2. APPETITI ED EMOZIONI
ONORE A SHAKESPEARE
Il merito d’esservi arrivato per primo va a Shakespeare. Verso la fine del Riccardo Il, persa ormai la corona e con la prospettiva incombente del carcere, Riccardo parla a Bolingbroke, seppure inconsapevolmente, di una possibile distinzione tra emozione e sentimento.1 Il re chiede uno specchio e guarda il proprio volto, studiando lo spettacolo della devastazione. Poi osserva che le «forme esteriori di rammarico» espresse dal suo volto non sono che «ombre della pena che non si vede», una pena che «cresce in silenzio nell’animo torturato». Il suo dolore, egli dice, sta «tutto dentro». In soli quattro versi, Shakespeare proclama che il processo dell’affetto, in apparenza unico e monolitico - quel processo che tanto spesso, con indifferente disinvoltura, noi chiamiamo emozione o sentimento - può invece essere scomposto e analizzato nelle sue parti.
La strategia di cui intendo servirmi per delucidare i sentimenti fa tesoro di questa distinzione. Certo, è vero che nel suo uso comune la parola «emozione» tende ad abbracciare anche il concetto di sentimento, ma nel nostro tentativo di comprendere la complessa sequenza di eventi che parte dall’emozione e arriva al sentimento, può essere utile operare una separazione di principio fra le componenti del processo esibite e rese pubbliche e quelle che invece rimangono private. Ai fini della mia ricerca, chiamerò la prima componente emozione, la seconda sentimento, in conformità con il significato del termine «sentimento» che ho delineato in precedenza. Se chiedo al lettore di seguirmi in questa scelta di termini e concetti, è per una buona ragione: essa infatti può permetterci di scoprire qualcosa sulla biologia alla base di tali processi. Prometto che alla fine del terzo capitolo ricongiungerò emozione e sentimento.2
Nel contesto di questo libro, dunque, le emozioni sono azioni o movimenti in larga misura pubblici, ossia visibili ad altri nel momento in cui hanno luogo, manifestandosi nel volto, nella voce o in comportamenti specifici. Sicuramente, alcune componenti del processo non sono percepibili a occhio nudo, ma possono essere rese «visibili» grazie ai metodi d’indagine scientifica di cui attualmente disponiamo, per esempio effettuando dosaggi ormonali e registrando il comportamento di parametri elettrofisiologici. I sentimenti, d’altro canto, sono sempre nascosti, come lo sono necessariamente tutte le immagini mentali, invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo proprietario; essi rimangono pertanto la proprietà più spiccatamente privata dell’organismo nel cui cervello hanno luogo.
Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i sentimenti in quello della mente.3 Come vedremo, le emozioni e tutte le reazioni affini su cui esse si fondano fanno parte dei meccanismi elementari preposti alla regolazione dei processi vitali; anche i sentimenti contribuiscono a tale regolazione, ma a un livello superiore. Nella storia della vita, emozioni e reazioni affini precedono i sentimenti, di cui rappresentano la base portante; alla base della nostra mente, esse sono eventi dei quali vorremmo chiarire la natura.
Emozioni e sentimenti sono così intimamente legati, in un processo senza soluzione di continuità, che noi tendiamo, comprensibilmente, a pensarli come una cosa sola. D’altra parte, in condizioni normali è possibile individuare, all’interno di quella continuità, segmenti diversi che è lecito isolare gli uni dagli altri sotto la lente d’ingrandimento della neuroscienza cognitiva. Un osservatore può esaminare i comportamenti che costituiscono un’emozione in modo obiettivo, sia a occhio nudo sia avvalendosi di un gran numero di strumenti scientifici. In effetti, noi possiamo studiare il preludio al processo del sentimento. Fare di emozione e sentimento oggetti di ricerca separati e distinti ci aiuta a scoprire le modalità di quel processo.
Obiettivo di questo capitolo è quello di spiegare i meccanismi, fisici e cerebrali, responsabili dell’induzione e dell’esecuzione di un’emozione. Più che sulle circostanze che inducono l’emozione, l’attenzione qui si concentra sul suo «meccanismo intrinseco». Mi aspetto che il chiarimento delle emozioni ci spieghi l’emergere dei sentimenti.
L’EMOZIONE PRECEDE IL SENTIMENTO
Nel discutere la precedenza dell’emozione sul sentimento vorrei innanzitutto richiamare l’attenzione su una certa ambiguità nelle battute che Shakespeare scrisse per Riccardo. Essa ha a che fare con la parola «ombra» e con la possibilità che, sebbene emozione e sentimento siano distinti, il secondo preceda la prima. Le «forme esteriori di rammarico», dice Riccardo, sono ombre di un dolore non visto, una sorta d’immagine speculare dell’oggetto principale - cioè del sentimento di dolore -, proprio come il volto di Riccardo nello specchio è il riflesso dell’oggetto principale del dramma: Riccardo. Questa ambiguità entra facilmente in risonanza con i suggerimenti di un’intuizione non guidata. Tutti noi tendiamo a vedere la fonte di ciò che viene espresso in qualcosa di nascosto. Inoltre, noi sappiamo che quel che conta davvero, per quanto riguarda la mente, è il sentimento. «Qui sta la sostanza» dice Riccardo, parlando del suo dolore nascosto, e noi siamo d’accordo. Sono i sentimenti autentici a dispensarci sofferenza o piacere. In senso stretto, le emozioni sono esteriorità. D’altra parte, «principale» non significa «primo» o «causativo». La centralità dei sentimenti finisce per oscurare la materia stessa da cui essi derivano, favorendo quindi l’idea che essi sorgano per primi e vengano successivamente espressi come emozioni. Tale concezione non è corretta ed è almeno in parte responsabile del nostro ritardo nell’ottenere una descrizione neurobiologica plausibile dei sentimenti.
A ben vedere, risulta che sono soprattutto i sentimenti le ombre dei lamenti esteriori delle emozioni. In effetti, ecco che cosa avrebbe dovuto dire Riccardo, con tutte le dovute scuse a Shakespeare: «Oh, queste forme esteriori dei miei lamenti gettano un’ombra di dolore invisibile e intollerabile nel silenzio del mio animo torturato». (Il che mi fa venire in mente James Joyce, quando, nell’Ulisse, dice che «Shakespeare è la felice riserva di caccia di tutte le menti che hanno perso l’equilibrio»).4
A questo punto è legittimo chiedersi perché le emozioni precedano i sentimenti. La risposta è semplice: se abbiamo le emozioni prima e i sentimenti poi è perché nell’evoluzione essi comparvero in quest’ordine. Le emozioni sono costruite a partire da semplici reazioni che promuovono la sopravvivenza di un organismo e che pertanto si conservarono nell’evoluzione.
Per farla breve, gli dèi provvidero prima di tutto a rendere prontamente reattive le creature che premeva loro di salvare - o almeno così sembra. A quanto pare, molto tempo prima che gli esseri viventi disponessero di qualcosa di simile a un’intelligenza creativa, addirittura prima che avessero un cervello, la natura aveva deciso che la vita fosse, al tempo stesso, molto preziosa e molto precaria. Noi sappiamo benissimo che la natura non opera seguendo un progetto, né prende decisioni nello stesso modo in cui lo fanno artisti e ingegneri; ma questa immagine serve a far capire il punto. Tutti gli organismi viventi, dall’umile ameba all’essere umano, nascono dotati di meccanismi progettati per risolvere automaticamente, senza bisogno di alcun ragionamento, i fondamentali problemi della vita, e precisamente: il reperimento di fonti di energia; l’incorporazione e la trasformazione di quell’energia nell’organismo; la conservazione di un equilibrio chimico interno compatibile con la vita; la conservazione della struttura dell’organismo mediante la riparazione dei danni prodotti dall’usura; e la difesa da agenti esterni causa di malattia e di danni fisici. Il termine «omeostasi» è un modo comodo e conciso per indicare l’insieme dei sistemi di regolazione e lo stato di vita, caratterizzato da processi ben regolati, che ne risulta.5
Nel corso dell’evoluzione, la dotazione innata e automatizzata per il controllo dei processi vitali - in altre parole, la macchina omeostatica - in possesso degli organismi divenne sofisticatissima. Al livello più basso dell’organizzazione omeostatica troviamo semplici reazioni, come l'avvicinamento o l'allontanamento di un intero organismo rispetto a un certo oggetto; oppure un aumento dell’attività (attivazione) o una sua diminuzione ( calma o quiescenza). A livelli superiori dell’organizzazione troviamo reazioni competitive o cooperative.6 Possiamo immaginare la macchina dell’omeostasi come un grande, ramificatissimo albero di fenomeni deputati alla regolazione automatica della vita. Negli organismi pluricellulari, procedendo dal basso verso l’alto, ecco che cosa troveremo ai diversi livelli dell’albero:
Sui rami più bassi:
• Il processo del metabolismo. Esso comprende componenti chimiche e meccaniche (per esempio le secrezioni endocrine/ormonali; le contrazioni muscolari implicate nella digestione, ecc.) mirate al mantenimento degli equilibri chimici interni. Queste reazioni controllano, fra l’altro, la frequenza cardiaca e la pressione ematica (che contribuiscono a un’appropriata distribuzione del sangue nell’organismo); le piccole variazioni di acidità e alcalinità del milieu interno (nei fluidi circolanti all’interno dei vasi come in quelli presenti negli spazi intercellulari); il deposito e la mobilizzazione di proteine, lipidi e carboidrati necessari per rifornire l’organismo di energia (quest’ultima indispensabile per il movimento, per la sintesi degli enzimi e per la conservazione e il rinnovamento della struttura dell’organismo stesso).
• I riflessi fondamentali. Essi comprendono il riflesso di trasalimento, con il quale l’organismo reagisce a un rumore o a uno stimolo tattile; oppure tropismi o tassie che in alcuni casi allontanano gli organismi dal calore e dal freddo estremi e in altre circostanze li guidano verso la luce, lontano dal buio.
• Il sistema immunitario. Esso è pronto a scongiurare gli attacchi di virus, batteri, parassiti e molecole tossiche che aggrediscono l’organismo dall’esterno. Stranamente, esso è pronto anche a combattere molecole normalmente presenti nelle cellule sane dell’organismo (per esempio i prodotti del catabolismo dell’acido ialuronico; il glutammato), che possono tuttavia diventare pericolose quando vengono liberate nel milieu interno dalle cellule morte. In breve, di fronte a una minaccia all’integrità dell’organismo, interna o esterna che sia, il sistema immunitario rappresenta la prima linea di difesa.
Sui rami intermedi:
• Comportamenti normalmente associati all’idea del piacere (e della gratificazione) o del dolore (e della punizione). Comprendono reazioni di avvicinamento o allontanamento dell’intero organismo rispetto a un oggetto o a una situazione specifici. Negli esseri umani - che sono in grado di sentire e riferire ciò che percepiscono - tali reazioni sono descritte come dolorose o piacevoli, gratificanti o punitive. Per esempio, in presenza di una disfunzione e di un imminente danno tissutale - come accade nel caso di ustioni o infezioni circoscritte -, le cellule della regione colpita emettono segnali chimici denominati nocicettivi (che significa «indicativi di dolore»). Automaticamente, l’organismo reagisce con i comportamenti tipici del dolore o della malattia. Si tratta di pacchetti di azioni, a seconda dei casi chiaramente visibili o impercettibili, con i quali la natura automaticamente contrasta l’insulto. Tali azioni comprendono l’allontanamento di tutto il corpo o di una sua parte dalla fonte del disturbo, qualora essa sia esterna all’organismo e identificabile; la protezione della parte del corpo colpita (l’atto di tenersi una mano ferita; o quello di abbracciarsi il torace o l’addome); ed espressioni facciali di allarme e sofferenza. Esiste poi anche un repertorio
Figura 2.1 I livelli della regolazione omeostatica automatica, dal più semplice al più complesso.
di risposte invisibili a occhio nudo, messe in atto dal sistema immunitario. Esse comprendono il potenziamento di alcune classi di leucociti e il loro invio nelle aree dell’organismo esposte al pericolo; nonché la produzione di sostanze chimiche come le citochine che contribuiscono a risolvere il problema (debellare un microbo invasore, riparare un tessuto danneggiato). Nel loro complesso, queste azioni, unitamente ai segnali chimici implicati nella loro produzione, rappresentano la base di ciò che noi sperimentiamo come dolore.Proprio come reagisce ai problemi, il cervello reagisce anche al buon funzionamento dell’organismo. In assenza di disturbi o impedimenti, quando può procedere facilmente alla trasformazione e all’utilizzo dell’energia, l’organismo si comporta in un modo particolare. L’approccio verso gli altri risulta facilitato; si assiste a un rilassamento e a un’apertura della struttura fisica; compaiono espressioni facciali di fiducia e benessere; sono prodotte alcune classi di sostanze chimiche, come le endorfine, invisibili a occhio nudo proprio come lo sono certe reazioni tipiche dei comportamenti legati al dolore e alla malattia. L’insieme di tutte queste azioni e dei segnali chimici associati rappresenta la base dell’esperienza del piacere.Il dolore o il piacere sono indotti da molte cause - di volta in volta può trattarsi del difetto insorto in una funzione corporea; oppure di una regolazione metabolica ottimale; o ancora di eventi esterni che danneggiano o proteggono l’organismo. Comunque sia, l'esperienza del dolore o del piacere non è la causa dei comportamenti a essi tipicamente associati e non è assolutamente necessaria affinché quei comportamenti abbiano luogo. Come vedremo nel prossimo paragrafo, esistono creature semplicissime che possono eseguire alcuni di questi comportamenti emotivi nonostante la probabilità - scarsa o nulla - che esse possano averne un’esperienza.
Al livello immediatamente superiore:
• Impulsi e motivazioni. Esempi fondamentali comprendono la fame, la sete, la curiosità e l’esplorazione, il gioco e il sesso. Spinoza li raggruppò tutti insieme servendosi di una parola molto adatta, appetiti, e con una grande raffinatezza ne usava un’altra, desideri, per descrivere la particolare situazione in cui individui coscienti hanno una cognizione dei propri appetiti. La parola «appetito» indica lo stato comportamentale di un organismo assorbito da un particolare impulso; la parola «desiderio» si riferisce invece al sentimento cosciente di avere un appetito e alla sua consumazione o al suo soffocamento finali. Questa distinzione spinoziana è elegantemente complementare a quella fra emozione e sentimento che abbiamo presentato in apertura di questo capitolo. Com’è ovvio, gli esseri umani hanno sia appetiti che desideri, connessi fra loro senza soluzione di continuità, proprio come lo sono emozioni e sentimenti.
Più in alto, ma non ancora in cima:
• Le emozioni vere e proprie. È qui che troviamo il capolavoro della regolazione automatica dei processi vitali: si tratta delle emozioni in senso stretto, che spaziano dalla gioia, il dolore e la paura, all’orgoglio, la vergogna e la compassione. E nel caso in cui vi stiate chiedendo che cosa ci sia proprio in cima, la risposta è semplice: i sentimenti, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
Il genoma garantisce che tutti questi meccanismi siano attivi fin dalla nascita, o subito dopo, e che la loro dipendenza dall’apprendimento sia scarsa o nulla - sebbene quest’ultimo, con il passare del tempo, assuma poi un ruolo importante nel determinare quando tali meccanismi saranno impiegati. Quanto più la reazione è complessa, tanto più tutto questo è vero. Il pacchetto di reazioni che complessivamente costituiscono il pianto e il singhiozzo è pronto per l’uso fin dalla nascita; i motivi del pianto, d’altra parte, cambiano nel corso della vita col mutare delle nostre esperienze. Tutte queste reazioni sono automatiche e in larga misura stereotipate e vengono impiegate in circostanze specifiche. (L’apprendimento, tuttavia, può modulare l’esecuzione di un comportamento stereotipato. Il riso o il pianto si manifestano in modo diverso a seconda delle circostanze, proprio come le note musicali che costituiscono il movimento di una sonata possono essere eseguite molto diversamente). Tutte queste reazioni sono mirate, in un modo o nell’altro, diretto o indiretto, a regolare i processi vitali e a promuovere la sopravvivenza. I comportamenti tipici del dolore e del piacere, gli impulsi e le motivazioni, come pure le vere e proprie emozioni sono a volte indicati come emozioni in senso lato, il che è comprensibile e ragionevole se si pensa che essi condividono la forma e l’obiettivo regolatore.7
Non soddisfatta del dono della semplice sopravvivenza, sembra che la natura abbia avuto un magnifico ripensamento: la dotazione innata a disposizione degli organismi per la regolazione dei processi vitali non mira al raggiungimento di uno stato neutrale - una terra di nessuno - fra la vita e la morte. Piuttosto, obiettivo dell’omeostasi è quello di offrire uno stato di vita migliore della neutralità, uno stato che noi umani, prospere creature pensanti, identifichiamo con la buona salute e il benessere.
L’insieme dei processi omeostatici regola i processi vitali in ogni cellula del nostro corpo, istante per istante. Tale controllo viene ottenuto grazie a una semplice sequenza: tutto comincia quando nell’ambiente interno o esterno di un organismo ha luogo una modificazione. Tali modificazioni hanno la potenzialità di alterare il corso della vita dell’organismo stesso (possono costituire una minaccia per la sua integrità; o un’opportunità di miglioramento). L’organismo rileva la modificazione e agisce di conseguenza, in modo da creare la situazione più proficua ai fini della propria conservazione e del proprio funzionamento efficiente. Tutte le reazioni operano nel contesto di questa sequenza e sono pertanto un mezzo per stimare le circostanze interne ed esterne all’organismo e agire di conseguenza. Esse rilevano la presenza di disturbi o di opportunità e risolvono, attraverso l’azione, il problema di liberarsi dei primi o di approfittare delle seconde. In seguito vedremo che questa sequenza persiste perfino nelle «emozioni vere e proprie» - emozioni come la tristezza, l’amore, o il senso di colpa -, con la differenza che, in quel contesto, la complessità della stima e della risposta è di gran lunga superiore a quanto non sia nel caso delle semplici reazioni da cui tali emozioni furono assemblate nel corso dell’evoluzione.
È evidente che il continuo tentativo di raggiungere uno stato di vita positivamente regolata rappresenta una componente profondamente radicata e determinante della nostra esistenza - la sua realtà prima, come intuì Spinoza quando descrisse lo sforzo incessante (conatus) messo in atto da ogni essere per autoconservarsi. Sforzo, tentativo e tendenza sono le tre parole che più si avvicinano a rendere il termine latino conatus, così come se ne servì Spinoza nelle proposizioni 6, 7 e 8 della terza parte dell’Etica. Citando le sue stesse parole, «Ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere» e «Lo sforzo, col quale ogni cosa tende a perseverare nel suo essere, non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa». Interpretato a posteriori, con i vantaggi consentiti dalle nostre attuali conoscenze, il concetto di Spinoza implica che l’organismo vivente sia costituito in modo da mantenere la coerenza delle proprie strutture e delle proprie funzioni, a dispetto delle numerose circostanze che possono metterne a rischio la vita.
Il conatus presume sia la spinta all’autoconservazione di fronte al pericolo e alle opportunità, sia quella miriade di azioni autoconservative che servono a tenere insieme le diverse parti del corpo. Nonostante le trasformazioni a cui quest’ultimo è soggetto - durante lo sviluppo, il rinnovamento delle parti costituenti e l’invecchiamento -, il conatus preserva sempre lo stesso individuo, rispettando lo stesso progetto.
Che cos’è, allora, il conatus di Spinoza in termini di biologia moderna? E l’insieme dei dispositivi contenuti nei circuiti cerebrali che, una volta attivati dal
Figura 2.2 I sentimenti comportano un ulteriore livello di regolazione omeostatica; essi sono un’espressione mentale di tutti gli altri livelli.
verificarsi di particolari condizioni interne o esterne, puntano alla sopravvivenza e al benessere dell’organismo. Nel prossimo capitolo vedremo come la vasta gamma delle attività del conatus sia comunicata al cervello per via chimica e neurale. Tutto questo si realizza, rispettivamente, o grazie a molecole trasportate nel sangue, o mediante segnali elettrochimici trasmessi lungo le vie nervose. In tal modo molti aspetti dei processi vitali possono essere segnalati al cervello ed esservi rappresentati in numerose mappe costituite da circuiti di cellule nervose in aree cerebrali specifiche. Ormai abbiamo raggiunto la cima dell’albero, siamo cioè giunti al livello in corrispondenza del quale i sentimenti cominciano a prendere forma.
UN
PRINCIPIO DI ANNIDAMENTO
Quando consideriamo l’elenco delle reazioni regolatrici che garantiscono la nostra omeostasi constatiamo un curioso piano di costruzione. Esso consiste nell’incorporare alcune parti delle reazioni più semplici quali componenti delle reazioni più elaborate: un annidamento del semplice nel complesso. Parte dei meccanismi del sistema immunitario e della regolazione metabolica è incorporata nei meccanismi dei comportamenti tipici del dolore e del piacere. Parte di questi ultimi è incorporata nei meccanismi degli impulsi e delle motivazioni (molto spesso imperniati su correzioni metaboliche e sempre implicanti il dolore e il piacere). Parte dei meccanismi di tutti i livelli precedenti - riflessi, risposte immunitarie, equilibri metabolici, comportamenti associati al dolore o al piacere, impulsi - è incorporata nel meccanismo delle vere e proprie emozioni. Come vedremo, i diversi livelli delle emozioni propriamente dette sono assemblati in base allo stesso principio. Il risultato non è esattamente come una bambola russa, perché la componente di ordine superiore non è una mera amplificazione di quella più piccola in essa contenuta. La natura non è mai così ordinata. Tuttavia, il principio di un «annidamento» del più semplice nel più complesso regge. Ciascuna delle diverse reazioni regolatrici che stiamo considerando non è un processo radicalmente diverso, costruito dal nulla in vista di uno scopo specifico. Piuttosto, ogni reazione emerge dall’aggiustamento di parti e porzioni dei processi più semplici, previamente modificati e adattati. Le reazioni regolatrici sono tutte rivolte allo stesso obiettivo generale - sopravvivenza e benessere -, ma ognuno dei riarrangiamenti riveduti e corretti è secondariamente mirato anche a un nuovo problema la cui soluzione è necessaria per sopravvivere in una condizione di benessere. Per raggiungere l’obiettivo generale occorre risolvere ogni nuovo problema.
L’immagine dell’insieme di queste reazioni non è quella di una semplice gerarchia lineare. Ecco perché la metafora di un edificio a più piani riesce a cogliere solo una parte della realtà biologica. Anche l’immagine della grande catena dell’essere non funziona molto bene. Una metafora più calzante è quella di un grande albero dalla chioma disordinata, con rami che emergono dai tronchi principali, diventando sempre più elaborati e spingendosi progressivamente più in alto pur conservando una comunicazione a doppio senso con le radici. La storia dell’evoluzione è tutta scritta su quell’albero.
ANCORA SULLE REAZIONI AFFINI ALLE EMOZIONI: DALLA SEMPLICE REGOLAZIONE OMEOSTATICA ALL’EMOZIONE PROPRIAMENTE DETTA
Alcune reazioni regolatrici rispondono a un oggetto o a una situazione presenti nell’ambiente esterno - per esempio a una situazione potenzialmente pericolosa; oppure a un’opportunità di nutrirsi o di accoppiarsi. Altre, tuttavia, rispondono a un oggetto o a una situazione presenti all’interno dell’organismo. Può trattarsi, per esempio, della caduta dei livelli dei nutrienti disponibili per la produzione di energia: un fenomeno che causa i comportamenti appetitivi noti come «fame», comprendenti la ricerca di cibo. Oppure potrebbe trattarsi di una modificazione ormonale che induca la ricerca di un partner sessuale; o ancora di una ferita, che induca le reazioni da noi identificate con il «dolore». La gamma delle reazioni abbraccia non solo emozioni molto visibili come la paura o la rabbia, ma anche impulsi, motivazioni e comportamenti assodati al dolore o al piacere. Essi hanno luogo all’interno di un organismo, ossia in un corpo, delimitato da un confine, all’interno del quale si svolge la vita. Direttamente o indirettamente, tutte le reazioni hanno uno scopo palese, far procedere senza scosse l’economia interna del vivente. I livelli di certe molecole devono essere mantenuti entro determinati intervalli, non di più né di meno, poiché al di fuori di quei valori estremi la vita è in pericolo. Anche la temperatura dev’essere mantenuta in una gamma di valori ristretta. L’organismo deve procurarsi fonti di energia - e la curiosità e le strategie di esplorazione lo aiutano a localizzare quelle risorse. Una volta scoperte, le fonti di energia devono essere incorporate - letteralmente: messe dentro il corpo - e modificate, a seconda dei casi, per il consumo immediato o il deposito come riserve; i prodotti di rifiuto derivanti da tutte queste modificazioni devono essere eliminati; e per conservare l’integrità dell’organismo occorre procedere alla riparazione dei danni da usura dei tessuti.
Anche le emozioni vere e proprie (il disgusto, la paura, la felicità, la tristezza, la compassione e la vergogna) mirano a regolare i processi vitali o in modo diretto - evitando i pericoli o aiutando l’organismo a trarre vantaggio da un’opportunità -, o in modo indiretto, facilitando le relazioni sociali. Non sto insinuando che ogni volta che abbiamo un’emozione stiamo promuovendo la sopravvivenza e il benessere: non tutte le emozioni hanno potenzialità simili. Inoltre, sia il contesto in cui un’emozione viene indotta sia l’intensità dell’emozione stessa sono fattori importanti ai fini del suo potenziale valore in un’occasione specifica. Il fatto che, nelle attuali circostanze della vita umana, il dispiegamento di alcune emozioni possa essere controproducente in termini adattativi non nega il loro ruolo evolutivo ai fini di una regolazione vantaggiosa dei processi vitali. Nelle società moderne, la rabbia è perlopiù controproducente, e altrettanto vale per la tristezza. Quanto alle fobie, sono un fondamentale intralcio. D’altra parte, pensate a quante vite sono state salvate dalla paura o dalla collera, nelle giuste circostanze. Probabilmente queste reazioni furono conservate dall’ evoluzione perché contribuivano automaticamente alla sopravvivenza. E probabilmente, se rimangono parte integrante dell’esistenza quotidiana, nell’uomo come in altre specie animali, è perché possono contribuirvi ancora.
Da un punto di vista pratico, la comprensione della biologia delle emozioni e del fatto che il valore di ciascuna di esse sia tanto diverso nell’ambiente umano attuale ci offre notevoli opportunità per capire il comportamento della nostra specie. Impariamo, ad esempio, che alcune emozioni sono pessime consigliere, e possiamo quindi studiare il modo per sopprimerle o attenuare le loro conseguenze. In questo momento sto pensando a tutte quelle reazioni che conducono ai pregiudizi razziali e culturali, basate in parte sul dispiegamento automatico di emozioni sociali evolutivamente intese a rilevare differenze negli altri; la differenza può segnalare infatti la presenza di un rischio o di un pericolo, e il suo rilevamento può quindi promuovere una reazione di allontanamento o di aggressione. Probabilmente, in una società tribale, quel tipo di reazione consentiva di raggiungere obiettivi utili; oggi però, nella nostra società, essa non è più proficua - e meno che mai appropriata. Possiamo dunque essere consapevoli del fatto che il nostro cervello contiene ancora meccanismi che lo fanno reagire come reagiva moltissimo tempo fa, in contesti diversissimi. E, forti di quella consapevolezza, possiamo imparare a ignorare tali reazioni e persuadere gli altri a fare altrettanto.
LE
EMOZIONI NEGLI ORGANISMI SEMPLICI
Esistono molti dati a conferma dell’esistenza di reazioni «emozionali» negli organismi semplici. Pensate a un paramecio, un semplice organismo unicellulare, tutto corpo e niente cervello, senza una mente, che nuota solitario allontanandosi in tutta fretta da un possibile pericolo presente in una regione del suo ambiente - indipendentemente dal fatto che si tratti di un ago appuntito, di un eccesso di vibrazioni o di calore, o di una temperatura troppo bassa. Quello stesso paramecio, seguendo un gradiente chimico di sostanze nutrienti, si dirigerà speditamente verso una regione in cui troverà di che alimentarsi. Questo organismo primitivo è fatto per rilevare determinati segnali di pericolo - brusche variazioni di temperatura, eccessive vibrazioni o il contatto di un oggetto appuntito che potrebbe perforarne la membrana - e reagire spostandosi in un luogo più sicuro, temperato e tranquillo. Allo stesso modo, dopo aver rilevato la presenza delle sostanze chimiche di cui necessita per rifornirsi di energia e mantenere il proprio equilibrio chimico, il paramecio nuoterà alla volta di più verdi pascoli acquatici. Ciò che qui sto descrivendo per una creatura senza cervello contiene già l’essenza del processo dell’emozione che ritroviamo nella nostra specie: il rilevamento della presenza di un oggetto o di un evento che, a seconda dei casi, devono essere evitati e sfuggiti, oppure riconosciuti e avvicinati. La capacità di reagire in questo modo non viene insegnata - non c’è una gran didattica alla scuola dei parameci. Essa è contenuta nel macchinario ereditario, in apparenza semplice e invece tanto complicato, che si trova nello «scervellato» paramecio. Ciò dimostra come la natura si sia preoccupata già da moltissimo tempo di fornire agli esseri viventi i mezzi per regolare e conservare automaticamente la propria vita, senza bisogno di porsi domande, o di formular pensieri.
Ovviamente, il possesso di un cervello - anche modesto - risulta utile alla sopravvivenza, e diventa indispensabile se l’ambiente è più impegnativo di quello in cui vive un paramecio. Pensate a un moscerino: un piccolo invertebrato con un minuscolo sistema nervoso. E possibile suscitare la sua rabbia insistendo nel tentativo di schiacciarlo. Vi ronzerà intorno lanciandosi in picchiate temerarie, sempre schivando il colpo di grazia. E d’altra parte, potete anche fare la sua felicità, semplicemente offrendogli dello zucchero. Vedrete come, in risposta al cibo, i suoi movimenti rallentino e si calmino. Se ci tenete, potete anche fare del vostro moscerino una creatura vertiginosamente allegra: basta che gli somministriate dell’alcol. Non me lo sto inventando. L’esperimento è stato effettivamente condotto nella specie Drosophila melanogaster.8 Dopo l’esposizione ai vapori di etanolo, i moscerini perdono la coordinazione motoria proprio come succederebbe a noi, dopo averne assunta una dose paragonabile. In queste condizioni sperimentali, le drosofile si muovono con l’abbandono tipico della sbornia allegra e cadono lungo un tubo, proprio come ubriachi barcollanti accanto a un lampione. Questi moscerini hanno dunque emozioni - sebbene io non stia dicendo che sentano quelle emozioni né, tanto meno, che riflettano su quel sentire. E se qualcuno fosse scettico sul livello di sofisticazione della regolazione dei processi vitali in creature così piccole, basta che consideri i meccanismi del sonno descritti, sempre nella drosofila, da Ralph Greenspan e colleghi.9 Non solo la minuscola Drosophila, ha l’equivalente dei nostri cicli circadiani, alternando periodi di intensa attività e di sonno ristoratore, ma quando viene privata del sonno reagisce in modo simile a noi umani quando siamo vittime del jet-lag. Devono dormire di più, proprio come noi.
Oppure, pensate al mollusco marino Aplysia californica, anch’esso un invertebrato, creatura dotata di un piccolo cervello e di una gran pigrizia. Toccategli le branchie e si chiuderà su se stesso, mentre la pressione del sangue aumenterà e la frequenza cardiaca andrà alle stelle. Il mollusco produce una serie di reazioni concertate che, in un essere umano, sarebbero probabilmente riconosciute come importanti componenti dell’emozione che chiamiamo paura. Emozione? Sì. Sentimento? Probabilmente no.10
Nessuno di questi organismi produce deliberatamente le reazioni descritte. Né essi compongono la reazione pezzo per pezzo, dando prova di un certo fiuto per riconoscere ogni circostanza in cui esibirla. Queste semplici creature reagiscono in modo riflesso, automatico, stereotipato. Proprio come un cliente distratto che scelga in un’esposizione dei capi di vestiario pronti da indossare, esse «scelgono» reazioni pronte per l’uso e procedono oltre. Non sarebbe corretto chiamare «riflessi» queste reazioni, in quanto i classici riflessi sono reazioni elementari, mentre queste in realtà sono pacchetti complessi di più reazioni. Queste reazioni affini alle emozioni possono dunque essere distinte dai semplici riflessi per la molteplicità e la coordinazione delle loro varie componenti. Meglio sarebbe dire che esse sono insiemi di risposte riflesse, alcune delle quali alquanto elaborate e ben coordinate, che consentono a un organismo di rispondere a un problema con una soluzione efficace.
LE
EMOZIONI VERE E PROPRIE
La classificazione delle emozioni in categorie diverse può vantare una tradizione veneranda. Sebbene classificazioni ed etichette siano palesemente inadeguate, a questo punto - visto lo stadio provvisorio delle nostre conoscenze - non abbiamo alternative. È probabile che, con l’accumularsi delle conoscenze, classificazioni ed etichette cambieranno. Nel frattempo, dobbiamo ricordare che i confini tra le diverse categorie sono permeabili. Per adesso trovo utile classificare le emozioni in tre livelli: emozioni di fondo, emozioni primarie ed emozioni sociali.
Come indica il termine, sebbene siano importantissime, le emozioni di fondo non sono particolarmente evidenti nel comportamento di un individuo. Può darsi che non vi abbiate mai riflettuto, ma con ogni probabilità siete buoni lettori delle emozioni di fondo se siete in grado di rilevare in modo accurato l’energia o l’entusiasmo in una persona che avete appena conosciuto; o di diagnosticare, in amici e colleghi, un impercettibile stato di malessere o eccitamento, nervosismo o tranquillità. Se siete davvero bravi, potete eseguire la diagnosi anche senza che la vostra vittima pronunci una sola parola. Vi basta valutare il profilo dei movimenti degli arti e di tutto il corpo. Sono energici? Precisi? Ampi? Frequenti? E poi osservate le espressioni facciali. Se vengono pronunciate delle parole, non vi limitate ad ascoltarle e a figurarvi il significato che di esse riporta il dizionario, ma fate attenzione anche ai loro aspetti musicali, prosodici.
Le emozioni di fondo possono essere distinte dagli umori, un termine che si riferisce invece al mantenimento di una data emozione per lunghi periodi, misurabili in molte ore o giorni - come quando diciamo: «Peter era di pessimo umore». L’umore può anche applicarsi al frequente ricorrere della stessa emozione, come nel caso di Jane, una bambina così equilibrata, che «è andata su tutte le furie senza alcun motivo».
Quando ho sviluppato questo concetto,11 ho cominciato a considerare le emozioni di fondo come la conseguenza dell’impiego di particolari combinazioni di reazioni regolatrici più semplici (per esempio processi omeostatici fondamentali, comportamenti associati al dolore e al piacere, e appetiti), secondo il principio di annidamento descritto in precedenza. Le emozioni di fondo sono espressioni composite di quelle azioni regolatrici così come esse si dispiegano e si intersecano, momento per momento, nella nostra vita. Io immagino queste emozioni come il risultato, in larga misura imprevedibile, di diversi processi regolatori concomitanti, intrapresi in quella grande arena che è il nostro organismo. Esse comprendono gli aggiustamenti metabolici associati a qualsiasi esigenza interna stia insorgendo o sia appena stata soddisfatta; e a qualsiasi situazione esterna sia stimata e gestita da altre emozioni, appetiti o calcoli intellettuali. Il prodotto, sempre mutevole, di questo calderone di interazioni è lo «stato del nostro essere»: buono, cattivo, o una via di mezzo tra le due cose. Quando qualcuno ci chiede: «Come ti senti?», noi consultiamo questo nostro stato e rispondiamo di conseguenza.
E opportuno chiedersi se esistano reazioni regolatrici che non contribuiscono alle emozioni di fondo; oppure quali reazioni regolatrici partecipino più spesso alla costituzione di emozioni di fondo come lo scoraggiamento o l’entusiasmo; o, ancora, in che modo il temperamento e lo stato di salute interagiscano con le emozioni di fondo. A queste domande, semplicemente, non sappiamo rispondere: dobbiamo ancora indagare.
Le emozioni primarie (o fondamentali) sono più
Figura 2.3 Esistono almeno tre tipi di emozioni vere e proprie: le emozioni di fondo, le emozioni primarie e le emozioni sociali. Anche qui vale il principio di annidamento: le emozioni sociali, ad esempio, incorporano risposte che fanno parte delle emozioni primarie e di fondo.
semplici da definire perché è tradizione consolidata raccogliere in questo gruppo alcune delle più importanti. L’elenco spesso include la paura, la rabbia, il disgusto, la sorpresa, la tristezza e la felicità - quelle che vengono in mente per prime ogniqualvolta si pronuncia il termine «emozione». Esistono buone ragioni per questa loro centralità: le emozioni primarie sono infatti facilmente identificabili non solo negli esseri umani delle più diverse culture, ma anche in altre specie animali.12 Anche le circostanze che inducono queste emozioni, come pure i comportamenti che le definiscono, sono assolutamente costanti in culture e specie diverse. Non sorprende che la maggior parte di ciò che sappiamo sulla neurobiologia dell’emozione sia emerso dallo studio delle emozioni primarie.13 Ad aprire la strada è la paura - come senza dubbio avrebbe previsto Alfred Hitchcock -, ma si stanno compiendo notevoli progressi anche per quanto riguarda il disgusto,14 la tristezza e la felicità.15
Le emozioni sociali comprendono la compassione, l’imbarazzo, la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio, la gelosia, l’invidia, la gratitudine, l’ammirazione, l’indignazione e il disprezzo. Anche a tali emozioni si applica il principio di annidamento già citato. Molte reazioni regolatrici e numerosi elementi appartenenti alle emozioni primarie sono identificabili come componenti delle emozioni sociali, nelle quali sono presenti in combinazioni variabili. Qui, l’annidamento di componenti riconducibili ai livelli inferiori secondo il principio suddetto è evidente. Pensate, per esempio, come il «disprezzo», che è un’emozione sociale, prenda a prestito le espressioni facciali dal «disgusto», un’emozione primaria evolutasi in associazione al rifiuto, automatico e vantaggioso, di cibi potenzialmente tossici. Perfino le parole che usiamo per descrivere situazioni di disprezzo e di scandalo morale sono imperniate sul principio di annidamento - diciamo infatti di essere disgustati. Sotto la superficie delle emozioni sociali sono evidenti anche gli ingredienti del dolore e del piacere, sebbene in modo più sottile di quanto accada nelle emozioni primarie.
Stiamo appena cominciando a capire il modo in cui il cervello induce ed esegue le emozioni sociali. Poiché il termine «sociale» evoca inevitabilmente l’idea della società e della cultura nella specie umana, è importante osservare che le emozioni sociali non sono affatto confinate all’uomo. Basta guardarsi intorno per trovare esempi di emozioni sociali negli scimpanzé, nei babbuini e nelle scimmie non antropomorfe; nei delfini e nei leoni; nei lupi; e, naturalmente, nel cane e nel gatto. Gli esempi abbondano: l’incedere orgoglioso di una scimmia dominante; il portamento, letteralmente regale, di una grande antropomorfa, o di un lupo che pretende il rispetto del gruppo; il comportamento umile dell’animale subordinato che deve farsi indietro e dare la precedenza agli altri al momento del pasto; la compassione che un elefante dimostra verso un altro individuo ferito e sofferente; o il palese imbarazzo di un cane che ha fatto ciò che non avrebbe dovuto.16
Giacché probabilmente a nessuno di questi animali è stato insegnato a esprimere le proprie emozioni, sembra che l’attitudine a esibire un’emozione sociale sia profondamente radicata nel cervello dell’individuo, pronta a essere utilizzata nel momento in cui è innescata dalla situazione appropriata. Non c’è dubbio che, in certe specie, una configurazione del cervello tale da permettere comportamenti così sofisticati in assenza del linguaggio e degli strumenti della cultura sia un dono del genoma. Essa fa parte dei meccanismi di regolazione in loro dotazione, in larga misura innati e automatici, non meno degli altri appena discussi.
Ciò significa dunque che queste emozioni sono innate nel senso stretto del termine e pronte a essere dispiegate immediatamente dopo la nascita - proprio come lo sono chiaramente le regolazioni metaboliche, subito dopo il primo respiro? Qui, probabilmente, la risposta è diversa a seconda delle diverse emozioni. In alcuni casi le risposte emozionali possono essere strettamente innate; in altri possono necessitare di un poco di aiuto, sotto forma di un’esposizione appropriata all’ambiente. Lo studio di Robert Hinde sulla paura è forse un utile indice di ciò che potrebbe accadere anche nel caso delle emozioni sociali. Hinde dimostrò che nelle scimmie la paura innata dei serpenti necessita di un’esposizione non solo a un serpente, ma anche all’espressione di paura esibita dalla madre in presenza di uno di questi rettili. Basta una volta per ingranare il comportamento, ma senza quell’«unica volta», esso, per quanto «innato», non sarà attivato.17 Qualcosa del genere vale anche nel caso delle emozioni sociali; un esempio è dato dallo stabilirsi, durante il gioco, dei modelli di dominanza e sottomissione nei primati molto giovani.
Resta difficile da accettare, per chiunque sia cresciuto nella convinzione che i comportamenti sociali siano i necessari prodotti dell’educazione, che semplici specie animali, delle quali non sia nota una cultura, possano esibire comportamenti sociali intelligenti. Ciò nondimeno lo fanno, e ancora una volta per lasciarci sconcertati non hanno bisogno di un gran cervello. I modesti vermi Caenorhabditis elegans hanno appena 302 neuroni e circa 5000 connessioni interneuronali. (Per fare un paragone, gli esseri umani hanno diversi miliardi di neuroni e diverse migliaia di miliardi di connessioni). Quando si svegliano e se ne vanno in giro in un ambiente che offre cibo a sufficienza risparmiando loro fattori stressanti, queste affascinanti bestioline (sono ermafrodite!) vivono e si alimentano per conto proprio. Ma se il cibo scarseggia o se nell’ambiente è presente un odore pestilenziale - il che equivale precisamente a una minaccia se uno fa una vita da verme ed entra in contatto col mondo esterno servendosi dell’olfatto -, essi si raggruppano in certe regioni e si nutrono tutti insieme. Non si sa mai.18 In questo comportamento necessariamente embrionale, e tuttavia di vasta portata, sono prefigurati numerosi concetti sociali singolari: la sicurezza offerta dal numero, la forza attraverso la cooperazione, lo stringere la cinghia, l’altruismo, e una rudimentale idea di sindacato. Pensavate forse che queste soluzioni comportamentali fossero state inventate dall’uomo?
Riflettete allora sull’ape mellifera nel suo alveare, così piccola e così sociale. Un’ape ha 95.000 neuroni. Bene: questo è già un cervello.
E altamente probabile che la disponibilità di queste emozioni sociali abbia avuto un ruolo nello sviluppo di complessi meccanismi culturali di regolazione sociale (si veda il capitolo 4). E anche evidente che, negli esseri umani, alcune di queste reazioni emozionali sono indotte in situazioni sociali senza che lo stimolo innescante la reazione sia immediatamente evidente - né a chi reagisce né agli osservatori. Le esibizioni di dominanza e dipendenza sociali ne sono un esempio - basti pensare a tutte le strane parate tipiche del comportamento umano nello sport, in politica e sul posto di lavoro. Una delle molte ragioni per cui alcune persone divengono leader e altre le seguono, o per cui alcuni pretendono rispetto e altri chinano la testa, ha poco a che fare con le conoscenze e le capacità individuali; invece dipende molto dal modo in cui alcuni caratteri fisici e il comportamento di un particolare individuo promuovono negli altri determinate risposte emozionali. Tanto agli osservatori di tali risposte, quanto agli individui che le esibiscono, parte dell’esibizione stessa appare immotivata perché ha origine nell’apparato - innato e inconscio - dell’emozione sociale e dell’autoconservazione. Dobbiamo riconoscere a Darwin il merito di averci guidato a conoscere le origini evolutive di questi fenomeni.
Queste non sono le uniche reazioni emozionali di origine misteriosa. Esiste anche un’altra classe di reazioni la cui origine inconscia è forgiata dall’apprendimento nel corso dello sviluppo individuale. Mi riferisco alle affinità e alle antipatie che andiamo acquisendo in modo discreto nel corso di una vita intera di percezione ed esibizione di emozioni in rapporto a persone, gruppi, oggetti, attività, e luoghi: affinità e antipatie sulle quali Freud richiamò la nostra attenzione. Stranamente, questi due insiemi di reazioni non deliberate e non coscienti - quelle innate e quelle apprese - possono benissimo trovare una correlazione nel pozzo senza fondo del nostro inconscio. Si sarebbe tentati di affermare che la loro possibile interazione non cosciente segnali l’intersezione di due retaggi intellettuali, quello di Darwin e quello di Freud, due pensatori che si dedicarono allo studio delle diverse influenze dell’innato e dell’appreso.19
Dai processi dell’omeostasi chimica alle emozioni vere e proprie, i fenomeni di regolazione dei processi vitali hanno sempre a che fare, direttamente o indirettamente, con l’integrità e la salute dell’organismo. Senza eccezione, tutti questi fenomeni sono correlati ad aggiustamenti adattativi nello stato del corpo, e portano infine a quelle modificazioni delle mappe cerebrali degli stati del corpo che costituiscono la base dei sentimenti. Il contenimento del più semplice nel più complesso assicura che la finalità regolatrice sia presente anche ai livelli superiori della catena. Sebbene lo scopo - la finalità - rimanga costante, la complessità varia. Le emozioni vere e proprie sono di sicuro più complesse dei riflessi; e variano anche gli stimoli scatenanti, come pure il bersaglio delle risposte. Le situazioni precise che innescano il processo e il loro scopo specifico sono diversi.
La fame e la sete, per esempio, sono semplici appetiti. La causa è solitamente interna - la diminuzione della disponibilità di qualcosa di vitale importanza ai fini della sopravvivenza, nella fattispecie dell’acqua e dell’energia proveniente dal cibo. I comportamenti risultanti, però, sono rivolti all’esterno e implicano la ricerca di quel qualcosa mancante: una ricerca che comporta l’esplorazione dell’ambiente e il rilevamento sensoriale dell’oggetto cercato. Questo non è poi tanto diverso da ciò che accade in un’emozione vera e propria, come la paura o la rabbia. Anche qui un oggetto, o stimolo adeguato, innesca la routine dei comportamenti adattatori. Gli oggetti competenti, nel caso della paura e della rabbia, però, sono quasi sempre esterni (anche quando sono evocati dalla memoria e dall’immaginazione nel nostro cervello, tendono comunque a rappresentare oggetti esterni) e molto vari (la paura può essere causata da molti tipi di stimoli fisici, stabilitisi nel corso dell’evoluzione o appresi per associazione). I più frequenti induttori della fame e della sete tendono a essere interni (anche se può venirci fame o sete a guardare l’ennesimo film francese in cui i personaggi mangiano, bevono e se la spassano). Anche alcuni impulsi, almeno nelle specie non umane, hanno un andamento periodico e sono limitati a particolari stagioni e cicli fisiologici - si pensi per esempio al sesso. Le emozioni invece possono avere luogo in qualunque momento e protrarsi nel tempo.
Scopriamo anche resistenza di curiose interazioni fra diverse classi di reazioni regolatrici. Le emozioni vere e proprie influenzano gli appetiti - e viceversa. Per esempio, l’emozione «paura» inibisce impulsi come la fame e il sesso, e altrettanto fanno la tristezza e il disgusto. Al contrario, la felicità promuove gli impulsi della fame e del sesso. La soddisfazione degli impulsi - fame, sete e sesso, per esempio - induce felicità; soffocare la soddisfazione di quegli impulsi, invece, può causare rabbia, disperazione o tristezza. Inoltre, come abbiamo osservato in precedenza, l’insieme composito costituito dal quotidiano dispiegamento di reazioni adattative - per esempio aggiustamenti omeostatici e impulsi - va a costituire le emozioni di fondo e aiuta a definire l’umore nell’arco di periodi di tempo estesi. Ciò nondimeno, quando si considerano questi diversi livelli di regolazione da una certa distanza, si rimane colpiti dalla loro straordinaria somiglianza formale.20
Per quanto ne sappiamo, la maggior parte delle creature viventi equipaggiate in modo da esibire emozioni finalizzate alla propria autoconservazione non è attrezzata, a livello cerebrale, né per sentire queste emozioni né, tanto meno, per pensare di averle. Esse rilevano la presenza di particolari stimoli nell’ambiente, ai quali rispondono con un’emozione. Tutto ciò di cui hanno bisogno è, in primo luogo, un semplice apparato percettivo - un filtro per rilevare lo stimolo emozionalmente adeguato; e, in secondo luogo, la capacità di esibire l’emozione. La maggior parte delle creature viventi agisce. Probabilmente esse non sentono come noi, e meno che mai pensano come facciamo noi. Si tratta, è ovvio, di una supposizione, giustificata tuttavia dalla nostra idea di ciò che occorra per sentire, idea che spiegherò nel prossimo capitolo. Le creature più semplici mancano delle strutture cerebrali necessarie a rappresentare, sotto forma di mappe, le modificazioni che si verificano nell’organismo quando hanno luogo le reazioni emozionali, modificazioni che si traducono poi nel sentimento. Esse mancano anche del cervello necessario a rappresentare l’anticipazione di tali modificazioni fisiche, capacità che potrebbe costituire la base del desiderio o dell’ansia.
È evidente che le reazioni regolatrici appena discusse sono vantaggiose per l’organismo che le esibisce e che le loro cause - gli oggetti o le situazioni che le innescano - possono essere giudicate «buone» o «cattive» a seconda dell’impatto che hanno sulla sopravvivenza e sul benessere dell’individuo. Dovrebbe essere chiaro, tuttavia, che un paramecio, un moscerino o uno scoiattolo non hanno alcuna conoscenza delle qualità positive o negative di tali situazioni - e meno che mai pensano di agire a fin di «bene» contro il «male». Del resto, quando regoliamo il pH del nostro milieu interno o reagiamo mostrando felicità o paura a determinati oggetti, nemmeno noi esseri umani ci stiamo battendo per il bene. Il nostro organismo gravita spontaneamente verso un risultato «positivo», e a volte lo fa in modo diretto - come accade in una risposta di felicità; a volte in modo indiretto, come in una risposta di paura che comincia evitando il «male», per dare poi luogo al «bene». Sto ipotizzando - e tornerò su questo punto in seguito, nel capitolo 4 - che gli organismi possano produrre reazioni proficue che conducono a risultati vantaggiosi senza decidere di produrle, e anche senza percepirne il dispiegamento. Dalla costituzione di quelle reazioni è poi evidente che, nel momento in cui esse hanno luogo, l’organismo si sposta temporaneamente verso stati di maggiore o minore equilibrio fisiologico.
Noi umani siamo degni di ammirazione per due ragioni. In primo luogo, nel nostro organismo, in circostanze paragonabili, queste reazioni automatiche creano condizioni che, una volta registrate nel sistema nervoso, possono essere rappresentate come piacevoli o dolorose e, alla fine, essere conosciute come sentimenti. Questa è l’autentica fonte della gloria e della tragedia umana. E ora la seconda ragione. Noi esseri umani, consapevoli della relazione esistente fra certi obiettivi e certe emozioni, possiamo, almeno in qualche misura, sforzarci volontariamente di controllare le nostre emozioni. Possiamo decidere quali oggetti e quali situazioni ammettere nel nostro ambiente e a quali oggetti e situazioni dedicare il nostro tempo e la nostra attenzione. Possiamo, per esempio, decidere di non guardare la televisione commerciale, e perorare la causa della sua definitiva messa al bando dalla casa dei cittadini intelligenti. Controllando la nostra interazione con oggetti che causano emozioni, esercitiamo effettivamente un certo controllo sui processi vitali, guidando così il nostro organismo in uno stato di maggiore o minore armonia, proprio come avrebbe auspicato Spinoza. Effettivamente, stiamo superando la tirannica automaticità e inconsapevolezza dei meccanismi emozionali. La cosa strana è che gli esseri umani scoprirono questa possibilità molto tempo fa, quando ancora non avevano alcuna conoscenza della base fisiologica delle strategie di cui si servivano. Questo è ciò che facciamo quando compiamo delle scelte, per esempio relativamente alle nostre letture, o alle persone cui offrire la nostra amicizia. Questo è ciò che noi esseri umani facciamo da secoli quando seguiamo precetti religiosi e sociali che in realtà modificano l’ambiente e la nostra relazione con esso. Questo è ciò che cerchiamo di fare quando ci trastulliamo con tutti quei programmi di vita sana che ci impongono di fare del movimento e di metterci a dieta.
Non sarebbe esatto dire che le reazioni regolatrici comprendenti le emozioni vere e proprie siano fatalmente e inevitabilmente stereotipate. Alcune reazioni dei «livelli inferiori» sono e devono essere stereotipate - nessuno vorrebbe interferire con la saggezza della natura quando si tratta di regolare la frequenza cardiaca o di sfuggire a un pericolo. Le reazioni dei «livelli superiori», invece, possono - almeno in una certa misura - essere modificate. Possiamo controllare la nostra esposizione agli stimoli che causano le reazioni. Nell’arco di tutta la vita, possiamo imparare ad attivare dei «freni» che agiscano modulando quelle reazioni. Semplicemente, possiamo usare la mera forza di volontà e limitarci a dire di no. A volte.
EMOZIONI VERE E PROPRIE: UN’IPOTESI IN FORMA DI DEFINIZIONE
Prendendo in considerazione i diversi tipi di emozione, posso ora proporre un’ipotesi di lavoro sulle emozioni vere e proprie, sotto forma di una definizione.
1. Un’emozione propriamente detta, come la felicità, la tristezza, l’imbarazzo o la compassione, è un insieme complesso di risposte chimiche e neurali che costituiscono una configurazione caratteristica.
2. Le risposte sono automaticamente prodotte da un cervello normale quando esso rileva uno stimolo emozionalmente adeguato, ossia l’oggetto o l'evento la cui presenza, reale o evocata dalla mente, scatena l’emozione.
3. Il cervello è predisposto dall’evoluzione a rispondere a determinati stimoli, emozionalmente adeguati, con specifici repertori di azioni. L’elenco di tali stimoli non è però limitato a quelli prescritti dall’evoluzione, ma ne comprende molti altri, appresi nell’arco di una intera vita di esperienze.
4. Il risultato immediato di tali risposte è una temporanea modificazione nello stato del corpo, come pure delle strutture cerebrali che formano le mappe corporee e costituiscono la base del pensiero.
5. Il risultato ultimo delle risposte,
direttamente o indirettamente, è la collocazione dell’organismo in
un contesto adatto alla sopravvivenza e al benessere.21
Questa definizione abbraccia le classiche componenti di una reazione emozionale, sebbene la separazione delle diverse fasi del processo, e il peso loro attribuito, possano apparire non convenzionali. Il processo ha inizio con una fase di stima/valutazione, a partire dal rilevamento di uno stimolo emozionalmente adeguato. La mia ricerca si concentra su ciò che accade dopo che lo stimolo viene rilevato nella mente; in altre parole, si appunta sull’estremo finale della fase di stima. Per ovvie ragioni, lascio al di fuori della definizione anche i sentimenti - la fase successiva del ciclo emozione/sentimento.
Qualcuno, per liberare il campo da elementi funzionalmente estranei, potrebbe sostenere l’opportunità di escludere anche la fase di stima - giacché quest’ultima non è tanto l’emozione, quanto il processo che porta ad essa. Tuttavia, invece di illuminarlo, una radicale escissione della fase della stima oscurerebbe il reale valore delle emozioni, che è la loro connessione, in larga misura intelligente, tra lo stimolo emozionalmente adeguato e l’insieme di reazioni che può alterare tanto profondamente la funzione del nostro corpo e il nostro pensiero. Senza una fase di stima la descrizione biologica dei fenomeni dell’emozione diventerebbe suscettibile di una rappresentazione caricaturale, nella quale le emozioni sarebbero eventi privi di significato. Sarebbe più difficile allora rendersi conto di quanto belle e sorprendentemente intelligenti possano essere le emozioni, e di quali potenti strumenti di risoluzione dei problemi possano essere per noi.22
I MECCANISMI CEREBRALI DELL’EMOZIONE
Le emozioni offrono al cervello e alla mente un mezzo naturale per valutare l’ambiente all’interno e all’esterno dell’organismo e per reagire in modo adattativo. In realtà, in molte circostanze, noi valutiamo consapevolmente gli oggetti che causano le emozioni, nel vero e proprio significato del termine «valutare». Non solo elaboriamo la presenza di un oggetto, ma anche i suoi rapporti con altri oggetti e con il passato. In tali circostanze, l’apparato delle emozioni valuta in modo spontaneo, e l’apparato della mente cosciente co-valuta ponderatamente. Possiamo perfino modulare la nostra reazione emozionale. In effetti, uno degli scopi fondamentali dell’educazione è interporre una tappa valutativa non automatica fra oggetti causativi e risposte emozionali. Così facendo, cerchiamo di dare una forma alle nostre reazioni spontanee, allineandole alle esigenze di una data cultura. Tutto questo è verissimo, ma il punto che mi preme sottolineare è che, affinché abbiano luogo le emozioni, non vi è alcuna necessità di analizzarne consapevolmente l’oggetto causativo, e meno che mai vi è quella di valutare la situazione in cui esso si presenta. Le emozioni possono operare in contesti diversi.
Anche quando la reazione emozionale ha luogo senza una conoscenza consapevole dello stimolo, ciò nondimeno l’emozione esprime il risultato della valutazione della situazione da parte dell’organismo. Non ha importanza che quella stima non sia chiaramente notificata al sé. In qualche modo, il concetto di stima è stato interpretato troppo letteralmente come valutazione cosciente, quasi che la straordinaria impresa di valutare una situazione e reagire a essa automaticamente fosse una conquista biologica di minor rilievo.
Uno dei principali aspetti della storia dello sviluppo umano riguarda il modo in cui moltissimi oggetti che costituiscono l’ambiente del nostro cervello hanno acquisito la capacità di innescare, consapevolmente o meno, varie forme di emozione - debole o intensa, positiva o negativa. Alcuni di questi fattori scatenanti sono stabiliti dall’evoluzione, mentre altri hanno finito con l'essere associati dal cervello a stimoli emozionalmente adeguati grazie alle nostre esperienze individuali. Pensate a quella casa dove una volta, da bambini, viveste un’intensa esperienza di paura. Quando vi tornate, può darsi che vi sentiate a disagio; e quel disagio non ha altra causa se non il fatto che molto tempo fa, in quello stesso ambiente, provaste una potente emozione negativa. Potrebbe addirittura accadervi, in un’altra casa per certi versi simile a quella, di provare lo stesso disagio, sebbene stavolta senza ragione alcuna, se si esclude il fatto che in quel luogo rilevate la registrazione cerebrale di un oggetto e di una situazione paragonabili.
Nella costituzione fondamentale del nostro cervello non c’è nulla che ci predisponga a reagire con disagio a case di un certo tipo. La vostra esperienza personale, d’altra parte, ha indotto il vostro cervello a compiere un’associazione fra quel particolare genere di case e il disagio che avete vissuto un tempo. Poco importa che la causa di quel disagio non avesse nulla a che fare con la casa stessa. E come se emetteste un verdetto di colpevolezza per associazione: la casa, in realtà, è una spettatrice innocente. Voi siete stati condizionati a sentirvi a disagio in certe case, forse addirittura a odiarle, senza saperne realmente il motivo. O anche - in virtù dello stesso identico meccanismo - a sentirvi a vostro agio in altre. Molte delle nostre antipatie e simpatie, peraltro perfettamente normali, insorgono proprio in questo modo. Anche le fobie, che non sono normali né banali, possono essere acquisite con il medesimo meccanismo. Ad ogni modo, quando ormai siamo in età da poter scrivere libri, ben pochi oggetti sono rimasti per noi emozionalmente neutri, ammesso e non concesso che ve ne siano. La distinzione degli oggetti su base emotiva è mera distinzione di grado: alcuni di essi evocano reazioni emozionali deboli, a malapena percettibili; altri scatenano reazioni emozionali forti; e fra queste due situazioni estreme vi sono tutte le sfumature intermedie. Stiamo cominciando perfino a scoprire i meccanismi molecolari e cellulari necessari all’apprendimento emozionale.23
Gli organismi complessi imparano anche a modulare l’esecuzione delle emozioni, a seconda delle singole circostanze - e in questo caso i termini «stima» e «valutazione» sono adattissimi. I meccanismi di modulazione possono regolare l’entità dell’espressione emozionale anche senza l’intervento della deliberazione cosciente da parte dell’organismo. Ecco un semplice esempio. Dopo aver ascoltato la stessa barzelletta per la seconda volta, sorriderete o riderete in modo completamente diverso a seconda del contesto sociale del momento: una cena ufficiale, un incontro informale tra colleghi, il pranzo pasquale con i vostri cari... Se a suo tempo i vostri genitori fecero un buon lavoro, non avrete alcun bisogno di pensare al contesto: l’adeguamento sarà automatico. Parte dei meccanismi di adeguamento, tuttavia, riflettono effettivamente un giudizio da parte del sé e possono dar luogo a un tentativo di modificare, o addirittura di sopprimere, le emozioni. Per diverse ragioni, che spaziano dalle motivazioni onorevoli a quelle spregevoli, potreste decidere di nascondere il disgusto o l’ilarità suscitati da un’affermazione appena pronunciata da un collega o dal vostro interlocutore. La conoscenza consapevole del contesto e delle future conseguenze di ogni aspetto del vostro comportamento vi aiuta a decidere di soffocare la naturale espressione delle emozioni. Con il passare degli anni, tuttavia, dovreste evitarlo: costa molta energia.
Gli oggetti emozionalmente adeguati possono essere reali o richiamati alla memoria. Abbiamo visto come un ricordo condizionato e inconsapevole possa generare un’emozione reale nel presente. La memoria, d’altra parte, può mettere a segno lo stesso trucco anche allo scoperto. Per esempio, un incidente sfiorato - evento reale che vi atterrì anni fa - può essere richiamato alla memoria e causarvi un nuovo spavento. Indipendentemente dal fatto che sia realmente presente, oppure che si tratti di un’immagine appena creata, o anche ricostruita e richiamata alla memoria, il tipo di effetto è lo stesso. Se è uno stimolo adeguato, ne seguirà un’emozione, e a variare sarà solo la sua intensità. Gli attori professionisti si affidano alla cosiddetta memoria emozionale. Alcuni lasciano che essa li porti a esibire l’emozione con un intervento manifesto; altri fanno in modo che essa si insinui nella loro performance in modo impercettibile, predisponendoli a un certo comportamento. Il nostro Spinoza, come sempre acuto osservatore, non si fece sfuggire neanche questo: «L’uomo, a causa dell’immagine di una cosa passata o futura, è affetto dallo stesso affetto di letizia o tristezza che per l’immagine di una cosa presente».24
SCATENAMENTO ED ESECUZIONE DELLE EMOZIONI
La comparsa di un’emozione dipende da una complicata catena di eventi. Ecco come la vedo io. La catena comincia con la comparsa di uno stimolo emozionalmente adeguato. Lo stimolo, un determinato oggetto o una determinata situazione, realmente presente o richiamato dalla memoria, si presenta dunque alla mente. Pensate all’orso in cui vi siete imbattuti nel vostro viaggio in Alaska (faccio questo esempio in omaggio a William James, che prese spunto dall’incontro con un orso per la sua discussione sulla paura). Oppure pensate all’incontro imminente con una persona di cui sentite la mancanza.
In termini neurali, le immagini riferite all’oggetto emozionalmente adeguato devono essere presentate a uno o più sistemi di elaborazione sensoriale del cervello, per esempio alle regioni visive o uditive. Chiameremo questa fase del processo «stadio della presentazione». Indipendentemente da quanto fugace sia la presentazione, i segnali associati alla presenza di questo stimolo sono resi disponibili a numerosi siti di induzione delle emozioni, che si trovano altrove nel cervello. Possiamo immaginarceli come serrature che si aprono solo con la chiave giusta. Naturalmente le chiavi sono gli stimoli emozionalmente adeguati. Si noti che questi selezionano una serratura preesistente: in altre parole, non istruiscono il cervello a crearne una nuova. I siti di induzione attivano in seguito un certo numero di altri siti, deputati all’esecuzione delle emozioni, localizzati in altre regioni. Tali siti sono la causa immediata dello stato emozionale che ha luogo nel corpo e nelle regioni cerebrali che sostengono il processo emozione/sentimento. Infine, il processo può riverberarsi e amplificarsi, oppure inaridirsi ed estinguersi. Nel linguaggio della neuroanatomia e della neurofisiologia, tale processo inizia quando segnali neurali di una determinata configurazione (originatisi nelle cortecce visive che custodiscono le configurazioni neurali corrispondenti al rapido avvicinarsi di un oggetto minaccioso) sono ritrasmessi in parallelo lungo diverse vie e inviati a diverse strutture cerebrali. Nel momento in cui «rileveranno» una particolare configurazione - quando cioè la chiave sarà entrata nella serratura - alcune strutture riceventi, per esempio l’amigdala, si attiveranno e daranno inizio alla trasmissione di segnali verso altre regioni del cervello, generando così una cascata di eventi che, infine, diventeranno un’emozione.
Queste descrizioni suonano molto simili a quella della penetrazione di un antigene (per esempio un virus) nel sangue circolante, e della conseguente induzione di una risposta immunitaria (che consiste nella mobilitazione di un gran numero di anticorpi in grado di neutralizzare l’antigene). E in effetti l’impressione è corretta, perché i due processi sono formalmente simili. Nel caso dell’emozione, l’«antigene» viene presentato attraverso il sistema sensoriale; l’«anticorpo» corrisponde alla reazione emozionale. La «selezione» viene compiuta a livello di uno dei diversi siti cerebrali in grado di indurre un’emozione. I due processi hanno luogo in condizioni paragonabili, hanno lo stesso profilo e producono risultati altrettanto benefici. Quando si tratta di soluzioni brillanti la natura non è poi così creativa. Se un sistema funziona, lo applica sistematicamente. Se le cose andassero così anche a Hollywood, le varie continuazioni dei film di successo garantirebbero sempre grandi incassi.
Alcune delle regioni cerebrali oggi identificate come siti di scatenamento delle emozioni sono l’amigdala, localizzata nel profondo del lobo temporale; una parte di quest’ultimo, nota come corteccia prefrontale ventromediale; e un’altra regione frontale, nell’area motoria supplementare e nel cingolo. Pur non essendo gli unici siti di induzione, sono quelli che conosciamo meglio. Questi siti di «innesco» sono sensibili sia a stimoli naturali - ovvero alle configurazioni elettrochimiche sottese alla produzione di immagini nella nostra mente - sia a stimoli quanto mai innaturali, come può esserlo l’applicazione di una corrente elettrica al cervello. D’altra parte, questi siti non dovrebbero essere considerati come strutture rigide, che danno sempre la stessa prestazione stereotipata; sono numerose, infatti, le influenze in grado di modularne l’attività. Anche qui, il risultato può essere ottenuto mediante semplici immagini mentali o con la stimolazione diretta di strutture cerebrali.
Lo studio dell’amigdala negli animali ha fornito nuove informazioni importanti, in particolare quelle
Figura 2.4 Rappresentazione schematica molto semplificata dei siti cerebrali di scatenamento ed esecuzione delle emozioni. Quando un’attività cerebrale localizzata altrove induce l’attivazione di uno di questi siti, per esempio di parti dell’amigdala o della corteccia prefrontale ventromediale, può essere indotta una grande varietà di emozioni. Nessuno di questi siti induttori produce un’emozione da sé. Affinché si manifesti un’emozione, il sito deve attivarne altri, che possono essere localizzati, per esempio, nel prosencefalo basale, nell’ipotalamo, o nei nuclei del tronco encefalico. Come in qualsiasi altra forma di comportamento complesso, l’emozione deriva dalla partecipazione concertata di diversi siti cerebrali all’interno di un sistema.
ottenute da Joseph LeDoux; le moderne tecniche di visualizzazione, poi, hanno reso possibili anche studi sull’amigdala umana, esemplificati dalle ricerche di Ralph Adolphs e Raymond Dolan.25 Tali studi indicano che l’amigdala è un’importante interfaccia fra gli stimoli uditivi e visivi e l’induzione delle emozioni - in particolare, ma non solo, della paura e della rabbia. Pazienti neurologici con un danno all’amigdala non sono in grado di innescare tali emozioni e di conseguenza mancano anche dei sentimenti corrispondenti. In costoro sembrano assenti le serrature per la paura e la rabbia, almeno per gli stimoli visivi e uditivi operanti in circostanze normali. La registrazione diretta dell’attività di singoli neuroni nell’amigdala umana ha dimostrato che in questa regione la maggior parte delle cellule nervose è sintonizzata su stimoli spiacevoli, piuttosto che su quelli piacevoli.26
Stranamente, l’amigdala normale esercita alcune delle sue funzioni di scatenamento indipendentemente dal fatto che l’individuo sia consapevole o meno della presenza di uno stimolo adeguato. La dimostrazione della capacità dell’amigdala di rilevare inconsciamente tali stimoli venne data per la prima volta da Paul Whalen. Quando egli espose per un tempo brevissimo a tali stimoli soggetti del tutto inconsapevoli di quanto stavano vedendo, ottenne scansioni cerebrali che rivelavano un’attivazione dell’amigdala.27 Gli studi recenti di Arnie Ohman e Raymond Dolan hanno dimostrato come soggetti normali possano apprendere inconsciamente che un certo stimolo, ma solo quello (per esempio, un particolare volto dall’espressione rabbiosa, ma non un altro), è associato a un evento spiacevole. L’ esposizione del soggetto inconsapevole al volto associato all’evento negativo stimola l’attività dell’amigdala destra, a differenza di quella dell’altro volto, che non ha tale effetto.28
Gli stimoli emozionalmente adeguati vengono rilevati molto velocemente, in anticipo rispetto all’attenzione selettiva, come mostra un’osservazione davvero notevole: anche nel caso di lesioni al lobo occipitale o parietale che abbiano causato un campo cieco nella visione (oppure un campo in cui gli stimoli non sono rilevati a causa di un negletto), gli stimoli (per esempio i volti che esprimono rabbia e felicità) riescono a «sfondare» comunque la barriera della cecità e del negletto e sono effettivamente rilevati.29 Il meccanismo di scatenamento delle emozioni riesce a cogliere questi stimoli perché essi aggirano i normali canali di elaborazione - canali che avrebbero potuto portare a una stima cognitiva dello stimolo, ma che non hanno potuto farlo a causa della cecità o del negletto. Il valore di questo «aggiramento» biologico è evidente: indipendentemente dal fatto che il soggetto stia prestando attenzione oppure no, il sistema è in grado di rilevare gli stimoli emozionalmente adeguati. Successivamente esso può dirottare su quegli stimoli l’attenzione e il pensiero vero e proprio.
Un altro importante sito di induzione è il lobo frontale, soprattutto nella regione prefrontale ventromediale, che è sintonizzata in modo da rilevare il significato emozionale di stimoli più complessi, per esempio oggetti e situazioni, naturali o appresi, adatti all’induzione di emozioni sociali. La compassione suscitata dall’assistere alla disgrazia altrui, come pure la tristezza causata da una perdita personale, richiedono la mediazione di questa regione. Molti degli stimoli che acquistano il loro significato emozionale traendolo dall’esperienza di vita di ciascuno - come nell’esempio della casa - inducono le rispettive emozioni attraverso questa regione.
I miei colleghi Antoine Bechara, Hanna Damasio e Daniel Tranel e io abbiamo dimostrato che un danno al lobo frontale altera la capacità di provare emozioni quando lo stimolo è di natura sociale e la risposta appropriata è un’emozione sociale come l’imbarazzo, il senso di colpa o la disperazione. Problemi di questo tipo possono compromettere il normale comportamento sociale.30
In una serie di studi eseguiti recentemente dal nostro gruppo, Ralph Adolphs ha dimostrato che i neuroni delle regioni prefrontali ventromediali reagiscono prontamente, e in modo diverso, al contenuto emozionale piacevole o spiacevole di un’immagine. La registrazione dell’attività di singoli neuroni localizzati nella regione prefrontale ventromediale di pazienti neurologici in corso di valutazione per il trattamento chirurgico dell’epilessia rivela che in questa regione - e più a destra che a sinistra - numerosi neuroni reagiscono in modo impressionante a immagini in grado di indurre emozioni spiacevoli. Questi neuroni cominciano a reagire già 120 millisecondi dopo la presentazione dello stimolo. Dapprima interrompono la loro scarica spontanea; poi, dopo un intervallo di silenzio, riprendono a scaricare con maggior intensità e frequenza. Un minor numero di neuroni reagisce invece a immagini che inducono emozioni piacevoli e lo fa senza andare incontro alla sequenza di arresto-e-ripresa osservata nei neuroni sintonizzati su emozioni spiacevoli.31 L’asimmetria fra le regioni destra e sinistra del cervello è più estrema di quel che avrei previsto, ma è coerente con quanto proposto diversi anni or sono da Richard Davidson. Sulla base di studi elettroencefalografici condotti in individui normali, Davidson aveva ipotizzato che, rispetto a quella sinistra, la corteccia frontale destra fosse maggiormente associata a emozioni negative.
Per creare uno stato emozionale, l’attività esistente a livello dei siti di induzione deve essere propagata ai siti esecutori, mediante connessioni neurali. I siti di esecuzione dell’emozione identificati finora comprendono l’ipotalamo, il prosencefalo basale e alcuni nuclei del tegmento mesencefalico. L’ipotalamo è il principale esecutore di molte risposte chimiche che sono parte integrante delle emozioni. Direttamente, o attraverso l’ipofisi, esso libera nel sangue molecole che alterano il milieu interno, la funzione dei visceri e quella dello stesso sistema nervoso centrale. L’ossitocina e la vasopressina, entrambi peptidi, sono esempi di molecole liberate sotto il controllo dei nuclei ipotalamici con la partecipazione della neuroipofisi. Numerosi comportamenti emozionali (come l’attaccamento alla prole e il suo nutrimento) dipendono dalla tempestiva disponibilità di questi ormoni nelle strutture cerebrali che presiedono all’esecuzione di quei comportamenti. Allo stesso modo, nel cervello, la disponibilità a livello locale di molecole come la dopamina e la serotonina, che modulano l’attività neurale, induce determinati comportamenti. Per esempio, i comportamenti percepiti come gratificanti e piacevoli sembrano dipendere dalla liberazione di dopamina da un’area particolare (l’area ventrotegmentale del mesencefalo), e dalla disponibilità di questo neurotrasmettitore in un’altra area (il nucleus accumbens nel prosencefalo basale). In breve, i nuclei del prosencefalo basale e dell’ipotalamo, alcuni nuclei del tegmento mesencefalico, e quelli del tronco encefalico che controllano il movimento della faccia, della lingua, della faringe e della laringe sono gli esecutori ultimi di numerosi comportamenti che definiscono le emozioni, comportamenti che possono essere semplici o complessi, e che spaziano dal corteggiamento alla fuga, dal riso al pianto. I complessi repertori di azioni da noi osservati sono il risultato della squisita coordinazione delle attività di quei nuclei, i quali producono le diverse parti dell’esecuzione con tempismo e in sequenza ben concertata. Jaak Panksepp ha dedicato tutta la sua vita di ricercatore al chiarimento di questo processo di esecuzione.32
In tutte le emozioni, scariche multiple di risposte chimiche e neurali modificano - per un certo periodo e seguendo modalità particolari - il milieu interno, i visceri e il sistema muscoloscheletrico, producendo così espressioni facciali, vocalizzazioni, posture del corpo e specifici comportamenti (la corsa, il bloccarsi di colpo, il corteggiamento o le cure parentali). Al processo partecipano meccanismi biochimici e organi viscerali come il cuore e i polmoni.
L’emozione è un fenomeno che ha a che fare con la transizione e lo scompiglio - a volte un vero e proprio terremoto fisico. Per effetto di una serie parallela di comandi, anche le strutture cerebrali alla base dell’attenzione e della produzione di immagini vanno incontro a modificazioni; di conseguenza, alcune aree della corteccia cerebrale sono particolarmente attive, mentre altre sembrano esserlo meno.
Il semplice schema della figura 2.5 illustra il modo in cui uno stimolo minaccioso, presentato visivamente, innesca l’emozione della paura e porta alla sua esecuzione.
Per semplificare la descrizione dei processi dell’emozione e del sentimento, li ho rappresentati come una successione lineare di eventi che comincia con un singolo stimolo e termina con il consolidamento dei substrati del sentimento corrispondente. In realtà - come del resto ci si potrebbe aspettare - il processo si propaga anche lateralmente, generando catene di eventi paralleli, e si amplifica. Molto spesso, infatti, lo stimolo iniziale porta a recuperare, dall'archivio della memoria, stimoli correlati, anch’essi emozionalmente adeguati. A loro volta questi stimoli addizionali potranno causare l’innesco della medesima emozione, indurne la modificazione, o addirittura scatenare emozioni conflittuali. La continuità e l’intensità dello stato emozionale, in relazione allo stimolo iniziale, sono quindi alla mercé del processo cognitivo in corso. I contenuti della mente possono offrire i fattori innescanti di ulteriori reazioni emozionali, o rimuoverli, e il risultato sarà in un caso una continuazione o addirittura un’amplificazione dell’emozione, nell’altro la sua estinzione.
L’elaborazione delle emozioni implica questa doppia traccia: il flusso di contenuti mentali che porta con sé i fattori che inducono le reazioni emozionali; e le stesse reazioni eseguite, che costituiscono le emozioni e alla fine portano ai sentimenti. Il
Figura 2.5 Diagramma dei principali stadi dello scatenamento e dell’esecuzione di un’emozione, prendendo come esempio la paura. I box tinteggiati nella colonna a sinistra indicano gli stadi del processo (da 1 a 3), dalla stima e definizione dello stimolo emozionalmente adeguato, fino allo stato emozionale della paura, pienamente espresso (4). I box della colonna a destra indicano le strutture cerebrali più indispensabili al dispiegamento di ciascuno stadio (da 1 a 3), e le conseguenze di questa catena di eventi (4).
ciclo che comincia con lo scatenamento dell’emozione e continua con la sua esecuzione prosegue poi con il consolidarsi dei substrati del sentimento nelle regioni somatosensitive appropriate del cervello. (Sin dall’Errore di Cartesio, ho usato il termine «somatico», e più spesso «somatosensitivo», per denotare quelle cortecce, e quelle mappe, nelle quali è rappresentato, istante per istante, quel che accade nel corpo).
Fatto curioso, quando il processo raggiunge lo stadio dell’assemblaggio dei sentimenti, siamo ormai tornati nel regno della mente - di nuovo nel flusso dei pensieri da dove, in circostanze normali, è cominciato l’intero percorso emozionale. I sentimenti sono «mentali» alla stessa stregua degli oggetti o degli eventi che innescano le emozioni. Ciò che fa dei sentimenti fenomeni mentali distinti dagli altri è la particolarità della loro origine e del loro contenuto - lo stato fisico dell’organismo, reale oppure rappresentato nelle aree cerebrali somatosensitive.
INASPETTATAMENTE
Recentemente, diversi studi neurologici ci hanno consentito di guardare più da vicino i meccanismi che controllano l’esecuzione delle emozioni. Una delle osservazioni più significative fu effettuata su una donna in cura per il morbo di Parkinson. Nulla avrebbe lasciato presentire che, nel tentativo di alleviare i suoi sintomi, avremmo sollevato un velo sul modo in cui le emozioni vengono in essere e sulle loro relazioni con i sentimenti.
Il morbo di Parkinson è un comune disturbo neurologico che compromette la capacità di muoversi normalmente. Invece di causare paralisi, questa patologia induce rigidità muscolare, tremori e, cosa forse ancor più importante, acinesia, ossia una difficoltà nell’iniziare i movimenti; questi ultimi, poi, sono spesso lenti - un sintomo noto come bradicinesia. Un tempo la malattia era incurabile, ma negli ultimi trent’anni è stato possibile alleviare la sintomatologia con l’uso di preparazioni farmaceutiche contenenti levodopa, un precursore chimico del neurotrasmettitore dopamina. Nei malati di Parkinson esiste una carenza di dopamina a livello di particolari circuiti cerebrali, proprio come nei diabetici esiste una carenza di insulina nel sangue. (Nei parkinsoniani, i neuroni che producono dopamina nella pars compacta della substantia nigra muoiono e la dopamina non è più disponibile nemmeno in un’altra regione cerebrale, quella dei gangli basali). Purtroppo, le preparazioni farmaceutiche ideate per innalzare i livelli di dopamina nei circuiti cerebrali che ne sono carenti non aiutano tutti i malati. Anche in quelli che riescono a trarne vantaggio, il farmaco col tempo può perdere la sua efficacia, oppure indurre altre compromissioni del movimento, non meno invalidanti della stessa malattia. Per questa ragione, sono allo studio diverse altre modalità di trattamento, una delle quali, in particolare, sembra molto promettente. Essa comporta l’impianto di minuscoli elettrodi nel tronco encefalico dei pazienti, in modo che il passaggio di corrente elettrica a bassa intensità e alta frequenza possa modificare il funzionamento di alcuni nuclei motori. Di solito, i risultati sono formidabili. Al passaggio della corrente, i sintomi, come per incanto, svaniscono. I pazienti riescono a compiere movimenti precisi con le mani e a camminare in modo così normale che un estraneo potrebbe non essere in grado di capire che in precedenza c’era qualcosa di difettoso.
L’esatto posizionamento dei contatti degli elettrodi è essenziale ai fini del successo del trattamento. Per ottenerlo, il chirurgo si serve di un apparecchio stereotassico (che permette la localizzazione di una struttura cerebrale nello spazio tridimensionale) e guida con attenzione gli elettrodi in quella parte del tronco encefalico nota come mesencefalo. Due lunghi elettrodi sono orientati verticalmente, uno nel lato sinistro, l’altro nel lato destro del tronco encefalico, e ciascuno di essi ha quattro contatti, posti a circa due millimetri di distanza l’uno dall’altro e attivabili indipendentemente con il passaggio di corrente elettrica. Provando a stimolare il tessuto in corrispondenza di ogni sito di contatto, è possibile determinare quale di essi produca il massimo miglioramento senza indurre sintomi indesiderati.
La storia affascinante che sto per raccontarvi è quella di una paziente studiata dal mio collega Yves Agid e dal suo gruppo, all’ospedale Salpètrière di Parigi. La paziente era una donna di sessantacinque anni con una lunga anamnesi di sintomi parkinsoniani che ormai non rispondevano più alla levodopa. Non aveva mai sofferto di depressione, né prima né dopo l’insorgenza della malattia, e non era mai neppure andata incontro a sbalzi di umore, un comune effetto collaterale del farmaco. Nella sua anamnesi, personale e familiare, non c’era traccia di disturbi psichiatrici.
Una volta posizionati gli elettrodi, inizialmente tutto procedette come nei diciannove casi già trattati dallo stesso gruppo di ricercatori. I medici individuarono un contatto molto efficace nell’alleviare i sintomi della donna. La sorpresa si verificò quando la corrente elettrica venne fatta passare attraverso uno dei quattro contatti sul lato sinistro, localizzato due millimetri al di sotto di quello rivelatosi efficace nel migliorare la condizione della paziente. La donna smise improvvisamente di partecipare alla conversazione, puntò lo sguardo verso il basso e verso destra, poi si inclinò leggermente a destra e assunse un’espressione di tristezza. Dopo qualche secondo, all’improvviso, cominciò a piangere. Le lacrime scorrevano abbondanti, e l’intero aspetto della paziente tradiva una profonda infelicità. Ben presto si ritrovò scossa dai singhiozzi. Mentre queste manifestazioni continuavano sotto gli occhi dei ricercatori, la donna cominciò a raccontare di quanto si sentisse profondamente triste, di come non avesse più energie per continuare a vivere in quel modo, disperata e sfinita com’era. Quando le chiesero che cosa le stesse accadendo, le sue espressioni furono molto eloquenti:
«Sto cadendo a terra, nella mia testa; non voglio più vivere, non voglio vedere niente, sentire niente, provare niente ...».
«Sono stufa della vita, ne ho avuto abbastanza... Non voglio più vivere, la vita mi ha disgustato ...».
«E tutto inutile... sento di non valere nulla».
«Questo mondo mi fa paura».
«Vorrei nascondermi in un angolo ... mi sto piangendo addosso, è ovvio ... sono disperata, ma perché vi sto tormentando?».
Il medico si rese conto che quell’insolita reazione dipendeva dal passaggio della corrente, e interruppe il trattamento. Dopo circa novanta secondi, il comportamento della paziente ritornò normale. I singhiozzi cessarono, improvvisamente come erano cominciati. L’espressione di tristezza scomparve dal volto della donna. Cessarono anche le descrizioni verbali di tristezza. Dopo qualche istante, la paziente sorrise rilassata, e per i cinque minuti successivi fu assolutamente allegra, addirittura in vena di scherzare. Che era successo, chiese? Si era sentita malissimo, ma non sapeva perché. Che cosa aveva provocato quell’incontrollabile disperazione? La donna non era meno sconcertata dei ricercatori che la stavano osservando.
Ciò nondimeno, il motivo di tutto questo era abbastanza chiaro. Invece di passare nelle strutture nervose responsabili del controllo motorio generale, come avrebbe dovuto, la corrente elettrica era fluita in uno dei nuclei del tronco encefalico preposti al controllo dei particolari tipi di azione che, nel loro insieme, producono l’emozione denominata tristezza. Questo repertorio includeva i movimenti della muscolatura facciale; i movimenti della bocca, della faringe, della laringe e del diaframma necessari per piangere e singhiozzare; e le diverse azioni che danno luogo alla produzione e alla secrezione delle lacrime.
Sembrava che nel cervello della donna fosse scattato un interruttore interno, in risposta a quello che gli sperimentatori avevano azionato al di fuori del suo corpo. Era come se l’intero repertorio di azioni eseguisse un concerto strumentale a lungo preparato, nel quale ogni passaggio cadeva a tempo e luogo opportuni, così che l’effetto sembrava, in tutto e per tutto, manifestare la presenza di pensieri capaci di causare tristezza - in altre parole, di uno stimolo emozionalmente adeguato. Salvo, naturalmente, che nessuno di tali pensieri era stato presente prima dell’inaspettato incidente, né la paziente era soggetta ad avere tali pensieri spontaneamente. I pensieri legati all’emozione si presentarono solo dopo l'emozione stessa.
Amleto poteva interrogarsi sulle capacità dell’attore di evocare l’emozione, pur non avendo alcuna causa personale per provarla. «E mostruoso che un attore, pur fingendo, in un sogno di passione, possa forzare l’anima a un concetto, così da scolorare tutto in volto e piangere e sconvolgersi, con voce rotta e con gesti che disegnan le forme rispondenti all’idea». L’attore non ha alcuna ragione personale per provare emozioni: sta parlando del destino di un personaggio di nome Ecuba e, come dice Amleto, «Per Ecuba? Ma per lui che cos’è? Chi è lui per Ecuba, da farne tanti gemiti?».33 Tuttavia, l’attore comincia evocando nella propria mente alcuni tristi pensieri che in seguito innescano l’emozione e lo aiutano a rappresentarla con la sua arte. Nello strano caso di questa paziente, però, le cose non potevano essere andate così. Non c’era alcun «concetto», né alcuna «idea», antecedente alla sua emozione. Non c’era alcun tipo di pensiero che potesse indurre il suo comportamento, nessuna idea inquietante che le fosse venuta in mente in modo spontaneo, né alcun tormentoso pensiero che le fosse stato chiesto di evocare. La sua manifestazione di tristezza, in tutta la spettacolare complessità che l’aveva caratterizzata, era davvero venuta fuori dal nulla, come un fulmine a ciel sereno. Fatto non meno importante, quando la manifestazione di tristezza era ormai pienamente organizzata e in corso da un po’, la paziente cominciò a provare un sentimento di tristezza. E, altrettanto importante, dopo che ebbe detto di sentirsi triste, la donna cominciò ad avere pensieri conformi alla tristezza - preoccupazione per la propria salute, affaticamento, delusione nei confronti della vita, disperazione e desiderio di morte.
La sequenza di eventi osservati in questa paziente rivela come a presentarsi per prima fosse stata l’emozione. Solo dopo era seguito il sentimento, accompagnato dai pensieri che di solito possono causare e successivamente accompagnare l’emozione della tristezza, caratteristici degli stati mentali che colloquialmente descriviamo come «sentirsi tristi». Una volta cessata la stimolazione, queste manifestazioni si attenuarono e infine scomparvero. L’ emozione scomparve, e scomparve pure il sentimento. Anche i pensieri tormentosi si dileguarono.
L’importanza di questo raro incidente neurologico è evidente. In condizioni normali, la velocità con cui le emozioni insorgono e poi lasciano il passo ai sentimenti e ai pensieri loro associati rende difficile il compito di analizzare la corretta sequenza dei fenomeni. Quando i pensieri che di solito causano le emozioni appaiono alla mente, inducono emozioni che danno origine a sentimenti, i quali evocano a loro volta altri pensieri, associati per contenuto, che probabilmente amplificheranno lo stato emozionale. I pensieri evocati possono anche funzionare da fattori innescanti indipendenti di altre emozioni, potenziando così lo stato affettivo generale. Ulteriori emozioni daranno origine a ulteriori sentimenti, e il ciclo continuerà finché non sarà interrotto da una distrazione o dall’intervento della ragione. Quando tutti questi fenomeni - i pensieri che possono causare emozioni; i comportamenti associati all’emozione; i fenomeni mentali che chiamiamo sentimenti; e i pensieri che da quei sentimenti derivano - ebbene, quando tutti questi fenomeni sono ormai nel loro pieno svolgimento, è difficile dire, avvalendosi della sola introspezione, quale di essi sia emerso per primo. Il caso di questa donna ci aiuta a scrutare e a discriminare questi eventi. La paziente non aveva avuto pensieri induttori di tristezza né alcun sentimento triste prima che insorgesse, in lei, l’emozione che chiamiamo tristezza. Questi dati indicano al tempo stesso la relativa autonomia del meccanismo di scatenamento neurale dell’emozione e la dipendenza del sentimento dall’emozione.
A questo punto, verrebbe da chiedersi come mai il cervello di questa paziente evocasse il tipo di pensiero che normalmente induce tristezza considerando che, nel suo caso specifico, tanto l’emozione quanto il sentimento non erano stati motivati da stimoli appropriati. La risposta ha a che fare con la dipendenza del sentimento dall’emozione e con il comportamento affascinante della memoria. Quando viene espressa l’emozione tristezza, istantaneamente seguono i sentimenti corrispondenti. In rapida successione, il cervello produce poi il tipo di pensieri che normalmente inducono l’emozione e i sentimenti di tristezza. Ciò accade perché l’apprendimento associativo ha stabilito dei collegamenti fra emozioni e pensieri, in una ricca rete di connessioni percorribili a doppio senso. Determinati pensieri evocano determinate emozioni, e viceversa. I livelli di elaborazione cognitiva ed emozionale sono continuamente collegati in questo modo. Tale effetto può essere dimostrato sperimentalmente, come ha rivelato uno studio eseguito da Paul Ekman e dai suoi colleghi. Egli chiese ai soggetti partecipanti di muovere alcuni muscoli della faccia in una particolare sequenza, così che essi assumessero, inconsapevolmente, un’espressione - a seconda dei casi - di felicità, tristezza, o paura. I soggetti non sapevano quale espressione fosse ritratta sul proprio volto. Nella loro mente non c’era alcun pensiero in grado di indurre l’emozione così espressa. Ciò nondimeno, essi finivano per provare il sentimento appropriato corrispondente all’emozione esibita.34 Senza dubbio, le componenti dell’emozione, sotto il controllo dello sperimentatore e non motivate dal soggetto, si presentavano per prime. Subito dopo seguiva un sentimento. Tutto questo è in sintonia con il buonsenso di Rodgers e Hammenstein. Come ricorderete, nel loro musical una spaventatissima Anna era arrivata nel Siam per insegnare ai figli del re; parlando a se stessa non meno che al figlio, terrorizzato come lei, Anna diceva che fischiare un motivetto allegro avrebbe trasformato la paura in fiducia: «I risultati di questo trucco sono stranissimi. Quando inganno la gente che mi spaventa, finisce che inganno anche me stessa». Espressioni emozionali «recitate» e prive di una motivazione psicologica hanno il potere di causare i sentimenti corrispondenti. Le espressioni emozionali evocano i sentimenti e il tipo di pensieri che abbiamo imparato a ritenere consoni a esse.
Da un punto di vista soggettivo, lo stato di questa paziente dopo l’attivazione dell’elettrodo «zero sinistro» ricorda in qualche modo le situazioni in cui tutti noi ci ritroviamo consapevoli di umori e sentimenti, ma incapaci di trovarne la causa. Quante volte capita, a un certo momento di una data giornata, di sentirci particolarmente bene e pieni di energia e di speranze, senza però conoscerne la ragione? Oppure, al contrario, depressi e nervosi? In tutti quei casi, è probabile che i pensieri negativi, o quelli pieni di speranza, siano elaborati fuori dal campo della nostra coscienza. Ciò nondimeno, essi sono in grado di innescare i meccanismi dell’emozione e quindi quelli del sentimento. A volte riusciamo a risalire all’origine di quegli stati affettivi, a volte no. Per buona parte del ventesimo secolo, molta gente si è precipitata sul divano dello psicoanalista per scoprire qualcosa di più sui pensieri inconsci e sui conflitti, anch’essi inconsci, che davano loro origine. Oggi, molti si limitano semplicemente ad accettare che esistono più pensieri sconosciuti nel cielo e nella terra della nostra mente di quanti ne possa sognare la filosofia di Orazio, l’amico di Amleto. E quando non possiamo identificare il pensiero che causa l’emozione, ecco che siamo visitati da emozioni e sentimenti senza una spiegazione. Per fortuna, emozioni e sentimenti di questo tipo sono meno intensi e meno improvvisi di quelli motivati.
I medici e i ricercatori che avevano in cura la paziente di cui abbiamo appena riferito la vicenda studiarono ulteriormente il suo insolito caso.35 Nella stessa paziente, la stimolazione a livello di uno qualsiasi degli altri contatti non indusse alcun fenomeno inatteso e - come abbiamo già detto - questa reazione non ebbe luogo in nessun altro dei diciannove pazienti trattati allo stesso modo. In altre due occasioni, e con il consenso della donna, i medici stabilirono i fatti seguenti. In primo luogo, quando le dissero che stavano stimolando il contatto problematico - mentre in realtà stavano operando sull’interruttore di un altro elettrodo - non comparve nessun comportamento insolito. Nulla di inconsueto fu osservato dai ricercatori o riferito dalla paziente. In secondo luogo, quando il contatto problematico fu nuovamente attivato, ottennero la stessa sequenza di eventi che si era presentata, del tutto inattesa, nell’osservazione originale. Chiaramente, la comparsa del fenomeno era legata al posizionamento e all’attivazione dell’elettrodo.
I ricercatori eseguirono anche uno studio con la tomografia a emissione di positroni (una tecnica che fornisce immagini funzionali del cervello) in seguito alla stimolazione del contatto «zero sinistro». Un importante riscontro di questa seconda indagine fu la marcata attivazione di strutture localizzate nel lobo parietale destro, una regione coinvolta nell’elaborazione di mappe dello stato del corpo e, più in particolare, dello stato del corpo nello spazio. Con ogni probabilità, tale attivazione era da mettersi in relazione al fatto che durante la stimolazione la paziente riferiva costantemente la percezione di marcati cambiamenti nel proprio stato corporeo, compresa la sensazione di cadere in un pozzo.
II valore scientifico di studi condotti su un singolo soggetto è sempre limitato. Di solito, più che un punto d’arrivo, i dati raccolti nel corso di tali indagini rappresentano il punto di partenza per nuove ipotesi e nuove esplorazioni. Ciò nondimeno, in questo caso particolare, i dati si sono rivelati preziosi. Essi confermano infatti l’idea che sia possibile analizzare i processi dell’emozione e del sentimento scomponendoli nelle loro diverse parti. Inoltre, rinforzano un concetto fondamentale delle neuroscienze cognitive: ogni funzione mentale complessa deriva dai contributi ben concertati di molte regioni cerebrali a livelli diversi del sistema nervoso centrale, e non dalla funzione di una singola regione del cervello concepita secondo i dettami della frenologia.
L’INTERRUTTORE DEL TRONCO ENCEFALICO
Ancora non sappiamo assolutamente quale particolare nucleo del tronco encefalico innescasse la reazione emozionale di questa paziente. Sembra che il contatto problematico si trovasse proprio sopra la substantia nigra; d’altra parte, la corrente elettrica avrebbe potuto trasmettersi anche altrove, nelle immediate vicinanze. Il tronco encefalico è una regione molto piccola del sistema nervoso centrale, piena zeppa di nuclei e circuiti implicati in funzioni diverse. Alcuni di tali nuclei sono minuscoli e anche una minima variazione della loro anatomia standard avrebbe potuto portare a una significativa deviazione della corrente. Non c’è dubbio, comunque, che l’evento avesse avuto inizio nel mesencefalo e avesse poi gradualmente reclutato i nuclei necessari per produrre le diverse componenti dell’emozione. E anche possibile, a giudicare dai dati raccolti negli esperimenti sugli animali, che nella produzione ben coordinata dell’emozione fossero coinvolti alcuni nuclei della regione nota come grigio periacqueduttale (gpa). Sappiamo, per esempio, che diverse colonne del gpa sono coinvolte nella produzione di vari tipi di reazioni di paura - quelle che portano ai comportamenti di combattimento-o-fuga o, in altri casi, di «congelamento». Può darsi che il gpa sia implicato anche nelle reazioni riconducibili alla tristezza. Ad ogni modo, all’interno di uno dei nuclei mesencefalici legati alla produzione dell’emozione, era cominciata una rapidissima catena di eventi che aveva interessato regioni estese del corpo: il volto, l’apparato vocale, la cassa toracica, senza contare sistemi chimici la cui attività non era direttamente osservabile. Tutte queste modificazioni avevano portato a uno specifico stato di sentimento. Inoltre, mentre esprimeva l’emozione e i sentimenti di tristezza, la paziente aveva richiamato alla mente pensieri corrispondenti. Invece di cominciare nella corteccia cerebrale, la catena di eventi era iniziata in una regione sottocorticale. Gli effetti, tuttavia, erano simili a quelli che sarebbero stati prodotti dal ripensare a un tragico evento o dall’assistervi direttamente. Chiunque fosse entrato in scena in quel momento non avrebbe potuto dire se si trattasse di uno stato di emozione/sentimento perfettamente naturale, ricreato dall’abilità di un’attrice consumata, o scatenato da un interruttore elettrico.
UN'IMPROVVISA ILARITÀ
Affinché nessuno pensi che ci sia qualcosa di unico nel pianto e nella tristezza, devo aggiungere che è possibile produrre un fenomeno equivalente a quello appena analizzato anche per il riso, come ha dimostrato uno studio condotto da Itzhak Fried.36 Anche in questo caso, era coinvolta una paziente sottoposta a stimolazione elettrica del cervello. L’obiettivo era leggermente diverso e consisteva nell’ottenimento di una mappa delle funzioni corticali. Per aiutare i pazienti epilettici che non rispondono al trattamento farmacologico è possibile rimuovere chirurgicamente la regione cerebrale che innesca i loro attacchi. Prima dell’intervento, tuttavia, il chirurgo non solo deve localizzare con precisione l’area del cervello da rimuovere, ma anche identificare le aree cerebrali che non possono essere rimosse a causa della loro funzione, per esempio quelle implicate nel linguaggio. Queste mappe si ottengono stimolando elettricamente il cervello e osservando i risultati.
Nel caso particolare della paziente A.K., quando i chirurghi cominciarono a stimolare una regione del lobo frontale sinistro nota come «area motoria supplementare» (ams), osservarono che la stimolazione elettrica di un certo numero di siti vicini evocava - in modo costante ed esclusivo - il riso. Si trattava di una risata assolutamente autentica, al punto che gli osservatori la descrissero come contagiosa. Essa emerse all’improvviso: alla paziente non era stato mostrato o detto nulla di buffo, né la donna stava pensando a qualcosa che potesse indurla al riso. Proprio come era stato osservato nella paziente che aveva pianto - e si tratta di una coincidenza importante - il riso di A.K. era seguito da «una sensazione di allegria o ilarità», nonostante la sua natura immotivata. Altrettanto interessante, la causa del riso veniva attribuita a qualsiasi oggetto sul quale la paziente si stesse concentrando al momento della stimolazione. Per esempio, se si mostrava alla donna l’immagine di un cavallo, lei diceva: «Questo cavallo è proprio buffo». In certi casi, gli stessi ricercatori costituirono uno stimolo emozionalmente adeguato, e in un’occasione la paziente concluse: «Voi ragazzi siete talmente ridicoli... tutti lì in piedi così...».
L’area del cervello che produceva il riso era piccola; misurava infatti circa due centimetri per due. In punti vicini, la stimolazione causava i ben noti fenomeni di arresto dell’eloquio o di cessazione dei movimenti delle mani. Tuttavia, la loro stimolazione non causava mai il riso. Inoltre, è opportuno osservare che gli attacchi epilettici di questa paziente non includevano mai il riso.
Nella prospettiva già descritta in precedenza, credo che la stimolazione a livello dei siti identificati in questo studio induca l’attivazione di nuclei del tronco encefalico capaci di generare gli schemi motori del riso. I nuclei precisi del tronco encefalico e la sequenza della loro attività non sono stati identificati, né per il riso, né per il pianto. Presi nel loro insieme, questi studi lasciano intravedere un meccanismo neurale a più livelli per la produzione di emozioni. Dopo l’elaborazione di uno stimolo adeguato, i siti corticali danno inizio alla vera e propria espressione dell’emozione innescando l’attività di altri siti, in larga misura sottocorticali, a partire dai quali l’emozione sarà finalmente eseguita. Nel caso del riso sembra che i siti di induzione iniziali si trovino nella regione prefrontale dorsale e mediale, in aree come la AMS e la corteccia del cingolo anteriore. Nel caso del pianto, è più probabile che i siti di induzione critici si trovino nella regione prefrontale mediale e ventrale. Nel riso come nel pianto, i principali siti di esecuzione si trovano nei nuclei del tronco encefalico. Per inciso, i dati raccolti nello studio sul riso sono in armonia con le osservazioni effettuate dal nostro gruppo in pazienti con danni alla ams e al cingolo anteriore. Abbiamo scoperto che tali pazienti hanno difficoltà a prodursi in un sorriso «naturale» - un sorriso spontaneo, quello solitamente scatenato dall’aver capito una barzelletta - e si limitano al sorriso falso e forzato tipico delle fotografie di gruppo.37
Gli studi qui discussi testimoniano dunque la possibilità di separare, nel processo dell’emozione e del sentimento, vari stadi e meccanismi: la stima/valutazione che porta all’isolamento di uno stimolo emozionalmente adeguato, lo scatenamento, l’esecuzione e, successivamente, il sentimento. Lo stimolo elettrico artificiale usato nello studio sul riso mima i risultati neurali prodotti in modo naturale dall’isolamento di uno stimolo emozionalmente adeguato per il riso, grazie all’attività delle regioni cerebrali e delle vie nervose che cooperano all’ elaborazione di tale stimolo e lo proiettano alla ams. Nel riso naturale, lo stimolo viene da dentro; nel caso della paziente A.K., proveniva dalla punta di un elettrodo. Nella paziente che piangeva, lo stimolo elettrico interveniva successivamente, nel meccanismo dell’esecuzione dell’emozione, distante almeno uno stadio dalla fase dell’induzione.
ANCORA RISO E LACRIME
Un altro tipo di incidente neurologico ci consente di sollevare un velo sugli interruttori delle emozioni presenti nel tronco encefalico. Si tratta di una condizione nota come riso e pianto patologico. Il problema è noto da tempo in neurologia, ma solo di recente è stato possibile decifrarlo in termini dell’anatomia e della fisiologia cerebrali. Il paziente C., che ho studiato in collaborazione con Josef Parvizi e Steven Anderson, ci offre una perfetta esemplificazione del problema.38
Quando C. ebbe un piccolo ictus localizzato al tronco encefalico, il medico che per primo lo prese in cura lo considerò fortunato. Alcuni ictus del tronco encefalico possono essere fatali, e molti lasciano i pazienti con terribili invalidità. Questo evento particolare, invece, sembrava aver causato problemi motori di importanza relativamente modesta; v’erano inoltre buone probabilità che con il tempo si attenuassero. Da questo punto di vista, le condizioni di C. seguirono effettivamente il decorso atteso. Quel che non era atteso, né facile da trattare, fu un sintomo che lasciò assolutamente sconcertati tanto il paziente quanto i suoi familiari e coloro che lo assistevano. Il paziente C. scoppiava nel pianto più impressionante o nella più spettacolare delle risate in assenza di una causa riconoscibile. Non solo il motivo di queste sue esplosioni non era evidente, ma il loro valore emozionale poteva essere diametralmente opposto al tenore affettivo delle circostanze. Nel bel mezzo di una seria conversazione riguardante le sue condizioni economiche o la sua salute, il signor C. poteva essere letteralmente sconquassato dalle risa, cercando, senza riuscirci, di sopprimere l’accesso. Allo stesso modo, nel corso di una conversazione assolutamente banale, capitava che si mettesse a singhiozzare disperatamente, anche in questo caso del tutto incapace di sopprimere la reazione. Queste esplosioni potevano verificarsi in rapida successione, lasciando a C. il tempo a malapena sufficiente per riprender fiato e spiegare che non riusciva a controllarsi, che lui non aveva inteso realmente né ridere né piangere, e che nella sua mente non c’era alcun pensiero che giustificasse un comportamento tanto strano. Inutile dire che il paziente C. non era stimolato da nessuna corrente elettrica - non c’era nessuno che stesse azionando l’interruttore. Ciò nondimeno, il risultato era lo stesso. A seguito di un danno circoscritto a un’area nel sistema neurale costituito dai nuclei del tronco encefalico e del cervelletto, C. esprimeva queste emozioni senza una causa mentale appropriata, e trovava difficile controllarle. Fatto non meno importante, alla fine di quegli accessi si sentiva un po’ triste o un po’ allegro, sebbene all’inizio dell’episodio non fosse stato né l’una né l’altra cosa, e non avesse pensieri tristi o allegri. Ancora una volta, un’emozione immotivata induceva un sentimento e causava uno stato mentale corrispondente alla valenza di tutto un repertorio di azioni corporee.
Il meccanismo fine che ci consente di controllare il riso e il pianto a seconda del contesto sociale e cognitivo è sempre stato un enigma. Lo studio di questo paziente ha consentito di diradare, almeno in parte, il mistero, giacché ha svelato che i nuclei del ponte e del cervelletto sembrano avere un ruolo importante in quel meccanismo di controllo. Indagini successive, condotte su altri pazienti nella stessa situazione, portatori di lesioni simili, hanno rafforzato tali conclusioni. Possiamo immaginare il meccanismo di controllo in questo modo: nel tronco encefalico, alcuni sistemi di nuclei e vie nervose possono essere attivati per generare una reazione stereotipa di riso o di pianto. Poi, un altro sistema, nel cervelletto, modula i meccanismi fondamentali del riso o del pianto. Tale modulazione è realizzata modificando, per esempio, la soglia delle reazioni, l’intensità e la durata di alcuni dei movimenti che le compongono, eccetera.39 In circostanze normali, il sistema può essere influenzato dall’attività corticale, ossia dalle diverse regioni che operano di concerto e rappresentano, in ogni occasione, il contesto in cui uno stimolo emozionalmente adeguato scatenerà, in misura più o meno rilevante, il tipo di riso o di pianto appropriato. A sua volta, il sistema può influenzare la corteccia cerebrale.
Il caso del paziente C. ci offre anche la rara occasione di intravedere l’interazione fra il processo di stima che precede l’emozione, e l’effettiva esecuzione dell’emozione che stiamo considerando. La stima può modulare il successivo stato emozionale e, a sua volta, esserne modulata. Quando i processi di stima ed esecuzione sono scollegati, come lo erano in C., il risultato può essere caotico.
Se i casi precedenti rivelavano la dipendenza dei processi mentali e comportamentali da sistemi costituiti da numerosi componenti, quello del paziente C. mostra in particolare come tali processi dipendano da una complicata interazione fra quelle componenti. Siamo ben lontani, dunque, dall’idea di singoli «centri» e di vie nervose funzionanti a senso unico.
DAL CORPO ATTIVO ALLA MENTE
I fenomeni che abbiamo discusso in questo capitolo - le emozioni vere e proprie, gli appetiti e le reazioni regolatrici più semplici - hanno luogo nel teatro del corpo sotto la guida di un cervello dotato congenitamente di una saggezza sua, messo a punto dall’evoluzione per contribuire a dirigere il funzionamento del corpo. Spinoza intuì l’esistenza di quella saggezza neurobiologica innata e racchiuse tale intuizione nelle sue proposizioni sul conatus, cioè nel concetto secondo cui, necessariamente, tutti gli organismi viventi compiono uno sforzo di autoconservazione senza averne la consapevolezza e senza aver deciso, come sé individuali, di intraprendere alcunché. Per farla breve, essi non conoscono il problema che stanno cercando di risolvere. Quando le conseguenze di una tal saggezza naturale vengono registrate nel cervello, ne derivano i sentimenti, componenti fondamentali della nostra mente. Alla fine, come vedremo, i sentimenti possono guidare un tentativo di autoconservazione deliberato e contribuire alle scelte riguardanti le modalità stesse dell’autoconservazione. I sentimenti aprono la porta alla possibilità di operare, almeno in una certa misura, un controllo volontario sulle emozioni automatiche.
L’evoluzione sembra aver assemblato i meccanismi cerebrali dell’emozione e dei sentimenti procedendo per gradi. Dapprima viene il meccanismo per produrre reazioni a un oggetto o a un evento, orientate verso l’oggetto stesso o le circostanze: il meccanismo dell’emozione. Poi viene il meccanismo per produrre una mappa cerebrale e successivamente un’immagine mentale - un’idea - delle reazioni e dello stato dell’organismo che ne risulta: il meccanismo del sentimento.
II primo dispositivo, quello dell’emozione, consentì agli organismi di rispondere in modo efficace, sebbene non creativo, a numerose circostanze che, a seconda dei casi, potevano essere favorevoli o minacciose - circostanze ed esiti rispettivamente «positivi» o «negativi» per la vita. Il secondo meccanismo, quello del sentimento, introdusse una sorta di allarme mentale per rilevare le circostanze buone o cattive, e prolungò l’impatto delle emozioni influenzando in modo duraturo attenzione e memoria. Alla fine, in una proficua combinazione con i ricordi del passato, l’immaginazione e il ragionamento, i sentimenti portarono all’emergere della previsione e alla possibilità di creare risposte nuove, non più stereotipate.
Come capita spesso quando aggiunge nuovi dispositivi ad altri preesistenti, la natura usò i meccanismi dell’emozione come punto di partenza e rimediò altre componenti alla bell’e meglio. Al principio era l’emozione - ma al principio dell’emozione era l’azione.