6. UNA VISITA A SPINOZA

 

 

 

 

 

RIJNSBURG, 6 LUGLIO 2000

Sono seduto nel piccolo giardino sul retro della casa di Spinoza. C’è il sole e l’aria è tiepida; il silenzio è quasi assoluto. Lungo lo Spinozalaan passa poca gente, sia in auto che a piedi. L’unica creatura in movimento è un gatto nero, all’apparenza tranquillo e assorto mentre si dedica ai preparativi per una paradisiaca giornata estiva, adatta alla filosofia.

Sto guardando lo stesso cielo su cui anche Spinoza

 

 

dovette alzare gli occhi se mai si spinse fuori dalle sue stanze per venire a sedersi dove mi trovo io. E se pure non lo fece, in giornate come questa il sole entrò comunque in casa, riversandosi sul suo scrittoio: una visita senz’altro gradita, in questo clima. La dimora di Rijnsburg è un bel posto, meno limitante della casa dell’Aia, sebbene anch’essa troppo modesta per uno che stava levando lo sguardo sull'universo.

Com’è che si diventa Spinoza?, mi chiedo. O in altre parole, come si spiega la sua singolarità? Ecco un uomo che dissentiva fermamente dal principale filosofo dell’epoca; che diede pubblicamente battaglia alla religione organizzata e fu espulso dalla sua stessa comunità; che rifiutava il modo di vivere dei suoi contemporanei e che diede alla propria vita obiettivi che alcuni ritennero santi, e molti considerarono solo stupidi. Spinoza fu davvero una pecora nera come ce lo hanno dipinto? Oppure la sua figura è comprensibile nel contesto culturale del tempo e del luogo in cui visse? Il comportamento di quest’uomo può essere spiegato dagli eventi della sua biografia? Trovo affascinanti questi interrogativi. Pur senza voler essere tanto sconsiderato da cercare di spiegare in modo soddisfacente la vita di chicchessia, credo che sia possibile azzardare qualche risposta.

 

 

L’EPOCA

Nonostante la sua originalità, Spinoza non fu certo unico nel suo periodo storico: fiorì nel mezzo del diciassettesimo secolo, il secolo del genio, il periodo in cui furono gettate le fondamenta del mondo moderno. Spinoza fu certo un radicale, e tuttavia - pressappoco nel periodo in cui lui nasceva - Galileo diede prova di posizioni altrettanto intransigenti, avallando e confermando le idee di Copernico. Il secolo si aprì con la condanna al rogo di Giordano Bruno e con le prime rappresentazioni della versione matura dell’Amleto di Shakespeare (1601). Nel 1605, il mondo si vide offrire Il progresso del sapere di Francesco Bacone, Re Lear di Shakespeare e il Don Chisciotte di Cervantes. Il principe Amleto simboleggia bene quest’epoca: per tutta la durata di quella che è la più lunga opera di Shakespeare egli è perennemente sconcertato di fronte al comportamento umano e roso dal dubbio sul possibile significato della vita e della morte. Apparentemente, la trama riguarda il tentativo fallito di uccidere uno zio sleale e di vendicare i torti subiti dal padre. Ma in realtà il tema della tragedia è proprio l’irresolutezza di Amleto, l’inquietudine di un uomo che sa di più di chi gli sta intorno, e tuttavia non abbastanza per attenuare il proprio disagio sulla condizione umana. Amleto conosce la scienza del suo tempo - la fisica e la biologia, per quel che valgono: dopo tutto, frequenta l’Università di Wittenberg - e sa delle complicazioni intellettuali introdotte da Lutero e da Calvino. Ma poiché non riesce a trovare un senso in ciò che vede, a ogni piè sospinto protesta e pone domande. Non è una coincidenza che la parola «question» [domanda] compaia più di una dozzina di volte in Amleto, né che la tragedia cominci con una domanda particolare:

«Chi è là?». Spinoza nacque nell’epoca delle domande, in quella che potrebbe benissimo esser chiamata l’èra di Amleto.

 

busto

 

Spinoza nacque nell’epoca dei fatti osservabili, quando cause e conseguenze di una data azione cominciarono a essere studiate sperimentalmente e non più dibattute standosene comodamente seduti in poltrona. L’intelletto umano aveva ormai acquisito la completa padronanza di un metodo di ragionamento logico e creativo, secondo quanto insegnato da Euclide. Tuttavia, per usare le parole di Einstein, «perché il pensiero logico fosse maturo per una scienza che abbraccia la realtà occorreva una seconda conoscenza fondamentale ... l’esperienza è l’alfa e l’omega di tutto il nostro sapere intorno alla realtà».1 Einstein vedeva in Galileo l’esempio di tale atteggiamento: lo considerava come «il padre della fisica moderna e soprattutto delle scienze naturali moderne»; Bacone, d’altra parte, fu un altro importante esponente del nuovo approccio. Sostenendo il metodo sperimentale, sia Galileo che Bacone procedevano attraverso la graduale eliminazione delle spiegazioni false. Galileo, poi, aggiunse qualcos’altro: era convinto, infatti, che l’universo potesse essere descritto nel linguaggio della matematica, un’idea che avrebbe rappresentato uno dei cardini della scienza moderna. La nascita di Spinoza coincise con il primo fiorire della scienza nel mondo moderno.

L’importanza della misura fu stabilita proprio in quest’epoca, e in quello stesso periodo la scienza adottò un approccio quantitativo. Ora gli scienziati si servivano del metodo induttivo come di uno strumento, e la verifica empirica divenne la base delle indagini sul mondo reale. La caccia alle idee in disaccordo con i fatti era ormai aperta.

Dal punto di vista intellettuale, quest’epoca fu davvero affollata: basti pensare che Thomas Hobbes nacque più o meno contemporaneamente a Spinoza, proprio mentre Cartesio stava diventando una figura di spicco nella filosofia e William Harvey descriveva la circolazione del sangue. Nell’arco della breve vita di Spinoza, il mondo avrebbe conosciuto anche l’opera di Blaise Pascal, Johannes Kepler, Christiaan Huygens, Gottfried Leibniz e Isaac Newton (che nacque solo dieci anni dopo Spinoza). Come disse bene Alfred North Whitehead: «Quel secolo fu troppo denso per spaziare convenientemente gli avvenimenti di rilievo riguardanti tutti i suoi grandi uomini».2

L’atteggiamento generale di Spinoza verso il mondo e la realtà fu parte di questo nuovo fermento teso all’indagine, e affondava le radici in alcuni notevoli cambiamenti verificatisi nel modo di formulare le spiegazioni e valutare le regole. D’altra parte, conoscere la collocazione di Spinoza nel grande quadro della storia e scoprire che la sua intelligenza era in ottima compagnia non ci spiega come mai egli sia stato, nella sua epoca, il personaggio la cui opera fu più ferocemente avversata e bandita - al punto che per decenni quasi non si fece più riferimento alle sue idee, se non in tono dispregiativo. Probabilmente Spinoza non fu più radicale di Galileo, ma fu più duro e ancor più intransigente: fra tutti, il tipo di iconoclasta meno tollerabile. Minacciò l’edificio della religione organizzata fin dalle fondamenta, e lo fece al tempo stesso con coraggio e con modestia. Per estensione, minacciò anche le strutture politiche strettamente associate alla religione. Com’era prevedibile, le monarchie fiutarono il pericolo, e così pure fecero le Province Unite, lo Stato più tollerante dell’epoca, dov’era nato. Quale biografia potrebbe mai aiutarci a spiegare l’emergere di una mente simile?

 

 

L'AIA, 1670

Quando cerco di capire la vita di Spinoza, finisco sempre per tornare all’Aia e al suo arrivo in Paviljoensgracht, in quello che fu un breve periodo di quiete in mezzo alla tempesta, punto d’osservazione d’importanza capitale per spiegare i prima, i dopo e i perché. Spinoza aveva trentotto anni quando giunse all’Aia: da solo, come era sua abitudine. Portò con sé una libreria contenente la sua biblioteca, uno scrittoio, un letto, e l’attrezzatura per fabbricare le lenti. Nelle due stanze prese in affitto in Paviljoensgracht, completò l’Etica, lavorò quotidianamente al taglio e alla molatura delle lenti e ricevette centinaia di visitatori, intraprendendo raramente viaggi di lunghezza significativa. Si recò a Utrecht una sola volta e ad Amsterdam in molte occasioni; in entrambi i casi non si allontanò mai dall’Aia più di una cinquantina di chilometri. Non si spinse mai oltre. Mi viene in mente Immanuel Kant, un altro illustre solitario che, un secolo dopo, riuscì a battere il record di Spinoza - passò tutta la sua vita a Königsberg e dicono che si fosse avventurato fuori città solo una volta. A parte l'avversione per i viaggi e la statura intellettuale, tuttavia, le somiglianze fra i due uomini sono poche. Kant desiderava combattere i pericoli della passione con la fredda obiettività della ragione; Spinoza intendeva combattere passioni pericolose contrapponendo loro emozioni irresistibili. La razionalità bramata da Spinoza richiedeva, come motore, l’emozione. Per come li immagino io, i due filosofi non erano simili neppure nei modi. Kant, quanto meno l’ultimo Kant, teso e formale, incarnava una raffinata circospezione. Una specie di manico di scopa, insomma. Spinoza era affabile e rilassato, sebbene elegante e cerimonioso nel portamento esteriore. L’ultimo Spinoza - sempre che si possa parlare in questi termini di chi stia ancora accingendosi a varcare la soglia dei quarant’anni - era gentile, quasi dolce, nonostante l’ingegno pronto e la lingua tagliente.

Per qualche mese, prima di trasferirsi in Paviljoensgracht, Spinoza aveva preso in affitto dei locali in Stille Veerkade, proprio dietro l’angolo. L’affitto però era troppo alto, o almeno così pensava lui, e non vi rimase a lungo. In precedenza aveva vissuto sette anni a Voorburg, un piccolo sobborgo a est dell’Aia; e prima ancora ne aveva trascorsi due a Rijnsburg, una cittadina vicina a Leida, a metà strada fra Amsterdam e l’Aia. Nel periodo compreso fra il suo trasferimento a Rijnsburg e il momento in cui aveva lasciato la casa paterna, Spinoza aveva vissuto in vari luoghi, ad Amsterdam o nelle vicinanze. A volte era stato ospite di amici, in altri casi aveva preso alloggio come pensionante. Non ebbe mai una casa sua e non occupò mai più di una camera da letto e uno studio.

La frugalità di Spinoza era una regola autoimposta. Nonostante gli alti e bassi dell’azienda paterna, Bento era nato in una famiglia abbiente. Suo zio Abraham era uno dei mercanti più ricchi di Amsterdam, e sua madre aveva portato in dote un cospicuo patrimonio. Ormai quasi trentenne, Spinoza era diventato indifferente alle lusinghe della ricchezza personale e dello status sociale, pur continuando a non veder nulla di male nel profitto economico. Semplicemente, per quanto lo riguardava, non trovava gratificanti il denaro e la proprietà, quantunque pensasse che potessero benissimo esserlo per altri; riteneva inoltre che la determinazione di quanta ricchezza accumulare e di quanto denaro fosse necessario o appropriato spendere stesse a ciascun individuo. Che ognuno giudicasse da sé.

Spinoza pervenne a questo atteggiamento per gradi e non senza conflitti. Egli apprezzava il valore della propria educazione e sapeva bene che essa non sarebbe stata possibile senza la posizione socioeconomica della sua famiglia. Dalla fine dell’adolescenza, fino a ventiquattro anni, Spinoza si dedicò al commercio e per un certo tempo diresse l’azienda familiare. All’epoca, era sicuramente abbastanza interessato al denaro, giacché arrivò a portare in giudizio i suoi debitori, anche loro ebrei. Per la comunità ebraica era uno schiaffo, in quanto ogni tipo di conflitto fra ebrei andava risolto in famiglia, dai suoi capi. Quando il padre morì, lasciando l'azienda sommersa dai debiti, Spinoza non esitò a farsi tutelare dal giudice come creditore privilegiato, nella sua qualità di erede. Per quanto riguarda il denaro e la proprietà, quest’ultimo episodio fu uno spartiacque. Spinoza, infatti, finì col rinunciare del tutto all’eredità, a parte un oggetto: il letto dei suoi genitori. Il ledikant l’avrebbe accompagnato in tutti i suoi spostamenti successivi e fu lì che Spinoza morì. Per inciso, trovo interessante la sua fissazione per il ledikant. Naturalmente, c’erano delle ragioni pratiche per tenersi il letto, almeno fino a un certo punto. Un ledikant era un letto a baldacchino, a quattro colonne, con tende pesanti che potevano essere tirate trasformandolo così in una isola calda e protetta dal resto del mondo. Al tempi di Spinoza, possedere un ledikant era segno di ricchezza. Nelle case di Amsterdam, il letto comune era l’armoire: letteralmente, un letto sistemato all’interno di uno spazioso armadio a muro, che veniva aperto la sera. Ma provate a immaginare il letto in cui i vostri genitori vi hanno concepito e dove avete giocato da bambini, il letto in cui sono morti vostro padre e vostra madre - e immaginate di dormire sempre su quello, in pratica, di viverci sopra. Spinoza non dovette mai sognare un «Rosebud» ormai perduto, poiché non aveva mai dovuto separarsene.3

A metà della sua non lunga vita, Spinoza si trovò in circostanze storiche che finirono per ridurre il valore e la remuneratività dell’azienda familiare - beninteso, nulla di catastrofico. E indubbiamente, da uomo d’affari perspicace e intraprendente qual era, Spinoza avrebbe potuto aggirare questi rovesci. Ma ormai aveva scoperto, come fonti di soddisfazione personale, il pensiero e la scrittura, e volendo dedicare la propria vita a quelle attività, gli bastava poco per mantenersi. In diverse occasioni, l’amico Simon de Vries cercò di offrirgli uno stipendio, ma Spinoza non accettò mai. Quando de Vries, ormai morente, tentò di nominarlo suo erede, Spinoza lo dissuase e non volle accettare altro se non una piccola rendita annuale di cinquecento fiorini che lo aiutasse a sbarcare il lunario. Quando poi de Vries morì lasciandogli in eredità la piccola pensione su cui si erano accordati, Spinoza ne ridusse ulteriormente l’entità, e accettò solo trecento fiorini. Al fratello di de Vries, sconcertato, disse che la somma sarebbe stata più che sufficiente. In seguito, declinò anche la generosa offerta di una cattedra di filosofia all’Università di Heidelberg - una posizione offertagli su raccomandazione di Leibniz - sebbene la principale ragione del rifiuto avesse probabilmente a che fare con una paventata perdita di libertà intellettuale. Comunque, tale rifiuto indica che Spinoza attribuiva maggior valore alla propria libertà di pensiero che alle comodità messegli a disposizione dall’Elettore Palatino a Heidelberg. Spinoza si mantenne con il suo lavoro di fabbricante di lenti e, dopo il 1667, con la piccola rendita lasciatagli da de Vries. Il denaro bastava per pagare vitto e alloggio; per acquistare carta, inchiostro, vetro e tabacco; e per saldare le parcelle del medico. Altro non gli occorreva.

 

 

AMSTERDAM, 1632

Nel bene e nel male, la vita non era stata sempre così. Il padre di Spinoza, Miguel, era un prospero mercante portoghese - proprio come lo era stato, a suo tempo, il nonno paterno del filosofo. Quando, nel 1632, nacque Bento, Miguel trattava nel suo magazzino partite di zucchero, spezie, frutta secca e legname brasiliano. Miguel de Espinoza era un membro rispettato della comunità ebraica di Amsterdam, che contava millequattrocento famiglie, quasi tutte composte da sefarditi di origine portoghese. In diverse occasioni fu membro (parnas) del consiglio di amministrazione della scuola e della sinagoga, e nell’ultimo anno della sua vita entrò a far parte del ma’amad, il consiglio di laici che governava la congregazione. Era molto legato a Saul Levi Morteira, all’epoca uno dei rabbini più influenti di Amsterdam. Lo zio Abraham, poi, era amico di un altro importante rabbino, Menasseh ben Israel. Come molti ebrei sefarditi, gli Espinoza erano fuggiti dal Portogallo e dall’Inquisizione, dapprima approdando a Nantes, in Francia, e poi nei Paesi Bassi, stabilendosi ad Amsterdam non molto tempo prima della nascita di Bento. La madre di Spinoza, Hanna Debora, veniva anche lei da una famiglia di ebrei sefarditi benestanti, di origini portoghesi e spagnole.

In Portogallo l’Inquisizione era stata istituita nel 1536, molto più tardi che in Spagna, e prese a funzionare a pieno ritmo solo dopo il 1580, allorché i due regni furono unificati sotto la stessa corona. Questo lungo ritardo diede agli ebrei portoghesi l’opportunità di emigrare ad Anversa e in seguito ad Amsterdam, terre di gran lunga più promettenti del Nordafrica, dell’Italia settentrionale e della Turchia dove, un secolo prima, erano immigrati gli ebrei spagnoli. Al principio del diciottesimo secolo, l’Olanda - e in particolare Amsterdam - era davvero una terra promessa. A differenza di quanto accadeva pressoché ovunque nel resto d’Europa, la struttura sociale e politica olandese era caratterizzata da una relativa tolleranza razziale (anche verso gli ebrei, soprattutto sefarditi) e religiosa (estesa di buon grado agli ebrei e, sebbene non altrettanto calorosamente, anche ai cattolici). L’aristocrazia era ragionevolmente istruita e ben disposta. La Casa d’Orange aveva i suoi principi, che però occupavano la carica di stadthouder, una sorta di presidente responsabile di fronte a un consiglio di rappresentanti delle Province Unite: l’Olanda era una repubblica, e per un lungo periodo, durante la vita di Spinoza, lo stadthouder non fu il principe d’Orange ma un borghese intelligente. L’Olanda introdusse nella società gli ingredienti della giustizia contemporanea e del capitalismo moderno. Il commercio era un’attività rispettata e al denaro si attribuiva un valore supremo. Il governo promulgava leggi che consentivano ai cittadini di acquistare e vendere liberamente le loro proprietà, traendone il massimo profitto. In quel periodo fiorì una grande borghesia dedita alla ricerca della ricchezza e di una vita di agi. I leader calvinisti più illuminati accolsero volentieri i contributi offerti dai mercanti ebrei portoghesi al raggiungimento di quegli obiettivi.

 

 

Nonostante il suo sradicamento, la comunità ebraica era ricca sia dal punto di vista culturale che da quello economico. Sicuramente essa si scontrò con delle difficoltà, legate a seconda dei casi all’esilio, alle tensioni religiose interne, e alla necessità di adeguarsi a un paese ospite. Ciò nondimeno, al suo interno esistevano probabilmente legami più stretti di quelli che sarebbero stati possibili in Portogallo, dove i suoi membri sarebbero stati dispersi su un territorio di gran lunga più vasto, sotto lo spauracchio dell’Inquisizione. In Olanda, gli ebrei praticavano la propria religione liberamente, a casa come nella sinagoga. Gli affari prosperavano ed essi riuscirono perfino a sopravvivere ai rovesci economici che seguirono alle numerose guerre contro la Spagna e la Gran Bretagna. Gli immigrati potevano addirittura usare - a casa, al lavoro e nella sinagoga - la madrelingua portoghese senza essere per questo stigmatizzati.

Ad Amsterdam non c’era un quartiere ebraico. Gli ebrei potevano risiedere ovunque volessero - compatibilmente con le condizioni economiche di ciascuno. Molti ebrei ricchi sceglievano di prender casa intorno al Burgwaal, ed era lì che abitava la famiglia di Spinoza: non lontano dallo Houtgracht, dove, nel 1639, fu costruita la sinagoga sefardita che infine riunì, consolidandole, le tre comunità ebraiche originarie residenti ad Amsterdam. (L’imponente sinagoga portoghese visibile ancora oggi fu eretta lì vicino nel 1675). Nella stessa area risiedevano anche molti non ebrei, fra i quali spicca Rembrandt, che abitava lungo la Breestraat in una casa tuttora esistente. Non ci sono prove del fatto che Rembrandt e Spinoza si siano mai conosciuti, sebbene vista la sovrapposizione delle date (Rembrandt visse dal 1606 al 1669; Spinoza dal 1632 al I677) sicuramente avrebbero potuto incontrarsi. Rembrandt conosceva diversi membri della congregazione ebraica - alcuni dei quali erano appassionati collezionisti d’arte; a molti di loro fece il ritratto, mentre altri li dipinse in quadri che rappresentavano scene di strada, o nella sinagoga; illustrò inoltre un libro di Menasseh ben Israel, l'erudito più famoso del tempo poi divenuto uno dei maestri di Spinoza. A sua volta, Rembrandt consultò ben Israel per i dettagli del suo Festino di Baldassarre. Sarebbe bello scoprire un ritratto di Spinoza con la firma di Rembrandt, ma non abbiamo indizi in tal senso. Si narra che per il Saul e David, dipinto pressappoco all’epoca dell’espulsione di Spinoza dalla sinagoga, egli avesse realmente utilizzato i tratti del filosofo ebreo. Il quadro ritrae David che suona l’arpa per Saul (ed è completamente diverso dall’altra opera di Rembrandt sullo stesso tema, David suona davanti a Saul, 1629 circa). La corporatura e i lineamenti di David potrebbero in effetti essere quelli di Spinoza; e, quel che più conta, Spinoza poteva davvero essere visto come un David: piccolo ma inaspettatamente forte, capace di distruggere Golia e di scatenare la gelosia di Saul; capace di essere lui stesso Re.4

I limiti imposti dagli olandesi protestanti erano pochi e chiari. Essi avevano identificato come propri nemici i cattolici - soprattutto quelli spagnoli - per via delle loro mire espansioniste perverse e bellicose. Anche gli ebrei consideravano loro nemici i cattolici; in particolare quelli spagnoli che, non paghi d’aver creato una feroce Inquisizione in patria, premevano affinché i portoghesi istituissero la propria. In tali circostanze, ebrei e olandesi si ritrovarono a esser naturali alleati. Inoltre, per gli olandesi gli affari erano affari, e gli ebrei portoghesi portavano con sé buone occasioni di profitto. Essi controllavano - e in questo non erano secondi a nessuno -una rete di relazioni commerciali e finanziarie estesa alla penisola iberica, all’Africa e al Brasile. Parlando di Amsterdam, Cartesio avrebbe detto che, escludendo lui stesso, gli altri erano tutti talmente presi dagli affari e così attenti al proprio utile che si poteva passare in città una vita intera senza esser notati da nessuno. (Pura illusione, certo, ma non tanto lontana dal vero, sebbene Cartesio difficilmente potesse passare inosservato). Quando Spinoza era ancora un ragazzo, gli ebrei erano circa il dieci per cento dei membri della Borsa di Amsterdam, e furono di vitale importanza per diverse operazioni legate a traffici d’armi e a transazioni finanziarie internazionali. Nel 1672, la comunità ebraica di Amsterdam contava ormai circa settemilacinquecento persone. Sebbene rappresentasse meno del quattro per cento della popolazione, annoverava il tredici per cento dei banchieri. (Simon Schama sottolinea che probabilmente la prosperità della comunità ebraica di Amsterdam era dovuta al fatto che essa era una componente significativa, ma non dominante, della vita cittadina, ivi incluse le attività bancarie).5 Non sorprende dunque che gli olandesi sostenessero gli ebrei. Purché non cercassero di convertire i protestanti alla fede ebraica, né intendessero unirsi a loro in matrimonio, gli ebrei erano dunque liberi di praticare la propria religione e di insegnarla ai figli.

Indipendentemente da quanto Amsterdam fosse accogliente e ben disposta verso gli ebrei, non si può pensare alla vita del giovane Spinoza senza associarla in qualche modo all’ombra dell’esilio. Parlare la sua madrelingua doveva ricordarglielo ogni giorno. Spinoza imparò l’olandese e l’ebraico, e successivamente il latino, ma a casa parlava portoghese e a scuola si esprimeva in portoghese o in spagnolo castigliano. Suo padre parlava sempre portoghese, al lavoro come in famiglia. Tutte le transazioni d’affari erano registrate in portoghese: l’olandese era usato solo per trattare con i clienti olandesi, e la madre di Spinoza non lo imparò mai. In seguito, Spinoza si lamentò del fatto che la sua padronanza dell’olandese e del latino non avrebbe mai uguagliato quella del portoghese e del castigliano. «Avrei preferito scrivere nella lingua in cui sono cresciuto» ammise con uno dei suoi corrispondenti.

Usanze e abbigliamento erano anch’essi un continuo memento del fatto che - prosperità a parte - quella era una vita in esilio e non in patria. I sefarditi erano ricercati nell’aspetto esteriore e nel portamento, cosmopoliti e mondani. Il loro stile rispecchiava quello dei raffinati uomini d’affari dell’Europa meridionale: la parola «sefardita» indicava chi proveniva dalle città del Sud, il Sepharad. Laggiù, forse per via del clima più mite, la vita andava mescolando in notevole misura lavoro e vita sociale. Insieme alla passione per gli abiti eleganti e sfarzosi, vi era la curiosità per le notizie provenienti da luoghi lontani, quotidianamente portate dalle navi mercantili che facevano scalo nei grandi porti di città come Lisbona o Porto. Al confronto, gli olandesi dovevano sembrare gente un po’ troppo concreta e concentrata sul lavoro.

All’inizio è probabile che Spinoza fosse stato destinato a una carriera nel commercio; poi, però, sotto la guida di Saul Levi Morteira e Menasseh ben Israel, divenne un brillante studente della tradizione ebraica. I capi della comunità avevano portato i due eruditi ad Amsterdam nella speranza di correggere la diluizione della prassi religiosa seguita a secoli di permanenza nella penisola iberica. Ora che la comunità era ricca e geograficamente coesa, e che i suoi membri non dovevano più tener segrete le pratiche religiose, i tempi erano maturi per dare nuova vita alle tradizioni. Gli ebrei formavano una nação, e Amsterdam sarebbe diventata, di quella nazione, una nuova Gerusalemme. In questo clima di rinascita e di nuove speranze, l’intelligenza prodigiosa del giovane Spinoza fu giustamente tenuta in gran considerazione.

Spinoza si dimostrò uno studente diligente e impegnato. D’altra parte, quella stessa diligenza e quella stessa curiosità che fecero di lui un’autorità sul Talmud, lo portarono a mettere in discussione i fondamenti della dottrina che andava assorbendo. In lui si stava sviluppando una concezione della natura umana che avrebbe finito per diventare inconciliabile con le nozioni che gli venivano impartite. L’allontanamento, a quanto pare, avvenne per gradi e con ogni probabilità la comunità non lo percepì fin quando, all’età di circa diciotto anni, Spinoza non si diede al commercio. Anche allora non vi furono scontri diretti con le autorità della sinagoga; più che altro erano voci, e Spinoza continuò a essere un membro stimato della comunità. I segni però erano chiari. Spinoza aveva stretto varie amicizie fra non ebrei - primo fra tutti Simon de Vries, un facoltoso mercante, la cui famiglia possedeva una splendida casa lungo il Singel e una proprietà a Schiedam, nei pressi di Amsterdam - e stava cominciando ad allontanarsi dalla comunità. Il peggio, però, doveva ancora venire.

A non più di vent’anni, ma forse già a diciotto, Spinoza si iscrisse alla scuola di Franciscus Van den Enden con lo scopo dichiarato di imparare il latino. Van den Enden era un ex gesuita, libero pensatore, poliglotta ed eclettico: laureato in medicina e in legge, vantava una vasta cultura in campi disparati quali la filosofia, la politica, la religione, la musica e la pittura. L’appetito di Van den Enden per la vita, degno di un Gargantua, non gli aveva creato personalmente dei problemi, ma la sua vicinanza ne creò al giovane Bento. All’inizio silenziosamente e poi in modo sempre più palese, prima da adolescente e poi da giovane adulto, egli assaggiò la vita fuori dal paradiso della comunità ebraica. Ma non solo: prese a dire quel che pensava, e ad agire di conseguenza. La comunità reagì dapprima con disappunto, poi con lo scandalo.

 

 

Nel 1656, due anni dopo la morte del padre, il ventiquattrenne Spinoza, ormai responsabile dell’azienda di famiglia - la «Bento y Gabriel de Espinoza» -, continuava a sostenere economicamente la sinagoga. Tuttavia, ormai liberatosi del timore di mettere in imbarazzo il padre di fronte alla comunità, smise di far segreto delle sue idee sulla natura degli esseri umani, su Dio e sulla religione - nessuna delle quali trovava una facile collocazione negli insegnamenti ebraici. La sua filosofia stava prendendo forma e lui ne parlava liberamente. Nessuna esortazione da parte dei suoi maestri di un tempo servì a chiudergli la bocca. Nessun appello lo convinse. Premi o minacce non gli fecero cambiare idea. Il pugnale di un fanatico per poco non mise fine all’imbarazzo della comunità, ma non è affatto certo che dietro vi fosse la decisione della sinagoga. La sera del tentato omicidio, Spinoza indossava un ampio mantello che tenne lontana la lama dal corpo. Per nulla intimorito, sopravvisse per raccontarlo, e conservò il mantello come cimelio. Alla fine, come ultima ratio, la sinagoga decise di escluderlo del tutto dalla comunità. Nel 1656 Spinoza venne formalmente bandito. Si era così conclusa la vita privilegiata di colui che era nato Bento Spinoza - il nome con cui firmava le transazioni d’affari - ma era noto nella comunità come Baruch Spinoza. Da qui comincia la vita - ventuno anni - di Benedictus Spinoza, il filosofo che trascorse all’Aia gli anni della maturità.

 

 

IDEE ED EVENTI

Se la piccola biblioteca di Spinoza può fornire qualche indicazione, i nuovi sviluppi della filosofia e della fisica contemporanee esercitarono un’importante influenza sulla sua formazione. Nella libreria di Spinoza i volumi più frequenti sono le opere di Cartesio e dei fisici. C’era anche Hobbes, come pure Bacone. D’altra parte, negli anni della gioventù, Spinoza dovette leggere moltissimo - libri ai quali non saremo mai in grado di risalire, presi a prestito dalla cerchia delle sue amicizie colte. Senza dubbio Spinoza era a conoscenza dei nuovi metodi per valutare i risultati della scienza, come pure dei nuovi dati della fisica e della medicina, e delle idee innovative di Cartesio e Hobbes, forse i pensatori moderni più letti negli anni della sua formazione. Spinoza non fu uno sperimentatore sistematico - d’altra parte, non lo era nemmeno Bacone - ma aveva una padronanza della scienza empirica che gli veniva dalle sue letture e dal lavoro di ottico. Di sicuro sapeva come valutare i dati. I suoi risultati derivarono dalla riflessione logica su un corpus considerevole di nuove evidenze scientifiche e furono completati da una prodigiosa intuizione.

Probabilmente, la scuola di Van den Enden e il suo stesso direttore furono catalizzatori decisivi per lo sviluppo intellettuale di Spinoza. La cerchia dell’ex gesuita era un ambiente ideale per consentirgli di discutere idee che covava da tempo nella sua giovane mente, e che per maturare avevano bisogno di un dibattito aperto, seppur limitato. Van den Enden dirigeva una scuola esclusiva (situata sul Singel, una delle principali strade-canali di Amsterdam), frequentata dai rampolli dei ricchi mercanti olandesi, desiderosi che i figli crescessero come uomini di mondo. In precedenza aveva diretto una libreria e una galleria d’arte, In de Kunst-Winkel, un luogo di ritrovo che richiamava giovani intelligenti desiderosi di assorbire idee non convenzionali. Con la sua energia e la sua erudizione, Van den Enden era una figura carismatica, ed è facile immaginarlo come leader acuto e geniale dei giovani dissidenti politici e religiosi. (Van den Enden aveva circa cinquant’anni quando conobbe Spinoza, ed era ormai settantenne quando fu impiccato in Francia in seguito a un complotto per rovesciare Luigi XIV. Parlava un buon francese, ma evidentemente non era abbastanza aristocratico per meritare l'onore della ghigliottina).

Sebbene Spinoza si fosse iscritto alla scuola di Van den Enden principalmente per imparare il latino - la lingua franca della filosofia e della scienza che la sua educazione, per altri versi ampia, aveva fino ad allora trascurato - non vi imparò solo questo. Apprese anche nozioni di filosofia, medicina, fisica, storia e politica, comprese le idee sul libero amore difese dal libertino Van den Enden. Spinoza dovette accostarsi a quella bottega di piaceri proibiti con un misto di abbandono e di incanto. Se mai ve ne fu una, quella di Van den Enden era una scuola dello scandalo, e sembra anche che abbia dato a Spinoza il primo assaggio dell’amore, nella persona della sua giovane maestra di latino, Clara Maria van den Enden.

La conoscenza con Van den Enden produsse una svolta importante nella vita di Spinoza, proprio nel momento in cui stavano avendo luogo altri cambiamenti. Negli anni immediatamente precedenti la sua iscrizione, quando aveva circa diciassette o diciotto anni, Spinoza era diventato un attivo uomo d’affari nell’azienda paterna. Entrare nel mondo del commercio significò per lui interrompere gli studi alla scuola ebraica, sebbene avesse continuato a far parte della vita della sinagoga e fosse, a quanto pare, membro di un gruppo di discussione guidato da Menasseh ben Israel - un circolo al quale è probabile partecipassero solo studenti con un’ottima conoscenza della religione e della cultura ebraiche. L’ingresso nel mondo del commercio implicò anche l’incontro con giovani non ebrei con idee simili alle sue. Tra loro c’erano Jarig Jellesz, un mennonita fra i trenta e i quarant’anni; Pieter Balling, un cattolico di cui non si conosce l’età; e Simon de Vries, un quacchero che aveva tre anni meno di Spinoza. Questi tre uomini non erano del calibro intellettuale di Spinoza, ma ne condividevano l’inclinazione alla dissidenza - sia dal punto di vista religioso che politico -, nonché il desiderio febbrile di discutere nuove idee e un giovanile appetito per la vita. Juan de Prado, l’unico coetaneo ebreo con il quale Spinoza strinse un rapporto d’amicizia, era un altro giovane dissidente che fu ripetutamente censurato e infine bandito dalla sinagoga per le sue esternazioni eretiche. Lo scenario era pronto perché il nuovo e il secolare esercitassero un’importante influenza sull’età adulta di Spinoza, appena cominciata.

L’influenza del nuovo deve esser considerata dalla prospettiva del vecchio. Le nuove idee dell’epoca di Spinoza, così traboccante di interrogativi, erano in netto conflitto con le antiche idee della comunità in cui egli era stato educato. Spinoza aveva studiato il Talmud e la Torah, e aveva letto i testi della Qabbalah provenienti dalla tradizione sefardita, particolarmente diffusi fra gli ebrei portoghesi di Amsterdam. Difficilmente lo scontro avrebbe potuto essere più drammatico. Gli antichi testi erano pieni di miracoli, i quali però potevano essere spiegati scientificamente sulla base delle nuove acquisizioni. Nei testi antichi v’era una fede cieca nel mistero e nei significati reconditi, che tuttavia diventavano spiegabili alla luce delle nuove evidenze. Le antiche superstizioni potevano finalmente essere smascherate per quelle che erano.

Può darsi che effettivamente lo scontro fosse inevitabile; la storia personale di Spinoza, comunque, lo rese ancor più probabile. Hanna Debora, sua madre, morì non ancora trentenne quando lui aveva solo sei anni, e la perdita fu un’ombra negli anni altrimenti felici della sua formazione.6 Di lei non sappiamo granché, ma è probabile che il suo contributo allo sviluppo del giovane Spinoza sia stato importante, e la sua morte dovette essere un evento molto sofferto. È improbabile che, dopo la perdita della madre, a Spinoza fosse rimasto molto da godere della sua infanzia, sempre che di infanzia si potesse parlare. La storia del bambino di dieci anni che, mentre frequenta la scuola, dà una mano nell’azienda paterna fa pensare a un ingresso prematuro nell’età adulta. Il giovane Bento era esposto al mondo reale del commercio e agli splendori e alle miserie di un’umanità in lotta per sopravvivere nel brulicante microcosmo di Amsterdam. Miguel de Espinoza si risposò tre anni dopo la morte di Hanna Debora, e sembra che in quel periodo il ragazzo si fosse avvicinato al padre. Si narra che, nonostante partecipasse attivamente alla vita religiosa della comunità, Miguel non potesse sopportare il comportamento ipocrita, religioso o meno che fosse. Egli si faceva beffe dei cerimoniali religiosi e insegnò al figlio a distinguere, nelle relazioni umane, il vero dal falso. Non sorprende dunque che il giovane Spinoza disprezzasse la superstizione e l’artificiosità: era alquanto impudente e spesso, col suo spirito, metteva in imbarazzo i precettori. Miguel, poi, non fece mai mistero del proprio scetticismo a proposito dell’immortalità dell’anima. Spinoza fu certamente stimolato a guardare oltre la facciata, e probabilmente prese coscienza della grande distanza esistente fra i precetti dei testi sacri e la vita quotidiana dei comuni mortali. Sembra dunque che avesse cominciato a mettere in discussione il valore dei rituali già nella casa paterna.

 

 

IL CASO URIEL DA COSTA

L’origine della ribellione di Spinoza potrebbe risalire agli eventi che segnarono l’ultimo anno nella vita di Uriel da Costa, suo parente per parte di madre e personaggio di spicco nella comunità ebraica di Amsterdam negli anni della fanciullezza del futuro filosofo.

Stando ad alcune fonti, l’episodio critico ebbe luogo nel 1640, secondo altre nel 1647; ciò significa che Spinoza avrebbe potuto avere solo otto anni, e in ogni caso non più di quindici. Ecco dunque gli antecedenti.

Uriel da Costa era nato Gabriel da Costa nella città portoghese di Porto, la stessa da cui proveniva la madre di Spinoza. Anche la sua era una famiglia di ricchi mercanti sefarditi in apparenza convertitasi al cattolicesimo. Gabriel fu allevato come cattolico, e aveva goduto di una vita privilegiata. Giovane aristocratico cresciuto con le due passioni dei cavalli e delle idee, le sue inclinazioni intellettuali lo condussero all’Università di Coimbra, dove studiò teologia e divenne professore. D’altra parte, mentre approfondiva la sua conoscenza della religione, il meditabondo da Costa trovò molte pecche nel cattolicesimo e alla fine arrivò a ritenere più autentica e di gran lunga preferibile l’antica fede ebraica della sua famiglia. Tali conclusioni avrebbero dovuto essere mantenute segrete, ma forse non lo furono. Da Costa e sua madre, e probabilmente altri parenti, passarono dalla condizione di conversos, ossia di ebrei convertiti alla cristianità, a quella di marrani, cioè di cristiani che praticavano segretamente il giudaismo. A ragione o a torto, da Costa avvertì l’ombra minacciosa dell’Inquisizione, e si convinse di essere in pericolo, insieme alla sua famiglia. Persuase quindi tutti i suoi congiunti a trasferirsi in Olanda. Col favore della notte, i suoi tre fratelli, la madre e la moglie, i servitori e gli uccelli nelle voliere, la lussuosa mobilia, le delicate porcellane e i ricchi tessuti che riempivano la casa padronale di Porto e la residenza estiva dei da Costa furono caricati a bordo di una barca sul fiume Douro.7 E così i da Costa partirono, come tanti altri prima e dopo di loro, alla volta di un porto olandese o tedesco sulla costa Atlantica, e alla ricerca di una nuova vita.

Sto raccontando questo lungo preambolo per dire che - una volta stabilitosi ad Amsterdam, abbandonato il nome di battesimo portoghese, Gabriel, e adottata la variante ebraica, Uriel - da Costa prese a dedicarsi all’analisi meticolosa del giudaismo e ad ulteriori riflessioni. Stavolta trovò errori nelle pratiche

 

 

e nell’insegnamento dell’ebraismo, e senza mezzi termini proclamò che quelle pratiche erano frutto di superstizione; che Dio non poteva assolutamente essere a immagine dell’uomo; che la salvezza non poteva basarsi sulla paura; e così via. E tutto questo, e molto altro ancora, egli non solo lo proclamò, ma lo affidò anche alla carta. La sinagoga reagì con le censure e gli ammonimenti prevedibili. Nei decenni che seguirono, da Costa fu scomunicato, poi reintegrato, e quindi nuovamente bandito; a un certo punto trovò rifugio nella comunità ebraica di Amburgo, che però alla fine lo espulse anch’essa. Il caso da Costa era diventato una faccenda molto seria per la nação, i cui capi temevano che un’eresia così palese avrebbe come minimo gettato il discredito sulla comunità. Le autorità olandesi avrebbero potuto decidere misure restrittive contro gli ebrei, nel timore che il sentimento antireligioso emerso tra loro potesse propagarsi anche nella popolazione protestante.

Nel 1640 (o al più tardi nel 1647), la vicenda giunse a un punto critico. La sinagoga voleva chiudere il caso, e altrettanto desiderava da Costa, che allora aveva circa cinquantacinque anni ed era notevolmente provato, nel corpo e nello spirito, da una battaglia che sembrava destinata a non finire mai. Si giunse a un accordo. Da Costa avrebbe dovuto presentarsi nella sinagoga e rinnegare la propria eresia, così che tutti potessero assistere al suo pentimento. Avrebbe quindi subito una punizione corporale, in modo che a nessuno sfuggisse la gravità del suo crimine. Dopodiché, avrebbe potuto riacquisire il suo status in seno alla nazione ebraica.

Nel suo Exemplar humanae vitae, da Costa si ribella a questa prepotenza e lascia chiaramente intendere che l’aver accettato l’accordo non aveva minimamente significato, per lui, un cambiamento di idee. Le continue umiliazioni e il vero e proprio sfinimento fisico, spiega, non gli avevano lasciato altra scelta.

Il giorno della punizione, pubblicizzato in modo capillare, venne in un clima di grande eccitazione: un misto di grande teatro e di spettacolo circense, tutto in uno. La sinagoga traboccava di uomini, donne e bambini, seduti e in piedi, praticamente senza spazio per muoversi, tutti in attesa che si desse inizio alla festa. L’atmosfera era densa, pesante di eccitazione; il silenzio era spezzato solo dallo scalpiccìo delle scarpe sulla sabbia che copriva il pavimento di legno.

Al momento convenuto, da Costa fu invitato a salire sul palco e a leggere una dichiarazione preparata dai capi della congregazione. Usando le loro parole, egli confessò le proprie colpe - la non osservanza del Sabato, la disobbedienza nei confronti della Legge, il tentativo di impedire ad altri di convertirsi all’ebraismo - tutti atti per i quali avrebbe meritato di morire mille volte, ma che sarebbero stati perdonati perché egli prometteva, in riparazione, di non compiere mai più quelle odiose iniquità e perversità.

Finita la lettura, fu invitato a scendere dal palco e un rabbino gli sussurrò all’orecchio di recarsi in un certo angolo della sinagoga. Da Costa obbedì. La guardia (chamach) gli chiese allora di spogliarsi fino alla cintola, di togliersi le scarpe e di cingersi la testa con un fazzoletto rosso. Poi venne fatto appoggiare contro una colonna, e le mani gli furono legate con una corda. Il silenzio era sepolcrale. Si avvicinò il cantore, prese una frusta, e cominciò ad assestargli trentanove scudisciate sul dorso nudo. Mentre la punizione procedeva, forse per scandire le frustate, la congregazione cominciò a cantare un salmo. Da Costa contò i colpi e diede atto ai suoi torturatori di aver osservato scrupolosamente la Legge, secondo la quale il loro numero non doveva mai superare i quaranta.

Quando tutto fu finito, da Costa ebbe il permesso di sedere sul pavimento e di rivestirsi. Un rabbino annunciò allora il suo reintegro nella comunità, affinché tutti udissero. La scomunica fu revocata e le porte della sinagoga si riaprirono dinanzi a lui, proprio come un giorno gli si sarebbero aperte quelle del paradiso. Non sappiamo se l’annuncio fu salutato in silenzio o con un applauso. Personalmente, opto per il silenzio.

Il rituale, tuttavia, non era ancora terminato. Da Costa fu invitato a recarsi alla porta principale e a sdraiarsi sul pavimento, di traverso sulla soglia. La guardia lo aiutò a sistemarsi per terra, e gli tenne premurosamente la testa. Poi, uno alla volta, uomini, donne e bambini lasciarono il tempio, e per far lo dovettero passare sopra di lui. Nessuno in realtà lo calpestò, ci rassicura nelle sue memorie: semplicemente lo scavalcarono.

Ora la sinagoga era vuota. La guardia e pochi altri si congratularono calorosamente con da Costa per come aveva sopportato bene la punizione, e per il sorgere di un nuovo giorno nella sua vita. Lo aiutarono ad alzarsi e tolsero la sabbia caduta da tutte quelle scarpe sui suoi vestiti stracciati. Uriel da Costa era nuovamente un membro a pieno titolo della Nuova Gerusalemme.

Non è chiaro quanti giorni durò quel compromesso. Da Costa fu accompagnato a casa e terminò il suo manoscritto dell’Exemplar humanae vitae. Le ultime dieci pagine trattano di questo episodio e della sua impotente ribellione. Finito di scrivere, da Costa si puntò la pistola alla tempia. Il primo proiettile mancò il bersaglio; il secondo lo uccise. Sotto molti punti di vista, l’ultima parola era stata sua.

 

 

In nessun passo delle sue opere o della corrispondenza che ci è pervenuta, Spinoza menzionò mai Uriel da Costa per nome. Ciò nondimeno, sapeva tutto della sua vicenda. Certo, in quello stesso periodo, vi furono altre scomuniche, ritrattazioni e punizioni pubbliche. Nel 1939, un uomo di nome Abraham Mendes fu sottoposto a una punizione simile - ritrattazione, frustate e scavalcamento sulla soglia del tempio da parte di tutti i membri della comunità - a indicazione del fatto che la sinagoga non esitava a imporre la disciplina fra i propri ranghi.8 Tuttavia, quella di da Costa fu senz’altro, nel suo genere, la vicenda più rilevante. Egli non era semplicemente un eretico, ma un eretico pubblicato, e aveva insistito nei suoi comportamenti devianti per decenni, il che spiega l’atmosfera di scandalo che si era creata intorno al suo caso. Spinoza, indipendentemente dal fatto che all’epoca avesse otto o quindici anni, era fra il pubblico con il padre e i fratelli. Senza contare che da quel giorno, e per anni, il caso fu portato ad esempio, e se ne percepiscono i contorni in alcuni degli scritti di Spinoza sulla religione organizzata. Da ultimo - e questa è forse la cosa più importante - Spinoza finì per fare propria la posizione generale di Uriel da Costa sulla religione.9 Da Costa non fu un pensatore profondo come Spinoza: era piuttosto un uomo tormentato, che non poteva impedirsi di soffrire, né di reagire con indignazione, di fronte a qualsiasi iniquità gli capitasse di cogliere. Da Costa diede voce a una percezione di ipocrisia condivisa da molti suoi contemporanei, e la sua vera originalità fu nel martirio. Può darsi che il silenzio di Spinoza su questo evento riflettesse la sua decisione di negare di essere stato influenzato dalle idee di Uriel da Costa, giacché esse erano comunque nell’aria, e lo stesso da Costa non le trattò mai con la profondità di analisi che alla fine dedicò loro Spinoza. Oppure può darsi, semplicemente, che questi fosse a disagio e - più o meno consapevolmente - non volesse riconoscere un debito, ammesso che un debito ci fosse. (Lo stesso si potrebbe dire, per inciso, a proposito della sua relazione con Van den Enden, che egli non citò mai per nome). Sia come sia, è verosimile che la vicenda di da Costa abbia avuto un immenso impatto su Spinoza, più per i suoi aspetti drammatici che per le analisi espresse nell ’Exemplar humanae vitae. Può darsi che il ricordo dell’episodio abbia reso Spinoza più inflessibile al momento di combattere la sua stessa battaglia, e probabilmente ebbe un peso nella sua decisione di non presenziare alla propria scomunica. Il cherem di Spinoza fu letto sullo stesso palco da cui da Costa pronunciò la sua ritrattazione, ma in absentia.

 

 

LA PERSECUZIONE DEGLI EBREI E LA TRADIZIONE DEI MARRANI

Nonostante la sua prosperità esteriore, la nazione ebraica di Amsterdam non era affatto al sicuro. C’era la costante paura che ogni mossa falsa da parte di un ebreo potesse essere male interpretata dalle autorità calviniste e dar luogo a censure o a punizioni contro tutta la comunità. Gli ebrei erano abituati alle persecuzioni, e gli accordi verbali che regolavano la loro vita ad Amsterdam imponevano loro di rigare dritto. Dovevano esibire la loro fede in Dio, ma non difendere pubblicamente il giudaismo né tentare di fare proseliti fra i protestanti. Non potevano contrarre matrimonio con gli olandesi. Soprattutto, dovevano comportarsi con discrezione.

Gli ebrei erano ospiti utili: non compatrioti. La loro buona condotta poteva essere compensata con le libertà civili, sulle quali d’altra parte incombeva sempre il rischio della revoca. La punizione di Uriel da Costa ebbe lo scopo di ricordare alla comunità quel rischio. Probabilmente, gli ebrei della generazione di Spinoza si consideravano ormai olandesi e non esiliati; con il passare del tempo, infatti, Spinoza assume un’identità olandese. Le fondamenta di quell’identità, tuttavia, erano recenti e non particolarmente solide.

L’architettura della nuova sinagoga portoghese di Amsterdam è eloquente al riguardo. La straordinaria struttura, inaugurata nel 1675, non è un edificio unico, ma un complesso cintato progettato per contenere un tempio, una scuola e luoghi in cui adulti e bambini potessero rispettivamente incontrarsi e giocare, protetti dalla società circostante.

I capi della comunità erano realmente preoccupati per le possibili violazioni delle regole fissate dagli olandesi. In primo luogo, capivano che mentre il benvenuto loro riservato era fondato sugli interessi commerciali olandesi, la stabilità di quella benevola accoglienza dipendeva dall’atteggiamento, notevolmente tollerante e generoso, di una parte delle autorità. Le dimensioni di quel segmento variavano a seconda dei capricci della politica, e di conseguenza la sua influenza aumentava o diminuiva. Ai tempi in cui de Witt era Gran Pensionario, per esempio, le Province Unite furono la più avanzata democrazia dell’epoca. Le influenze più conservatrici e bigotte (sostanzialmente rappresentate dagli Orangisti) furono tenute sotto controllo. Ma dopo l’assassinio dei de Witt, nel 1672, si verificò la situazione opposta, e il sogno democratico venne infranto.

In secondo luogo, nonostante una notevole coesione, all’interno della comunità ebraica vi erano tensioni. C’erano, per esempio, conflitti legati alle pratiche religiose - il che non sorprende se si pensa che in Portogallo la maggior parte, o forse tutti, i membri della nação avevano praticato in segreto senza l’aiuto di una sinagoga. E poi c’erano conflitti legati a un gran numero di problemi sociali, la cui presenza, in un gruppo segregato per tradizione era in effetti inevitabile, e non sorprende. I capi della nação fecero il possibile per impedire che questi conflitti fossero visibili agli olandesi. L’immagine che desideravano proiettare all’esterno - di persone tutte dedite al lavoro e alla venerazione di Dio - non poteva andare in frantumi. Era già abbastanza imbarazzante dover combattere con le conseguenze sociali dell’appetito sessuale dei sephardhim - che si diceva fosse insaziabile; o gestire gli immigrati provenienti dal Nord e dall’Est dell’Europa, perlopiù gente povera e non istruita. Spinoza divenne un testimone attento di questi conflitti umani, interpersonali, sociali, religiosi e politici. Quando scriveva degli esseri umani e delle loro debolezze, come individui o in seno alle istituzioni religiose e politiche da essi stessi create, sapeva bene di che cosa parlava.

 

 

Spinoza aveva ben presente la storia degli ebrei sefarditi prima del loro arrivo nei Paesi Bassi e aveva una grande familiarità con le dimensioni politiche e religiose della questione ebraica, sulla quale si dilungò nel Tractatus. La scelta e la forma dei temi della sua filosofia non poterono sottrarsi al peso di questa storia, di cui i marrani erano una componente importante.

La tradizione dei marrani consisteva nella pratica segreta dei rituali ebraici da parte di ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo. Questa tradizione cominciò decenni prima che gli ebrei, nel 1492, fossero espulsi dalla Spagna, e si sviluppò in special modo in Portogallo dopo il 1500. Un secolo dopo, quando l’élite della comunità si stava accingendo a migrare nei Paesi Bassi, il fenomeno era ancora importante,10

Dopo il 1492, moltissimi ebrei sefarditi spagnoli fuggirono in Portogallo. Secondo alcune stime, più di centomila persone attraversarono il confine, attratte dalla tolleranza fin lì dimostrata dai portoghesi nei confronti degli ebrei. La comunità ebraica portoghese, tuttavia, era molto piccola, e la sua improvvisa crescita generò numerosi problemi sociali per la difficoltà di integrare la nuova popolazione nel tessuto della società ospitante. Una parte significativa dei nuovi arrivati - molti dei quali erano mercanti, finanzieri, professionisti e artigiani esperti - si distingueva nettamente per censo e prestigio sociale dalla piccola borghesia portoghese dell’epoca, come pure dalla gente comune e dall’aristocrazia. Questi non si inserirono affatto. In un clima di grande tensione, re Giovanni II e il suo successore Emanuele I affrontarono il problema con strategie molto diverse. Nel 1492, quando la questione si presentò per la prima volta, Giovanni

II tassò senza pietà gli immigrati. Con otto cruzados si otteneva un permesso di soggiorno per soli otto mesi, trascorsi i quali, per poter rimanere indefinitamente, bisognava pagare alla corona una tassa pesantissima, la cui entità non era rivelata. A quelli che non pagavano non erano riconosciuti i diritti civili, né la cittadinanza. In effetti, essi diventavano proprietà del re ed esistevano a sua discrezione. Emanuele I imboccò una strada diversa. Il Portogallo era impegnato in una colossale impresa coloniale, la costruzione di un impero oltremare assolutamente sproporzionato rispetto alle dimensioni limitate del territorio e della popolazione della madrepatria. Emanuele capì che gli ebrei potevano dare un contributo importante in questo straordinario sforzo, e ripristinò i loro diritti civili. Il rovescio della medaglia stava nel suo prezzo esorbitante: la conversione forzata al cristianesimo. Gli ebrei dovevano scegliere se farsi battezzare o lasciare il paese.11

In breve, molti ebrei che prima erano stati espulsi e venivano sfruttati furono battezzati. Quel che davvero accadde in seguito è difficile da quantificare, ma più o meno le cose andarono così. Una parte significativa della popolazione sefardita fu completamente assimilata nella religione cristiana - quale veniva praticata in Portogallo - cosa che comportò diversi gradi di sofferenza. Costoro divennero conversos o cristãos-novos, ossia «nuovi cristiani». Dopo molte generazioni, i loro discendenti si ritrovano ancora tra i cattolici, i protestanti o anche tra individui senza legami religiosi; mescolati al tessuto sociale di quell’antico paese, le loro origini ebraiche sono ormai confuse da cinque secoli di storia. Altri ebrei sefarditi divennero marrani: esteriormente si comportavano come cristiani, ma nelle loro case si sforzavano di rimanere ebrei osservanti e di tener vive le proprie tradizioni. Nessuno sa quanti fossero, né per quanto tempo essi praticarono in segreto la loro religione, ma è improbabile che la maggior parte dei nuovi cristiani praticassero il giudaismo in segreto. Per inciso, il termine «marrano», che deriva dallo spagnolo marrar, significa «porco», o anche, con allusione a una debolezza intellettuale, «inetto, fallito».

Il destino dei marrani fu molto vario. Alcuni perirono per mano dell’Inquisizione la quale, una volta istituita in Portogallo nel 1536,12 spostò la propria attenzione dagli eretici protestanti - che in territorio portoghese erano in numero insufficiente ad alimentare le persecuzioni - ai marrani, operazione ben più vantaggiosa sia per la Chiesa che per lo Stato.13 Altri rinunciarono al proprio audace proposito di conservare una tradizione ormai al tramonto e piena di rischi, e finirono per unirsi ai ranghi degli ex ebrei portoghesi. Il gruppo più esiguo - che disponendo di grandi ricchezze e contatti internazionali poteva permettersi di emigrare - alla fine lasciò il Portogallo.

I marrani cambiavano spesso nome, non solo per ragioni simboliche - come quando Gabriel si era rinominato Uriel - ma per sicurezza. Gli pseudonimi confondevano le spie dell’Inquisizione e ritardavano il momento in cui i loro sospetti sarebbero caduti sui familiari rimasti in Portogallo. L’esigenza di tenere nascoste non solo le attività, ma anche le idee, era ancora ben viva nella mente degli adulti che circondavano Spinoza bambino e adolescente. Un’altra eredità della vita da marrano era un atteggiamento stoico. Per molti decenni erano sopravvissuti conservando la loro fede in circostanze difficilissime, senza l’aiuto di un’istituzione religiosa - le sinagoghe ovviamente erano chiuse - rimanendo coraggiosamente nell’ombra. Quando anche a Spinoza toccò di nascondere le proprie idee, fu per ragioni non del tutto diverse, e l’esperienza ancestrale della sua gente gli si rivelò utile. L’arte del depistaggio gli venne spontanea, come pure l’inclinazione allo stoicismo: un aspetto caratteristico della condotta di Spinoza, le cui origini non vanno ricercate solo nella filosofia greca. Cosa ancor più importante, la storia recente degli ebrei sefarditi indusse Spinoza a confrontarsi con la strana combinazione di decisioni religiose e politiche che avevano mantenuto, nei secoli, la coesione della sua gente. Io credo che ciò lo abbia spinto a prendere posizione su quegli eventi storici. Il risultato fu la formulazione di un’ambiziosa concezione della natura umana che potrebbe trascendere i problemi del popolo ebraico ed essere applicabile all’umanità in senso lato.

Spinoza sarebbe stato lo stesso, senza il vertiginoso senso di liberazione che i marrani sperimentarono ad Amsterdam? Credo proprio di no. Spinoza sarebbe stato Spinoza se i suoi genitori fossero rimasti in Portogallo? Possiamo immaginare Bento crescere a Porto, Vidigueira o Belmonte? Neanche per idea, naturalmente - e questo per mille ragioni. E vero che il conflitto inerente alla mente del marrano lo spinse ad abbandonare le inconciliabili forze religiose e ad accogliere il naturale e il secolare.14 Ma quale che fosse l’intensità del conflitto, per accendere il fuoco della creatività occorreva una scintilla, e quella scintilla fu la libertà. Può suonare paradossale, visto il modo in cui l’Olanda trattò le idee di Spinoza dopo la sua morte, ma non lo è. La libertà di cui godeva l’Olanda non era abbastanza ampia per ospitare l’opera del filosofo una volta che essa fu ultimata e pubblicata, né, a maggior ragione, per accoglierla favorevolmente. Tuttavia, fu abbastanza ampia per consentire al suo autore di accedere a letture nuove e importanti del suo tempo; di discutere le sue nuove idee con altri individui di religione ed estrazione sociale diverse; e di condurre, sebbene senza grandi margini, una vita indipendente, dedita a una sola attività: ripensare la natura umana. Nel diciassettesimo secolo, nulla di tutto questo sarebbe stato possibile in Portogallo o - se è per questo - in nessun altro luogo del mondo. Fu necessario l’ambiente unico dell’epoca d’oro olandese perché i conflitti repressi di un popolo penalizzato potessero trasformarsi nell’esuberanza creativa di un essere umano eccezionalmente dotato.

 

 

LA SCOMUNICA

Spinoza nacque in una comunità di esiliati - e a ventiquattro anni fu lui stesso esiliato da quella comunità. Aveva imboccato la strada che l’avrebbe portato a un isolamento fisico e sociale ancora maggiore, trasceso solo dal carattere universale della sua opera. Gli eventi che compongono l’ultimo capitolo dei suoi rapporti con la sinagoga sono drammatici quasi quanto quelli che segnarono l’uscita di scena di Uriel da Costa. I rabbini conoscevano le idee di Spinoza ed erano consapevoli che egli stava sviluppando argomentazioni contro numerosi aspetti della Legge. Fino alla morte del padre, tuttavia, se si escludono le discussioni che intratteneva con singoli rabbini, sembra che Spinoza non avesse proclamato le sue idee in pubblico, né le aveva messe per iscritto. Continuava a recarsi nella sinagoga, e alla morte del padre, ormai ventiduenne, aveva preso le redini dell’azienda familiare. Fu allora che ebbe luogo la rottura. Spinoza divenne più esplicito e non ebbe più timore dell’imbarazzo che le sue opinioni avrebbero potuto causare; strinse amicizie importanti fuori della congregazione, e cominciò a portare al cospetto del mondo olandese questioni che, pur non riguardando la religione, coinvolgevano comunque i membri della comunità ebraica. Ignorò insomma la rigida regola secondo la quale tutte le questioni sociali riguardanti gli ebrei - dispute sui commerci, controversie di proprietà e simili - dovevano essere regolate dal braccio secolare della nação, e non dai tribunali olandesi.

Gli anziani della sinagoga usarono ogni mezzo a loro disposizione per indurre Spinoza a recedere dal suo comportamento, arrivando persino a promettergli una pensione annuale di mille fiorini, e possiamo solo immaginare il disprezzo, a malapena celato per educazione, con cui Spinoza declinò l’offerta. In seguito fu emesso contro di lui un cherem «minore», con il quale veniva espulso dalla comunità per trenta giorni. Successivamente, può darsi che gli anziani avessero commissionato il tentativo di omicidio al quale Spinoza scampò. Tutte quelle manovre non fecero che rafforzare la sua decisione.

Il 27 luglio del 1656, la sinagoga emise infine il cherem «maggiore». Occorre spendere qualche parola in merito. E importante precisare che sebbene la parola cherem sia sempre resa con «scomunica», una traduzione più accurata del termine sarebbe «bando» o «esclusione». Le punizioni non erano comminate dalle autorità religiose, ma dagli anziani della comunità, i senhores o «consiglieri»; i rabbini venivano comunque consultati e le conseguenze del castigo non erano solo religiose. Chi riceveva un cherem era emarginato sia fisicamente sia dal punto di vista sociale. D’altro canto, vale la pena di notare quanto fosse blando il cherem in confronto all’equivalente cattolico, l'auto da fé. Perfino le trentanove frustate del povero Uriel da Costa sono ben poca cosa se confrontate alla camera della tortura e al rogo che toccavano agli eretici che non si pentivano e finivano nelle mani dell’Inquisizione - e questo indipendentemente dal fatto che avessero o meno qualcosa di cui pentirsi. Il male, dopo tutto, ha diverse gradazioni.

Secondo gli standard della comunità ebraica di Amsterdam, il cherem contro Spinoza fu insolitamente crudele e violento; e non c’è dubbio che la punizione avesse messo in imbarazzo la comunità. Quando il pastore luterano Johannes Koehler (Colerus), il principale biografo di Spinoza,15 suo contemporaneo, cercò di procurarsi il testo del cherem, incontrò l’opposizione degli anziani.

I registri della comunità - O livro dos acordos da nação - attestano che dalla nascita di Spinoza, fino a quando venne emesso il cherem contro di lui, erano stati pronunciati quindici cherem maggiori, nessuno dei quali però altrettanto violento nel linguaggio o altrettanto completo nella condanna. Fatto curioso, pare che l’anatema pronunciato in quell’occasione fosse stato scritto alcuni decenni prima dagli anziani della comunità sefardita veneziana. L’anatema fu importato in Olanda dagli anziani di Amsterdam molto prima del 1656 e incluso in un libro ove erano elencate le diverse punizioni da usarsi all’occorrenza, in casi di indisciplina. Fu il rabbino Saul Levi Morteira, già maestro di Spinoza e grande amico di suo padre, a scegliere quel brano particolare fra quelli disponibili. Vale la pena di riportare qui il testo, tradotto dall’originale portoghese:

 

«I signori del ma’amad, da lungo tempo a conoscenza delle opinioni e delle azioni malvagie di Baruch de Espinoza, hanno cercato in vario modo e con diverse promesse di farlo tornare sulla retta via. Ma non essendo riusciti a emendarlo in alcun modo e continuando viceversa a ricevere ogni giorno nuove notizie sulle abominevoli eresie che questi ha praticato e insegnato nonché sui suoi atti mostruosi, e avendo numerosi testimoni degni di fiducia di tutto questo che hanno deposto e reso testimonianza al cospetto del suddetto Espinoza, sono giunti alla conclusione della verità di tali fatti; e dopo aver esaminato la questione in presenza degli onorevoli chachamin, hanno deciso, con il loro consenso, che il suddetto Espinoza sia bandito ed espulso dalla nazione di Israele:

«“Su decreto degli angeli e su ordine dei santi noi scomunichiamo, espelliamo, malediciamo e danniamo Baruch de Espinoza, con il consenso di Dio, che Egli sia lodato, e con il consenso dell’intera santa congregazione; e di fronte ai libri sacri, in nome dei seicentotredici precetti che essi contengono, noi lo scomunichiamo con il cherem che Joshua scagliò su Gerico, con la maledizione con cui Elisha maledisse i fanciulli, e con tutte le imprecazioni scritte nei libri della Legge. Che egli sia maledetto di giorno, e maledetto di notte. Maledetto nel sonno, e maledetto nella veglia. Maledetto quando esce, e maledetto quando entra. Il Signore non lo perdonerà, ma la sua collera e la sua furia si scateneranno contro di lui; sul suo capo si abbatteranno tutte le maledizioni scritte nei Libri della Legge, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo, e lo allontanerà, con suo gran male, dalle tribù di Israele, con tutte le maledizioni del firmamento scritte nei Libri della Legge. Ma voi, voi che siete fedeli al Signore vostro Dio, voi tutti oggi siete vivi.

«“E guardatevi dal comunicare con lui, a voce o per iscritto; che nessuno gli mostri favore alcuno, stia sotto il suo stesso tetto, o si avvicini a lui più di quattro cubiti; né legga alcunché scritto o composto da lui”».16

 

E così, con queste parole, Spinoza fu espulso dalla comunità. Parenti e conoscenti ebrei avevano la proibizione di vederlo e dovevano tenersi alla larga da lui. Era libero come un uccello e quasi altrettanto spogliato di tutto. Da quel momento, si fece chiamare Benedictus.

Andrebbe sottolineato che, persino in questa fase di scandalo aperto, non abbiamo alcun indizio che Spinoza, per ottenere una pubblica vittoria, abbia tentato di difendersi con le sue parole, approfittando dell’imbarazzo dei giudici. Probabilmente, se avesse voluto, avrebbe potuto denunciare la prepotenza della sinagoga, e rispondere al cherem con un fuoco di sbarramento di argomentazioni retoricamente devastanti; ma non lo fece.17

L’autocontrollo di cui diede prova Spinoza fu un primo segno della saggezza che lo condusse, anni dopo, a insistere affinché i suoi testi circolassero solo in latino, in modo che solo una persona erudita potesse leggerli e confrontarsi con le idee, potenzialmente inquietanti, che essi trasmettevano. Io credo che Spinoza fosse sinceramente preoccupato per l’impatto che le sue idee potevano avere su chi non aveva nient’altro che la fede per mantenere equilibrata la propria vita.

Il 27 luglio 1656, in piena estate - probabilmente nella casa di un amico olandese non lontana dalla sinagoga - Spinoza accolse la notizia del cherem, e si dice abbia pronunciato queste parole: «Questo non mi costringe a fare nulla che non avrei fatto altrimenti». Semplice, dignitoso, appropriato.

 

 

L’EREDITÀ DI SPINOZA

L’eredità spinoziana è una questione triste e complicata. Potremmo dire che - dato il contesto storico e le posizioni intransigenti assunte da Spinoza - la veemenza degli attacchi e l'efficacia con cui la sua opera venne messa al bando erano prevedibili. E in una certa misura, infatti, Spinoza le aveva previste, come sembrano indicare le sue precauzioni. Ciò nondimeno, la reazione delle autorità si rivelò più dura di quanto ci si potesse legittimamente aspettare.

Spinoza morì senza lasciare un testamento, ma aveva dato a Rieuwertsz, suo amico ed editore ad Amsterdam, istruzioni dettagliate per la sistemazione dei suoi manoscritti. Nulla può dirsi di Rieuwertsz se non che fu leale, e che dimostrò intelligenza e coraggio. Spinoza morì nel febbraio del I677, e nel novembre dello stesso anno uscì un libro intitolato Opera posthuma, con l’Etica come saggio centrale. Nel 1678 cominciarono a comparire traduzioni in lingua olandese e francese. Rieuwertsz e gli amici di Spinoza si trovarono a dover fronteggiare attacchi d’inusitata violenza contro le idee del filosofo defunto. La condanna degli ebrei, della Chiesa di Roma e dei calvinisti era scontata, ma le reazioni si spinsero oltre. Le Corti d’Olanda per prime misero al bando il libro, e il loro esempio fu seguito da altri paesi europei. Nelle Province Unite, in particolare, il bando fu fatto rispettare con grande fermezza. Le autorità ispezionavano le librerie e confiscavano ogni copia dell’opera di Spinoza capitasse loro a tiro. La pubblicazione o la vendita del libro era un reato, e tale rimase finché la curiosità intorno alla vicenda non si spense. Rieuwertsz eluse i controlli in modo magistrale, negando costantemente di essere a conoscenza degli originali e declinando ogni responsabilità nella pubblicazione. Riuscì così a distribuire illegalmente, in Olanda e all’estero, un certo numero di copie del libro: non è chiaro esattamente quante.

Le parole di Spinoza furono quindi messe al sicuro in molte biblioteche private d’Europa - in barba ai divieti delle autorità politiche e religiose. In Francia, in particolare, il libro fu molto letto. Non c’è dubbio che i concetti più accessibili dell’opera - la parte che trattava della religione organizzata e dei suoi rapporti con lo Stato - venissero recepiti e, in certi ambienti, trovassero ammiratori. Ciò nondimeno, le Chiese e le autorità vinsero largamente la loro battaglia, perché le idee di Spinoza non potevano venir commentate positivamente in alcuna pubblicazione a stampa. Una ingiunzione tanto più efficace in quanto non dichiarata ufficialmente. Pochi filosofi o scienziati osarono schierarsi a fianco di Spinoza, giacché in tal modo avrebbero corteggiato la propria rovina. Ben difficilmente chi avesse citato apertamente le argomentazioni di Spinoza o si fosse richiamato alla sua opera, a sostegno della propria tesi, si sarebbe fatto ascoltare. Spinoza era maledetto, e tale rimase in tutta Europa per gran parte dei cent’anni che seguirono alla sua morte. I commenti negativi erano benvenuti, e non mancarono certo. In Portogallo, ad esempio, era d’obbligo condire i riferimenti a Spinoza con aggettivi dispregiativi come «vergognoso», «pestifero», «empio» o «stupido»!18 In qualche caso, le critiche erano cortine fumogene, e in realtà valsero a diffondere le idee di Spinoza, sia pure velatamente. L’esempio più notevole di questa finta perplessità fu la voce su Spinoza nel Dictionnaire historique et critique di Pierre Bayle. Maria Luisa Ribeiro Ferreira sostiene che Bayle non si spinse oltre l’ambivalenza o forse fu intenzionalmente ambiguo; di fatto, proprio mentre sembrava respingerle, egli riuscì ad attirare l’attenzione sulle idee di Spinoza.19 La voce su Spinoza è la più ampia di tutto il dizionario, e questo la dice lunga.

Talvolta gli atteggiamenti dubbiosi e ambivalenti ad arte non furono consentiti e i segreti ammiratori furono costretti a ripulire i loro scritti da ogni empio spinozismo. Altrimenti ... Un notevole esempio è la pubblicazione, nel 1748, dello Spirito delle leggi, di Montesquieu, fondamentale contributo alla filosofia dell’Illuminismo. Le idee del filosofo francese sull’etica, Dio, la religione e la politica erano di chiaro stampo spinoziano, e come tali furono aspramente criticate, il che non sorprende. A quanto pare Montesquieu non aveva previsto la virulenza di quegli attacchi. Non molto tempo dopo fece pubblica abiura proclamando la sua fede in un Dio creatore cristiano e negando ogni influenza da parte di Spinoza. Come avrebbe potuto, lui così credente, avere a che fare con quell’empio? Ma il Vaticano non si lasciò convincere e il giudizio negativo su Montesquieu - narra Jonathan Israel - non venne revocato. Caute!

Mentre i testi scritti venivano purificati da ogni riferimento a Spinoza, le sue idee andarono facendosi sempre più anonime agli occhi delle generazioni successive. L’influenza di Spinoza fu un’influenza misconosciuta. Spinoza fu messo alla gogna e saccheggiato. Quando era vivo, la sua identità era nota ma le sue idee circolavano segretamente; dopo la sua morte, le idee presero a circolare liberamente, ma l’identità del loro autore fu evidente solo ai contemporanei e venne attentamente nascosta al futuro.

Questo stato di cose sta finalmente cambiando. In tempi recenti è emerso con chiarezza che l’opera di Spinoza fu un motore decisivo per lo sviluppo dell’Illuminismo, e che le sue idee contribuirono a formare il dibattito intellettuale dell’Europa del diciottesimo secolo - per quanto la storia del periodo difficilmente lo faccia pensare. Jonathan Israel sostiene questa tesi in modo convincente, rivelando fatti importanti dietro al silenzio che indusse molti a credere che l’influenza di Spinoza fosse morta con lui.20 Israel, in particolare, contesta la diffusa opinione che l’opera di John Locke abbia avuto maggior peso nelle primissime fasi dell’Illuminismo. L’Encyclopédie di Diderot e di d’Alembert, ad esempio, dedica a Spinoza uno spazio cinque volte maggiore, pur riservando a Locke un maggior numero di giudizi positivi - forse, insinua Israel, «a scopo diversivo». Come sottolinea Israel, nel Grosses Universal-Lexicon di Johann Heinrich Zedler, la più vasta enciclopedia del diciottesimo secolo (pubblicata nel 1750), le voci dedicate a Spinoza e allo spinozismo sono entrambe più ampie di quella, modesta, riservata a Locke. L’astro di Locke sorge, ma più tardi.21 Pochi filosofi hanno avuto l’onestà intellettuale di rendere omaggio a Spinoza, e ancor meno di porsi come suoi discepoli o continuatori. Nemmeno Leibniz, sebbene avesse letto tutti gli scritti di Spinoza prima ancora che fossero pubblicati e probabilmente fosse, all’epoca, la mente più qualificata per apprezzarlo. Come quasi tutti, si mise al riparo e adottò una misurata posizione critica. I grandi nomi dell’Illuminismo fecero lo stesso: in privato trovavano «illuminanti» le idee di Spinoza, in pubblico lo denigravano. Una doppiezza acutamente descritta da questi versi di Voltaire:22


Allora un piccolo ebreo, lungo il naso e pallido

                                                                  il volto,

povero eppur pago, pensieroso e solitario,

spirito acuto e profondo, più noto che letto,

nascosto sotto il manto di Cartesio suo maestro,

prudente il passo, ecco s’accosta all’Essere Supremo e

«Perdonami,» dice, volgendosi a lui in un sussurro,

«ma detto fra noi, credo che Tu non esista affatto».


 

OLTRE L’ILLUMINISMO

Dopo l’Illuminismo l’influenza di Spinoza divenne più aperta: ormai, citare Spinoza non era più un reato. C’era un mondo laico che andava sviluppandosi e aveva fatto di Spinoza il suo profeta: «di solito letto poco, letto male, o non letto affatto», come disse con gran precisione Gabriel Albiac.23 Alcuni però lo lessero, e vissero della sua luce. Filosofi come Friedrich Heinrich Jacobi, Friedrich von Hardenberg Novalis e Gotthold Lessing lo fecero conoscere a un pubblico diverso e a un secolo diverso.

Goethe adottò Spinoza e ne divenne il paladino, non lasciando alcun dubbio su quale fosse stata la sua influenza su di lui: «Questo spirito che agiva così decisamente sopra di me e doveva avere così grande influsso su tutto il mio modo di pensare, fu Spinoza. Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo per foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’etica di quest’uomo. Non saprei render conto di quel che ho preso dalla lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio, basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni e mi parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta del mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni proposizione. Quelle parole meravigliose: “Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami”».24

I poeti inglesi divennero sostenitori ugualmente fervidi di Spinoza. Samuel Taylor Coleridge lesse avidamente Spinoza, e altrettanto fece William Wordsworth: già ebbro della natura, s’inebriò pure dell’ebbrezza spinoziana per il divino nella natura. Altrettanto fecero Percy Bysshe Shelley, Lord Tennyson e George Eliot. Spinoza avrebbe potuto rientrare in seno alla filosofia anche prima, se Kant non si fosse rifiutato di leggerlo e David Hume fosse stato più paziente. Alla fine Georg Hegel proclamò: «Il pensiero non poteva non porsi dal punto di vista dello spinozismo: essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare».25

L’influenza di Spinoza nei campi della scienza contemporanea più naturalmente legati alle sue idee, ossia quello della biologia e delle scienze cognitive, pare quasi assente. Chiaramente non era così nel diciannovesimo secolo, quando Wilhelm Wundt e Herman von Helmholtz, due dei fondatori delle scienze della mente e del cervello, erano suoi avidi seguaci. Nell’elenco degli scienziati di tutto il mondo che nel 1876 si diedero convegno per l’inaugurazione del monumento a Spinoza che attualmente si trova all’Aia, ho trovato sia il nome di Wundt che quello di Helmholtz e di Claude Bernard.26 Fu forse Spinoza a ispirare a quest’ultimo l’interesse per il concetto di uno stato di equilibrio della vita?

Nel 1880, il fisiologo Johannes Müller osservò la «straordinaria somiglianza fra i risultati scientifici ottenuti da Spinoza due secoli fa, e quelli ottenuti ai giorni nostri da ricercatori che, come Wundt e [Ernst] Haeckel in Germania, [Hippolyte] Taine in Francia e [Alfred] Wallace e Darwin in Inghilterra, sono arrivati a formulare problemi psicologici attraverso la fisiologia».27 Il mio suggerimento, e cioè che Spinoza fosse un precursore del pensiero biologico moderno, appariva ovvio agli occhi di Müller e Frederick Pollock; questi disse, più o meno nello stesso periodo, che Spinoza «tende sempre più a diventare il filosofo degli uomini di scienza».28

L’ondata di riconoscimenti sembra tornare a prosciugarsi nel ventesimo secolo. Spinoza sembrerebbe aver avuto un ’influenza importante su Freud, per esempio. Il sistema freudiano richiede in effetti l’apparato proposto da Spinoza con il suo conatus, e fa largo uso dell’idea secondo cui l’individuo compirebbe inconsciamente azioni volte all’autoconservazione. Eppure, Freud evita accuratamente di citare Spinoza. In una lettera a Lothar Bickel del 1931, fornisce questa spiegazione: «Confesso senza esitazione la mia dipendenza dagli insegnamenti di Spinoza. Se non mi sono mai preoccupato di citare direttamente il suo nome, è perché non ho mai attinto i princìpi del mio pensiero dallo studio di quell’autore, ma piuttosto dall’atmosfera che egli seppe creare».29 Nel 1932 Freud chiuse la porta una volta per tutte a qualsiasi tipo di riconoscimento. In una lettera a Siegfried Hessing, scrive: «Per tutta la mia vita, ho nutrito una stima straordinaria per la persona e per il pensiero di quel grande filosofo. Ma non credo che questo atteggiamento mi dia il diritto di dire pubblicamente qualcosa su di lui - e questo per la buona ragione che non avrei niente da dire che non fosse già stato detto da altri».30 Per correttezza nei confronti di Freud, dovremmo ricordare che neppure Spinoza riconobbe l’influenza di Van den Enden o di da Costa. Forse, se fosse stato interrogato su quell’omissione, avrebbe dato una risposta simile a quella di Freud.

Trent’anni dopo, Jacques Lacan affrontò il tema dell’influenza spinoziana in modo leggermente diverso. Nella sua conferenza inaugurale all’Ecole Normale Supérieure, nel 1964, significativamente intitolata «La scomunica», raccontava come la International Psychoanalytical Association avesse tentato di impedirgli di formare specialisti e di espellerlo dai suoi ranghi. Egli paragonò questa decisione a una scomunica, e ricordò al suo pubblico che quella era stata esattamente la punizione comminata a Spinoza il 27 luglio 1656.31

Esiste un’importante eccezione a quest’ansia di disconoscere la paternità spinoziana. Albert Einstein, l’icona scientifica del ventesimo secolo, non esitò a dire che Spinoza lo aveva influenzato profondamente. Einstein si sentiva assolutamente a proprio agio con le idee di Spinoza sull’universo in generale e su Dio in particolare.32

 

 

L'AIA, 1677

Spinoza morì nel suo quarantacinquesimo anno. Soffriva da tempo di problemi respiratori; la sua tosse cronica è ben documentata, come pure il fatto che fumasse regolarmente la pipa, unica concessione visibile al mondo dei piaceri sensuali; inoltre, può darsi anche che egli prestasse fede a chi riteneva che il tabacco fosse in grado di conferire una certa protezione dalle malattie che allora infuriavano in Europa. Spinoza sopravvisse a diverse epidemie di peste che fecero molte vittime intorno a lui. Magari il fumo aiutava. Nei mesi che precedettero la morte, le sue condizioni peggiorarono; ciò nondimeno, non smise mai di lavorare e di ricevere visite. La fine arrivò inattesa il pomeriggio di domenica 21 febbraio; la mattina di quel suo ultimo giorno era sceso, come d’abitudine, a pranzare con i Van der Spijk. In quel pomeriggio, gli amici non erano in casa; ad assistere Spinoza al momento del trapasso vi era Lodewyk Meyer, il suo medico di Amsterdam.

La morte di Spinoza viene solitamente attribuita alla tubercolosi, ma non c’è alcuna prova in proposito. Con ogni probabilità, la sua malattia era molto meno banale. Può darsi, come ha ipotizzato Margaret Gullan-Whur, che il suo organismo fosse stato messo in ginocchio dalla silicosi, una tipica malattia professionale.33 Questa infermità, che nel diciassettesimo secolo non era stata ancora descritta, è causata dall’inalazione di particelle come quelle prodotte dalla molatura delle lenti, che è precisamente l’attività a cui Spinoza dedicò la maggior parte della sua vita adulta. Senza una mascherina a proteggergli il volto, Spinoza si sarebbe trovato alla fine con i polmoni intasati da polveri silicee, e non gli sarebbe stato più possibile respirare.

A quell’epoca, il senso di sicurezza con cui era venuto in quella città era persino aumentato, dando luogo a convinzioni incrollabili, ma la speranza di veder riconosciuta la propria opera - sempre che vi avesse davvero creduto - era del tutto svanita. Al suo posto era subentrata una serena accettazione.


 

LA BIBLIOTECA

Rientrato nella casa di Rijnsburg, do un’altra occhiata ai libri di Spinoza. C’è Machiavelli, Grotius e i due Tommasi - Moro e Hobbes: l’arte della politica si sposa con l’arte della giustizia. Vedo Calvino, copie della Bibbia, un libro sulla Qabbalah, e molti dizionari e grammatiche: gli strumenti fondamentali per una consultazione domestica. Ci sono libri di anatomia - quello del dottor Tulp (proprio lui, il chirurgo reso famoso da Rembrandt) e quelli del dottor Kerckrinck. Theodor Kerckrinck era un coetaneo di Spinoza, suo collega e rivale. Anche lui aveva frequentato la scuola di Van den Enden, e anche lui si era invaghito di sua figlia; però se ne andò via con lei, la portò all’altare. Era bello che Spinoza avesse tenuto i volumi di Kerckrinck. Posso immagnare che Spinoza avesse perdonato i due, e avesse completamente dimenticato la collana che Theodor aveva donato a Clara, quando lui - il nostro giovane principe a mani vuote - non poteva far altro che posare i suoi occhi malinconici sulla scintillante giovinetta.

La sezione dedicata alla letteratura contemporanea è frammentaria: fra gli spagnoli vi sono Cervantes e Gongora, ma manca Camões, il poeta nazionale portoghese. Possibile che Spinoza non avesse a portata di mano I Lusiadi? Forse quei volumi furono trafugati, o forse Spinoza non voleva nulla che gli ricordasse il Portogallo. O magari non gli piaceva la poesia moderna. Effettivamente, nei suoi scritti i riferimenti alla poesia, alla musica e alla pittura non sono molti; ciò nondimeno Spinoza riconosceva che la musica, il teatro, le arti e perfino gli sport possono facilitare il raggiungimento della felicità individuale. Nella biblioteca mancano Shakespeare e Marlowe, ma Spinoza non leggeva l’inglese, e poche delle loro opere erano state tradotte. In essa la filosofia impallidisce accanto alla matematica, alla fisica e all’astronomia, e solo Cartesio vi è adeguatamente rappresentato.

È un po’ rischioso giudicare le letture di un uomo dalle dimensioni e dal contenuto della sua biblioteca, ma in qualche modo quella di Spinoza pare autentica. Forse questi erano i libri di cui egli aveva bisogno nei suoi ultimi anni. La biblioteca è in armonia con gli altri suoi oggetti personali: fa sembrare eccessivo anche il minimalismo. Torno a sfogliare il registro dei visitatori; vi trovo la firma di Einstein e cerco di immaginare la scena della sua visita in questa stanza, il 2 novembre 1920.

 

 

SPINOZA NELLA MIA MENTE

Incontrare Spinoza nella mia immaginazione è stata una delle ragioni che mi hanno spinto a scrivere questo libro; ma l’incontro si fece sospirare. Di solito, ogni volta che pensavo a come poteva essere l’aspetto di Spinoza da vivo, avevo un vuoto mentale. Questo non deve sorprendere. Intanto, le descrizioni della sua vita sono discontinue come il suo indirizzo. E le biografie contemporanee non sono ricche di dettagli come le vorremmo. Senza contare che lo stile di Spinoza è ermetico. Nell’Etica e nel Tractatus vi sono passi che sanno essere di un’ironia micidiale. Questo è un indizio, di certo. E anche vero che Spinoza è sempre rispettoso degli esseri umani, anche di quelli di cui disprezza le idee. E questo, senza dubbio, è un altro indizio. Tuttavia, ciò non basta a suggerire l’aspetto di una persona nella sua interezza. L’uomo Spinoza, dietro le parole, è ben sigillato e impenetrabile, o per i limiti del suo latino, o per il desiderio di mondare i propri scritti dai sentimenti personali e dalla retorica. Stuart Hampshire propende per la seconda ipotesi, e io credo abbia ragione.34 A poco a poco, però, dal quieto fermentare di indizi e riflessioni, nella mia immaginazione cominciò a emergere il ritratto di un uomo in carne e ossa. Ora non ho più alcuna difficoltà a vedere Spinoza a diverse età, in diversi luoghi, in diverse situazioni.

Nella mia storia egli esordisce come il bambino impossibile, curioso, caparbio, una mente più matura della sua età. Da adolescente è uno spirito insopportabilmente vivace e arrogante. Sui vent’anni dà il peggio di sé: uomo d’affari e al tempo stesso aspirante filosofo, ha i modi di un aristocratico iberico, ma è anche impegnato a consolidare la sua identità olandese. Verso i venticinque anni, questo periodo di conflitto si è ormai concluso. A un tratto egli non è più un ebreo né un mercante; non ha più famiglia né casa; ma non è sconfitto. Domina piccole riunioni di amici con l’entusiasmo e l’intelletto acuto. E di qui che nasce la leggenda di Spinoza il saggio. Si trova anche qualche nuova occupazione, come la fabbricazione delle lenti, un’attività destinata a diventare la sua fonte di sostentamento e che lo spinge ad approfondire lo studio dell’ottica; e poi il disegno, un tranquillo passatempo nel quale pare che eccellesse, ma di cui non abbiamo alcuna documentazione.

 

 

A trent’anni ha luogo un’ulteriore trasformazione. Spinoza è più riflessivo nelle sue decisioni. Meno pungente, più gentile verso chi gli sta intorno; e più paziente con gli stupidi. Lo Spinoza della maturità è fermo nelle sue convinzioni ma meno dogmatico; in realtà, anche se dà l’impressione di una maggior tolleranza, si ritrae cercando un ambiente più tranquillo. Nella mia immaginazione, questo Spinoza comunica a chi gli sta intorno un senso di stabilità. Molti provano per lui reverenza e rispetto.

Mi piace lo Spinoza che infine ho incontrato? La risposta non è tanto semplice. Lo ammiro, questo è certo. A volte mi piace immensamente. Ma vorrei scrutare nella sua mente con la stessa chiarezza con cui vedo le forme del suo comportamento; c’è invece qualcosa, in lui, che non cede all’analisi e la sensazione di estraneità non si estingue mai del tutto. E comunque, vedo abbastanza chiaro per guardare con meraviglia al coraggio con cui formulò le sue idee nell’epoca in cui ebbe la ventura di vivere, adattando la propria esistenza alle inevitabili conseguenze. Secondo i suoi stessi criteri, Spinoza fu un vittorioso.35