa stia succedendo nei diversi settori del corpo, in modo che determinate funzioni possano essere rallentate, fermate, o innescate, e possano essere effettuate le necessarie correzioni nel controllo dei processi vitali dell’organismo. Esempi della situazione che ho in mente comprendono una lesione locale, inflitta esternamente o causata da un’infezione; o il malfunzionamento di un organo, come il cuore o un rene o, ancora, uno squilibrio ormonale.

Le mappe neurali essenziali per il controllo dei processi vitali si rivelano una base necessaria per l’emergere di quegli stati mentali che chiamiamo sentimenti. Questo ci porta un passo oltre nel cammino verso la risposta alla domanda «perché?»: probabilmente i sentimenti comparvero come prodotti collaterali del coinvolgimento del cervello nel controllo dei processi vitali. Se non fossero esistite mappe neurali dello stato corporeo, non avrebbe mai potuto comparire qualcosa di simile ai sentimenti.

Queste risposte possono sollevare qualche obiezione. Per esempio, si potrebbe sostenere che - poiché i processi fondamentali di regolazione e gestione delle funzioni vitali sono automatici e non consci - i sentimenti, che nel senso consueto del termine sono consci, sono superflui. Uno scettico potrebbe asserire che il cervello sarebbe perfettamente in grado di coordinare i processi vitali ed eseguire le necessarie correzioni fisiologiche sulla base delle sole mappe neurali, senza alcun aiuto da parte di sentimenti coscienti. La mente non avrebbe alcun bisogno di conoscere il contenuto di quelle mappe. Questa argomentazione è corretta solo in parte. In una certa misura, è abbastanza vero che le mappe dello stato del corpo assistono il cervello nel controllo dei processi vitali anche quando il «proprietario» dell’organismo non è a conoscenza dell’esistenza di quelle mappe. Tuttavia, l’obiezione si lascia sfuggire un punto importante stabilito in precedenza. Ed è che, in assenza di sentimenti coscienti, le mappe dello stato del corpo possono fornire al cervello un’assistenza limitata. Esse funzionano per risolvere problemi di un certo grado di complessità, ma non vanno oltre; quando il problema diventa troppo complicato - quando richiede un misto di risposte automatiche e di ragionamento o conoscenza accumulata - le mappe non coscienti non sono più d’aiuto; in tali circostanze, i sentimenti si rivelano invece molto utili.

Che cosa aggiunge dunque il livello del sentimento alla risoluzione di problemi e al processo decisionale, che non possa essere offerto dal livello delle mappe neurali di quegli stessi eventi, così come è attualmente descritto dalle neuroscienze? Secondo me, esistono due ordini di risposte: uno ha a che fare con lo status dei sentimenti come eventi mentali che hanno luogo nella mente cosciente; l’altro con ciò che i sentimenti rappresentano.

Il fatto che i sentimenti siano eventi mentali è importante per la seguente ragione. Essi ci aiutano a risolvere problemi non standard che implicano creatività, giudizio e processi decisionali, e che richiedono l’esibizione e la manipolazione di grandi quantità di conoscenza. Nelle operazioni biologiche, solo il «livello mentale» permette l’integrazione tempestiva delle grandi quantità di informazioni necessarie per i processi decisionali. Poiché i sentimenti hanno quel necessario livello mentale, possono entrare nella mischia e influenzare le operazioni. Alla fine del capitolo 5, tornerò su questo problema: qual è il vantaggio offerto agli organismi dalla presenza di un livello mentale di elaborazione neurale, vantaggio assente in corrispondenza degli altri livelli?

Il contributo dei sentimenti al dibattito della mente è altrettanto importante. I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno anche un sé autobiografico - il senso di un passato personale e di un futuro anticipato, senso noto anche come coscienza estesa - lo stato del sentimento induce il cervello a porre in posizione saliente gli oggetti e le situazioni legati all’emozione. Se necessario, il processo di stima che porta dall’isolamento dell’oggetto al sorgere dell’emozione può essere rivisitato e analizzato. Inoltre, i sentimenti coscienti richiamano anche l’attenzione sulle conseguenze della situazione in atto: qual è l’oggetto che ha indotto l’emozione in questione? In che modo l’oggetto causativo influenza la persona che sente? Quali sono i pensieri della persona? Poiché hanno luogo in uno scenario autobiografico, i sentimenti generano un interesse per l’individuo che li sperimenta. Il passato, il presente e il futuro anticipato ricevono la giusta attenzione e hanno maggiori possibilità di influenzare il ragionamento e il processo decisionale.

Quando vengono notificati al sé all’interno dell'organismo, i sentimenti migliorano e amplificano il processo di controllo delle funzioni vitali. I meccanismi alla base dei sentimenti consentono le correzioni biologiche necessarie alla sopravvivenza offrendo informazioni esplicite e bene evidenziate riguardo allo stato in cui versano le diverse componenti dell’organismo, istante per istante. I sentimenti contrassegnano le mappe neurali con un timbro che dice: «Fa’ attenzione qua!».

Riassumendo, si potrebbe dire che i sentimenti sono necessari in quanto espressione a livello mentale delle emozioni e di ciò che sta alla base di esse. Solo al livello mentale dell’elaborazione biologica, e alla piena luce della coscienza, ha luogo un’integrazione sufficiente del presente, del passato e del futuro anticipato. Solo a quel livello è possibile che le emozioni creino, attraverso i sentimenti, l’interesse per il sé individuale. La soluzione efficace ai problemi non standard richiede infatti la flessibilità e l’elevato potere di raccolta di informazioni che possono essere offerti dai processi mentali, nonché l’interesse mentale che può essere acceso dai sentimenti.

Il processo di apprendimento e di richiamo di eventi emozionalmente competenti è diverso in presenza o in assenza di sentimenti coscienti. Alcuni sentimenti ottimizzano l’apprendimento e il recupero dei dati dalla memoria. Altri, in particolare quelli estremamente dolorosi, perturbano l’apprendimento e sopprimono il ricordo, quale misura protettiva. In generale, il ricordo della situazione sentita promuove, a livello cosciente oppure no, l’evitamento degli eventi associati ai sentimenti negativi e la ricerca di situazioni che potrebbero invece causare sentimenti positivi.25

Non dovremmo sorprenderci del fatto che il meccanismo neurale alla base dei sentimenti sia stato ostinatamente conservato nel corso dell’evoluzione. I sentimenti non sono superflui. Tutto quel pettegolezzo che affiora dal profondo si rivela preziosissimo. Non è solo questione di confidare nei sentimenti quali necessari arbitri del bene e del male. Si tratta invece di scoprire le circostanze in cui essi possono effettivamente essere arbitri, e di usare un abbinamento ragionato di circostanze e sentimenti come guida al comportamento umano.