22. In prima linea
 
 
 
 
C’è chi per scelta, per vocazione, per interesse, per fortuna o per sbaglio ha già iniziato a battere le piste e i percorsi lungo i quali finiranno per muoversi i futuri nomadi. Fra di loro si annoverano o si nascondono coraggiosi pionieri, anticipatori di una tendenza epocale, ma anche consapevoli e felici realizzatori dei propri sogni di fuga o di erranza planetaria. In queste pagine presentiamo alcuni personaggi-simbolo di un nuovo modo di essere, di concepirsi, di vivere e di lavorare.
Un’avvertenza: questi precursori del nomadismo globale sono indubbiamente rappresentanti di un fenomeno ancora elitario e circoscritto. Il tono dei loro racconti in alcuni casi potrebbe suonare falsamente snobistico, persino irritante. Si cerchi di valutare le persone per quello che sono e che hanno fatto, piuttosto che per come si raccontano.
 
 
Philippe Frey – Etnologo
 
«Sono sei anni che non passo un inverno in Francia». Philippe Frey, cittadino di Strasburgo, 38 anni, dottore in etnologia, ha lo stesso istinto migratorio delle rondini. Col freddo parte per le regioni più calde del pianeta. La prima volta che seguì il richiamo dei grandi spazi dove regna l’arsura fu a 16 anni, quando scappò di casa per girare il Kurdistan in autostop. Quella volta stette via quattro mesi. Oggi il suo ritmo è più regolare ma la sua vita non si è fatta meno avventurosa. Le sue migrazioni sono semestrali e ogni volta che parte lo fa per attraversare uno dei grandi deserti del mondo; utilizza esclusivamente i mezzi di locomozione che usavano le antiche tribù nomadi: cammelli e cavalli; in compenso sfrutta uno dei più sofisticati ritrovati dell’alta tecnologia, un navigatore satellitare (nel 1990 è stato il primo a usare un simile apparecchio a dorso di cammello invece che a bordo di una barca). Lui stesso, d’altronde, si considera un “nomade bianco” (espressione che dà il titolo anche al suo primo libro, resoconto della traversata del Sahara). Così, anno dopo anno, duna dopo duna, questo etnologo errante ha percorso i 2000 km di sabbia che congiungono l’Oceano Atlantico al Mar Rosso, ha attraversato il deserto del Kalahari, ha superato le dune del Gobi, ha cavalcato attraverso il Sonora Desert, ha calpestato le aride distese del Seistan (il deserto del Pakistan che nessun occidentale aveva mai attraversato prima) e quelle del Thâr (il deserto indiano dove vivono i Bandjara, le tribù d’origine degli zigani). Sempre da solo, lui e le sue cavalcature. Ogni erranza una lezione di vita: «Volevo capire come si può vivere, sopravvivere in regioni estreme».
Philippe Frey ha il fisico asciutto di chi percorre lunghe distese a piedi o a dorso d’animale, lo sguardo deciso di chi si è abituato a guardare orizzonti senza fine e a vincere la vertigine del vuoto in solitaria: «La prima volta è una sensazione sconvolgente; ti ritrovi in mezzo al deserto, da solo, nel silenzio più assoluto; l’aria è diversa; ascolti il tuo respiro, il respiro del vento. È come una vertigine. C’è chi non lo sopporta. Per andare avanti bisogna vincerla, mantenere la testa lucida, sentirsi a proprio agio nell’ambiente. Se non ami il deserto finisci per morire più velocemente. Niente misticismo però, solo una gran voglia di rimanere in vita».
Vive in funzione delle sue erranze. Non possiede praticamente nulla: non ha una casa, né una macchina, una moto o uno stereo. Non va mai al ristorante. Il suo rifugio, alle porte di Strasburgo, è la casa dove vive la madre; il suo tenore di vita è spartano, per scelta e per necessità. «Tra diritti d’autore, articoli, documentari televisivi e servizi fotografici guadagno 30.000 dollari l’anno e ogni viaggio mi costa, più o meno, la stessa cifra». Che cosa fa di Philippe Frey un nomade? «L’incapacità di rimanere troppo a lungo nello stesso posto. Se non parto mi “ammalo”. Ho bisogno di conoscere sempre qualcosa di nuovo». E la modernità in cosa consiste? «Nel senso dell’avventura. A differenza di quanto si può credere, i nomadi tribali non hanno curiosità per l’ignoto, quel nostro senso di irrequietezza. Da secoli percorrono sempre le stesse piste, seguono immutabili itinerari di migrazione. Escono dai tracciati invisibili degli antenati solo se costretti da cause esterne alla loro volontà».
Per migrare nei quattro angoli del pianeta il “nomade bianco”, che già conosceva l’inglese e il tedesco, ha finito per masticare anche l’arabo, il tuareg, l’hindi, il russo. In amore è stato fortunato: ha una compagna, una dolce meticcia del Madagascar, che vive a Strasburgo, fa la giornalista televisiva e ama il proprio lavoro. Si vedono non più di quattro mesi all’anno eppure (o forse è per questo?) stanno insieme da 10 anni. Rimpianti? «Quando viaggio non ho il tempo di pensare a quello che lascio. Sicuramente non rimpiango di non aver fatto una vita normale. Quando sono a Strasburgo, o a Parigi, vedo come vive la gente. Non potrei tornare indietro, sentire il tempo che passa senza aver vissuto, senza aver imparato niente. La gente in città vive per procura; per questo va a teatro o al cinema. C’è chi va nei ristoranti, nei locali alla moda per poter credere di aver riempito la vita. Ognuno con le sue piccole ricette per occupare il tempo libero».
Forse è anche per questo che Frey si sente così diverso, quasi un estraneo, ogni volta che rientra in Francia. «Con la gente normale non parlo mai di quello che faccio veramente nella vita. Non mi capirebbero. Dopo sette anni di viaggi, dopo aver trascorso così tanti mesi da solo coi miei cammelli, senza aver mai dormito due notti nello stesso posto.... Per forza poi ci si sente diversi. Un po’ di esotismo stuzzica tutti; ma quando si tratta di periodi così lunghi, allora iniziano le incomprensioni». Frey non ha il senso del religioso, «le religioni istituzionali mi disgustano», ma ha quello del sacro, «l’unica forma di spiritualità che concepisco è un’armonia tra uomo e natura. Ci sono delle tribù nomadi che hanno raggiunto una tale grado di simbiosi con l’ambiente che qualsiasi oggetto finisce per acquistare significato. I boscimani, per esempio, vivono da 35.000 anni sullo stesso territorio: come non essergli legati intrinsecamente? Sono, insieme ai pigmei e agli aborigeni australiani, la razza più antica della terra. Quando cacciano si avvicinano alla preda, parlano alla sua anima, le spiegano perché la devono uccidere. Dialogano con tutto, persino con le rocce; sono così rare nel deserto del Kalahari che quando ne incontrano una sul loro cammino la apostrofano più o meno con questo tono: “E tu cosa ci fai qui?”».
A cosa può servire un’esperienza di vita come quella di Philip Frey?
«Ci sono nel mondo popoli che vivono in maniera più armoniosa, che mi sembrano più felici; non sputo sulla mia società ma è giusto conoscere anche le altre. Forse questo ci potrebbe aiutare anche a trovare un miglior equilibrio, a mettere in discussione la nostra scala di priorità; il consumismo non può essere un valore. Mi piace pensare di essere un personaggio ibrido, a cavallo di più culture. Vedo il mio ruolo come quello di mediatore, di mezzo di comunicazione (tramite libri e documentari televisivi) fra culture diverse. Per questo quando scrivo cerco di farlo in modo semplice e chiaro: il mio obiettivo è di raggiungere più persone possibile». Sicuramente la lezione che impartiscono i deserti del mondo a chiunque tenti di carpirne l’anima è oggi più di attualità che mai: «Imparo ad evolvermi in questa imponderabilità, in questo immenso spazio dove nulla ferma lo sguardo, se non l’orizzonte stesso».
 
 
Gunter Pauli – Manager dello sviluppo sostenibile.
 
Gunter Pauli è uno dei massimi esperti di sviluppo sostenibile. Il suo curriculum, fatto di esperienze multiple e discordanti, è di per sé un inno al nuovo concetto di portofolio nomade. Nella sua giovane vita è già stato disc-jockey, barista, muratore, carpentiere, tipografo e tante altre cose, che gli hanno permesso di pagarsi gli studi per una laurea in economia e due master in business management. A quarantacinque anni ha ancora l’aspetto di un adolescente dinoccolato, da giocatore di basket, ma sotto il braccio al posto della palla ha sempre un computer. Non per nulla è un teorico-pratico del simposio permanente in versione on-line, a cui partecipano 4600 ricercatori da tutto il mondo. Nel 1994 questo quarantenne infaticabile è stato eletto dal World Economic Forum “Global Leader of Tomorrow” per le sue doti imprenditoriali; attualmente la sua base d’appoggio è Ginevra, da dove dirige (dopo averlo creato) lo Zeri, l’Istituto di ricerca per le emissioni zero.
Le sue idee sono, dal punto di vista imprenditoriale, uno schiaffo (assolutamente virtuale) all’ottusità di tutti quei manager, executive e consulenti di grido che vedono, come unica soluzione alla crisi delle grandi aziende, il re-engineering, un blando eufemismo per licenziamento selvaggio. «Se ci mettiamo a considerare l’economia con un pizzico di creatività», sostiene Pauli, «troviamo che c’è del valore aggiunto in ogni anello della catena del sistema. Gli industriali dei paesi ricchi che si compiacciono di aver ottimizzato la redditività degli impianti secondo me hanno sbagliato tutto: conviene invece che ottimizzino l’utilizzo delle materie prime. Come noi dello Zeri, creando più occupazione oltre che più reddito, e nel rispetto dell’ambiente». La prossima “rivoluzione verde” non verrà infatti da un incremento sostanziale della produzione agricola per ogni acro coltivato ma dall’utilizzo integrale dei prodotti, incluse le scorie. La metodologia studiata, e già applicata concretamente nei progetti pilota dello Zeri, mima fondamentalmente la natura, dove il concetto di “materiale di scarto” non esiste.
Grazie a questo approccio metodologico si possono installare impianti definiti a “emissione zero”, che prevedono il riciclo completo delle scorie agro-industriali e dei rifiuti liquidi secondo i principi dello sviluppo sostenibile e contemporaneamente aiutano a creare manodopera nei paesi in via di sviluppo. La nuova economia che si sta delineando per il terzo millennio prevede dunque una più stretta collaborazione multidisciplinare tra il mondo scientifico (biochimica in testa) l’industria e l’ingegneria. Per questo Pauli ha messo in campo una rete di ricercatori a livello mondiale che coinvolge tanto la Chinese Academy quanto il Brazilian National Science Council e gli Oak Ridge National Laboratories negli Usa. Lo Zeri ha già avviato progetti-pilota in Africa, Asia, America Latina e Oceano Pacifico. In Namibia, per esempio, ha creato la prima fabbrica di birra a emissioni zero. In questo caso, l’esperimento nasce dalla constatazione che per fare la birra si utilizza solo l’8% degli ingredienti dell’orzo; il restante 92% viene scartato. Grazie a un team di ricercatori si è scoperto che quel 92% di scorie industriali può trasformarsi in fertile terreno per la coltivazione di funghi porcini. Ma non solo: quell’orzo contiene ancora il 26% di proteine; le si possono sfruttare allevando lombrichi nell’orzo di scarto. Questi lombrichi ricchi di proteine, a loro volta, possono divenire l’alimento principe di polli e tacchini. Il cerchio della produzione si chiude con lo sfruttamento dei rifiuti organici dei polli che, fatti passare attraverso un digestore, producono metano. Quel metano è in grado di generare tutto il calore necessario alla produzione di birra. Se si vuole, il processo di costante riutilizzo può spingersi oltre. Come? Sfruttando gli scarichi d’acqua della birreria, che essendo ad alto contenuto alcalino consentono la coltivazione della spirulina, un’alga da cui si estraggono vitamine A, betacarotene, elementi essenziali per lo sviluppo dell’essere umano.
Nato in Belgio ma itinerante da ormai 20 anni, Pauli parla correntemente sei lingue, ha vissuto in più continenti e si considera cittadino del mondo. Nel tempo libero (ma dove lo trova?) scrive libri, ormai tradotti in oltre 12 lingue e si occupa della famiglia (è sposato con due figli).
 
 
Dudely Weeks – Risolutore di conflitti
 
Quando riveste il suo ruolo pubblico preferisce non rivelare l’età (ha 48 anni) perché l’età, come la razza o la religione, è uno di quegli elementi discriminanti che impediscono o rallentano l’esigenza di integrazione nella società globale contemporanea: «Più rigidamente ci si definisce, più è probabile che finiremo per innescare situazioni conflittuali con quei popoli o quei gruppi che si riconoscono in una differente identità». Ecco perché Dudley Weeks, uno dei massimi esperti internazionali nella risoluzione di conflitti, tende a dire di sé il minimo indispensabile. La formula apparentemente è semplice: meno definizioni, meno possibilità di attrito. Una consapevole tendenza all’anonimato dietro cui si cela uno schema esistenziale che Weeks ha trasformato in una sorta di test. Immaginate di avere di fronte a voi una serie di cerchi concentrici; partendo dal più interno ognuno di questi definisce un rapporto via via più allargato dell’individuo nei confronti della realtà esterna: l’io, la famiglia, i ruoli (professionali, sociali, economici, di classe, di gruppo, di organizzazione), la comunità, gli “ismi” (patriottismo, religione, ideologie), l’etnia, la cultura, la razza, il genere, la specie, gli organismi del mondo animale e vegetale, l’ecosistema terrestre, l’universo. Di fronte a un tale quadro viene posta la seguente domanda: qual è il gruppo di riferimento, la dimensione che corrisponde in modo più accurato al vostro senso di identità, nella quale vi sentite più a vostro agio, dalla quale percepite gli altri, dirigete la vostra vita e prendete le vostre decisioni? Ognuno risponderà secondo i propri canoni di riferimento. Quello che però sostiene Dudley è che non bisogna dimenticare che ognuno di noi, così come la parte avversa, è un patchwork di tutte queste definizioni. Un ebreo o un musulmano non sono soltanto un ebreo e un musulmano; sono anche, e contemporaneamente, un marito, un padre di famiglia, un muratore piuttosto che un medico, un bricoleur piuttosto che un appassionato di pittura. Avere una visione il più allargata (più umanizzata) possibile del “nemico” è il primo passo verso un processo di distensione. Sicuramente Dudley Weeks non ha scoperto nulla di nuovo ma ne ha fatto, fin da giovanissimo, il principio cardine della sua missione nel mondo.
Tutto in effetti cominciò quando questo americano, cresciuto in una povera famiglia del Texas, a 18 anni interruppe per un anno gli studi e partì alla scoperta dell’altrove. Attraversò l’America, quindi l’Africa, e finì in Giappone, svolgendo i mestieri più umili per mantenersi. «Fu allora che per la prima volta mi si aprirono le finestre della mente, in quell’anno capii quanto diverse potessero essere le persone per cultura, ideologia, educazione e quanto fosse necessario, per trovare un minimo accordo fra tutti, costruire un dialogo che prescindesse dalle singole religioni, ideologie, culture. In tutte le situazioni in cui mi trovai in quel periodo, nelle piantagioni di caffè in Africa come nelle fabbriche in Giappone, cercai di coltivare la mia passione per la mediazione, per la comprensione dei problemi degli altri. E vedevo che in qualunque paese fossi, le mie regole funzionavano. Da quel momento cominciai a capire quale sarebbe stata la mia strada». E da allora Dudley Weeks ne ha fatta di strada, tutta nella stessa ispirata direzione, come folgorato dalle parole di un maestro di aikido: «L’aikido è l’arte della riconciliazione. Chiunque abbia in mente di combattere ha spezzato i propri legami con l’universo. Se cerchi di dominare gli altri sei già sconfitto. Noi studiamo come risolvere il conflitto, non come accenderlo». Un credo, una filosofia di vita che Dudley Weeks mette in pratica da 25 anni. Oggi, questo texano illuminato ha già alle spalle due candidature al premio Nobel per la pace, oltre a un Phd in scienze politiche e una cattedra all’American University di Washington. Negli ultimi 20 anni ha organizzato o diretto 600 seminari sulla risoluzione di conflitti e si è impegnato per il cambiamento sociale non violento, i diritti umani e lo sviluppo in varie parti del mondo. Nel ’90 il Dalai Lama lo ha voluto per addestrare un team di diplomatici in previsione dei negoziati tra Cina e Tibet; nel ’94 è stato chiamato sul fronte bosniaco; da ormai dieci anni collabora a risolvere le tensioni etnico/razziali in Sudafrica. E al Sudafrica sono legati i suoi ricordi migliori: «Alcune delle organizzazioni per cui lavoravo non erano nemmeno in grado di pagarmi, altre si limitavano a rimborsarmi il biglietto aereo. Ma non importava, perché in quelle missioni ottenni le mie soddisfazioni più grandi». Al momento è impegnato a insegnare i principi del peace-keeping a tutti gli ambasciatori e ministri degli esteri dei paesi dell’Europa sudorientale.
Dudley Weeks ha elaborato un metodo per la risoluzione dei conflitti radicalmente diverso dalle tradizionali tecniche di mediazione e negoziato, grazie al quale si sta ora diffondendo nel mondo una nuova cultura di gestione non violenta dei conflitti. È un metodo conosciuto come Conflict partnership (cooperazione nel conflitto) e parte dal presupposto che il conflitto è una componente naturale e inalienabile di ogni relazione umana; se questo però viene affrontato in maniera costruttiva ed efficace permette a chiunque lo vive di maturare e di crescere, alle strutture economico-politiche di trasformarsi e migliorare. Diventa pertanto estremamente importante, anche in caso di scontri e divergenze aspre, alimentare nei contendenti la percezione che è possibile/necessario individuare soluzioni che siano soddisfacenti per tutte le parti in causa e che non presuppongono la vittoria di una parte sull’altra, dato che questo è l’unico modo per comporre stabilmente una controversia. L’obiettivo ultimo, infatti, è quello di far interiorizzare alle parti che è più conveniente mantenere l’accordo piuttosto che romperlo. Per arrivare a questo Weeks ritiene che si debbano portare le parti a riconoscere i punti di contatto e a focalizzarsi sulle caratteristiche e sui bisogni comuni, tralasciando quanto più possibile i punti di attrito e le discriminanti. In questo senso il test dei cerchi concentrici si rivela un espediente particolarmente efficace.
Ciò che inoltre distingue la tecnica del conflict partnership da tutte le altre è il ruolo svolto dal risolutore, il quale assume la semplice (ma non meno complessa) funzione del “facilitatore”, di colui cioè che deve agevolare la comunicazione fra le parti in causa, creare un’atmosfera di collaborazione, individuare gli shared needs (i bisogni condivisi) o i punti di contatto (i connectors), il terreno comune su cui dialogare. Non spetta al peace keeper risolvere il conflitto, sono le due parti che debbono, con il suo aiuto, arrivare a risolverlo.
Tra una missione e l’altra Dudley si rifugia nella sua casa in mezzo alla foresta nel West Virginia. Lì, l’uomo che per definizione non conosce la parola vacanzÈ catapultato a redimere una querelle tra le gang di Los Angeles o a mediare l’ultimo accordo di pace tra l’Ira e il governo inglese, tira per un attimo il fiato, dipinge, scrive canzoni, compone poesie.
 
 
Muhammad Yunus – Economista
 
«Mentre la gente moriva di fame per la strada, io insegnavo eleganti teorie economiche». L’anno è il 1974, il Paese il Bangladesh, l’orrore quello di una carestia che, secondo le stime, uccise un milione e mezzo di persone. Muhammad Yunus, a quel tempo, era un giovane accademico chiamato a dirigere il Dipartimento di economia all’Università di Chittagong dopo aver conseguito un dottorato alla Vanderbilt University di Nashville, Tennessee. «Noi professori universitari eravamo tutti molto intelligenti, ma non sapevamo nulla della povertà che ci circondava. Perché della gente che lavorava 12 ore al giorno per sette giorni alla settimana non aveva abbastanza da mangiare? Decisi che proprio i poveri sarebbero stati i miei insegnanti».
Studiando la situazione di molte famiglie bengalesi Yunus arrivò alla conclusione che la povertà, nella maggior parte dei casi, non era dovuta a pigrizia o scarsa intelligenza ma piuttosto a un problema strutturale: la mancanza di capitale. «Il sistema esistente assicurava che i poveri non potessero risparmiare un centesimo e non potessero investire per migliorarsi. Alcuni usurai facevano pagare interessi del dieci per cento al mese, altri del dieci per cento alla settimana. Per quanto lavorasse duro, quella gente non si sarebbe mai sollevata al di sopra del livello di sussistenza». Inizialmente, Yunus provò a coinvolgere i banchieri locali, cercando di creare una forma istituzionalizzata di credito agevolato per le famiglie diseredate. Ma gli risero dietro, sostenendo quello che si era sempre sostenuto: i poveri non offrono alcuna garanzia. Allora decise di andare avanti da solo. In un primo tempo fu lui stesso a farsi fare credito dalle banche a titolo personale e a prestare soldi ai poveri. Il primo esperimento interessò il villaggio di Jorba, dove venne creata la prima rete di “microcrediti” (anche di sole 50.000 lire) che cambiò la vita di oltre 500 persone. Poi, nel ’79, la Banca centrale del Bangladesh decise di appoggiare questo testardo economista nella sua intenzione di estendere la politica dei microcrediti anche ad altre realtà rurali. Il vero salto di qualità avvenne nell’83, quando la Grameen Bank, la banca rurale rurale che nel frattempo Yunus aveva creato per sostenere il suo progetto, potè costituirsi come soggetto giuridico autonomo. In meno di vent’anni la Greemen Bank è divenuta la prima banca agricola del Bangladesh; è ormai presente in 35.000 villaggi, conta mille filiali e due milioni di clienti, i quali detengono il 92% delle azioni. Chi non è indigente è escluso dal prestito. I prestiti vengono concessi a un tasso annuale del 20% circa e devono venire ripagati con piccole rate settimanali (dal momento che il conteggio degli interessi viene calcolato settimanalmente sul diminishing principle, il “principio calante”, alla fine dell’anno il tasso d’interesse effettivo si aggira sul 10-12. Il 94% dei clienti sono donne: «Prestare alle donne, che tradizionalmente hanno le minori opportunità economiche nella società bengalese, porta molti più benefici alle famiglie; inoltre, le donne sono molto più attente ai propri debiti».
L’impostazione basata sui microcrediti di Yunus è semplice ma al contempo rivoluzionaria. Invece di avere a disposizione miliardi per progetti faraonici concessi dalle organizzazioni di cooperazione internazionale, Yunus offre piccole eppure fondamentali opportunità di riscatto al singolo individuo, responsabilizzandolo. Così, per esempio, una donna bengalese, vedova o divorziata, a cui è sempre stato detto che non serve a nulla e che è solo un peso per la famiglia, può grazie ai prestiti agevolati evitare di finire a chiedere l’elemosina per la strada; può acquistare del cotone da filare, una mucca da mungere, semenze per l’orto, materie prime per creare monili.
Ma l’elemento più innovativo nell’architettura creditizia della Grameen Bank è la sua inedita forma di autorganizzazione. In pratica, i creditori debbono formare gruppi di cinque unità (i legami di parentela non sono ammessi all’interno dello stesso gruppo), imparare le regole della banca e supportarsi a vicenda. Yunus insiste sulla formazione dei gruppi perché persone con poca dimestichezza col denaro sono portate a scoraggiarsi facilmente di fronte a certe problematiche finanziarie. L’altro elemento da non sottovalutare è il ruolo di “controllore sociale” svolto dal gruppo, a cui è demandata la responsabilità finale sulla restituzione dei prestiti: nel caso di inadempienza del singolo, infatti, anche gli altri membri del gruppo non potranno più beneficiare di crediti per il futuro. Per questo, fra l’altro, sono i membri di un gruppo a decidere, in ultima istanza, chi accettare come potenziale creditore. Prima di essere riconosciuti come tali, inoltre, i clienti della Grameen devono seguire un periodo di training con un funzionario della banca e sottoscrivere le “Sedici decisioni”, una sorta di “Costituzione per lo sviluppo sociale” redatta dallo stesso Yunus che include assunzioni di responsabilità in tema di sanità, educazione, controllo delle nascite e rispetto per l’ambiente.
Sicuramente Yunus incarna una figura più “umana” e assolutamente alternativa di banchiere, che si allontana dallo stereotipo classico di un personaggio freddo, cinico e privo di scrupoli. «Il credito è un diritto», sostiene, «Il mito che il credito è privilegio di pochi fortunati deve essere smantellato». Il suo sogno rimane quello di debellare la povertà dal mondo. Per questo ha fondato il Grameen Trust, un’associazione che ha lo scopo di promuovere la formula del microcredito su scala mondiale. «Nel 2003 dovremmo essere in grado di coinvolgere in questo progetto sette milioni di famiglie povere, il che significa qualcosa come 35 milioni di persone». Un’inezia, si dirà, di fronte al miliardo e mezzo di diseredati che ad oggi tentano di sopravvivere su questa terra. Ma è pur sempre un inizio. E i fatti parlano da sé: oggi il modello della Grameen Bank è già stato esportato in oltre 5O Paesi e l’economista Muhammad Yunus è divenuto una figura di spicco a livello internazionale. Nel settembre ’95 è stato eletto “personaggio della settimana” dal New York Times, che l’ha definito “un banchiere intelligente e compassionevole”; nel ’96, durante il summit sul “Global Microcredit” tenutosi a Washington, Yunus ha propmosso una campagna di sensibilizzazione (tuttora in corso) per assicurare l’accesso al microcredito ad almeno 100 milioni di famiglie povere (il che significa coinvolgere almeno 400 milioni di persone) nel mondo. «La gente dice che sono pazzo, ma non si può conquistare nulla senza un sogno. Se si vogliono ottenere dei progressi nella lotta alla povertà non si può pensare tradizionalmente. Bisogna essere rivoluzionari e pensare l’impensabile».
 
 
Steve Roberts – Cybernomad
 
Viaggi di corpo e viaggi di testa: lo spazio dell’avventura si dilata e regala emozioni senza confini. Si può essere on the road sulle strade sterrate del Pakistan come entro la selvaggia savana simulata da un software. Nel terzo millennio c’è ancora spazio per i globetrotter solo che, adesso, preferiscono autodefinirsi cybernomad, mutanti in viaggio nella Rete delle reti così come su un’auotostrada degli States o lungo le coste del Cile. Steve Roberts è il loro antesignano. È cittadino americano ma non ha fissa dimora, non ha un indirizzo postale ma ne ha uno su Internet. Ha venduto la sua casa, tutti i suoi beni e per undici anni, fino al ’94, ha vissuto on the road, pedalando sulle strade d’America. Behemoth, la sua cyberbici, è un gioiello di alta tecnologia, un vero e proprio laboratorio su ruote. Pesa 250 chili, ha oltre 100 cambi ed è equipaggiata con 4 computer, telefono cellulare, modem satellitare, fax, stampante laser; nel casco è stata installata tutta la strumentazione fonica, che permette di rispondere al telefono senza togliere le mani dal volante e di ascoltare i messaggi vocali che provengono dal computer, inclusi quelli registrati dalla segreteria telefonica. Al casco è applicato un monitor che consente la visione dello schermo del Pc. Dal momento che non poteva adoperare una tastiera – sarebbe stato impossibile guidare e contemporaneamente digitare – Steve ha progettato un paio di manopole con otto tasti su ognuna, che servono per scrivere sul computer con un metodo del tutto inedito; i collegamenti con Internet sono garantiti da un trasmettitore satellitare, poco più grande di una padella; tutta la strumentazione è, naturalmente, alimentata da pannelli a energia solare, che viaggiano al seguito su un piccolo rimorchio. Macchietta? No personaggio dal potenziale devastante: in undici anni, Steve ha percorso 17.000 miglia su una cyber-bici, dimostrando al mondo e prima di tutto a se stesso di potersi mantenere dignitosamente pur vivendo al di fuori dei parametri lavorativi tradizionali.
Ma qual è la molla che l’ha spinto sulle vie del nomadismo high-tech? «All’inizio c’era il richiamo della strada, la voglia di avventura, di tornare a vivere la vita con passione». Nell’83 Steve fece un resoconto della sua situazione stilando un elenco di quelli che un tempo erano stati i suoi interessi: la scrittura, la bicicletta, lo studio, il romance, il computer design, l’editoria, i collegamenti da radioamatore e via Internet. E si rese conto che tutto quello che in un momento o nell’altro della sua vita lo aveva tenuto sveglio per intere nottate in una deliziosa eccitazione se ne era andato. «La mia vita si era trasformata nell’esecuzione di compiti sempre meno interessanti e coinvolgenti al solo scopo di pagare i conti a fine mese, sostenere uno stile di vita che non mi piaceva, in una casa nei sobborghi che non mi piaceva, in una città che non mi piaceva». Il peggio era che tutto quello a cui aveva sempre aspirato – il cambiamento, la crescita, l’evoluzione personale – non rientrava più negli obiettivi fondamentali della sua vita quotidiana; al contrario, aveva cominciato a risuonare come uno di quegli slogan vaghi e un po’ stantii della controcultura. All’epoca in cui Steve prese la sua decisione, l’idea di poter sbarazzarsi di una fissa dimora senza diventare un misero vagabondo era un concetto alieno ai più. Ma proprio allora, in quei primi anni Ottanta, stavano iniziando a prendere piede le nuove tecnologie, grazie alle quali questo nomade globale ante litteram avrebbe potuto mantenersi in quotidiano contatto con un’ampia comunità virtuale di amici e conoscenze via Internet, spedendo reportage alle redazioni dei giornali e facendo consulenze in alta tecnologia applicata direttamente sul campo. Fu così che, combinando le passioni della sua vita e abbandonando quell’atteggiamento iperrazionale che blocca sul nascere le scelte più azzardate dell’uomo moderno, Steve lasciò il certo per l’incerto, la vecchia strada per la nuova. Nella sua scelta di fluida mobilità combinava il desiderio di libertà con il sostegno di più nobili cause: l’utilizzo di energia pulita (in questo caso la forza delle sue gambe e l’energia solare); lo sfruttamento sapiente delle nuove tecnologie, dal Pc portatile ai network globali; la partecipazione a comunità (reali o virtuali) di gente mentalmente pronta al cambiamento e al superamento dei tradizionali schemi socio-economici. Grazie alla Rete, questo antesignano del cybernomadismo dispone ora di un database di centinaia di utenti – concettualmente vicini alle sue posizioni – disposti ad aiutarlo in qualsiasi parte degli States egli si trovi.
Nel ’98 Steva ha varato un progetto ben più ambizioso: Microship, il successore acquatico della cyber-bici ma soprattutto il nuovo, potente emissario di un modello di vita tecnomadica. È il passaggio di un’esistenza mobile dalla terra all’acqua, da una due ruote a un trimarano equipaggiato con le più sofisticate apparecchiature di navigazione, comunicazione, elaborazione dati e ricerca scientifica. Oltre 100 sponsor, dalla Apple a Microsoft, sono coinvolti nell’operazione. Per portare avanti il progetto nel ’95 Steve trasferì la sede del suo piccolo laboratorio di ricerca, il Nomadic Research Lab, da San Diego alla Silicon Valley, dove un team di ingegneri, architetti navali e scienziati della Scripps Institution of Oceanography lo supportò nella messa a punto di Microship. Come Behemoth, la cyber-barca prevede lo sfruttamento di energia solare per i brevi spostamenti e le manovre che richiedono l’uso del motore (la maggior parte della navigazione altrimenti è a vela). A bordo si trovano anche un orto idroponico, che consente di avere verdura fresca durante tutto il periodo della navigazione, sensori studiati per rilevamenti e collezionamento di dati ambientali che possono venir trasmessi via Internet, e Faun Skyles, la compagna di Steve.
Con il varo di Microship le motivazioni per cui l’antesignano del cybernomadismo è ancora assolutamente sicuro di procedere sulla via dell’erranza fisico-virtuale si sono fatte più complesse. L’istinto iniziale di fuggire da “suburbia” (i placidi sobborghi metropolitani fatti di villette monofamiliari e prati ben curati) ha lasciato il posto a un più profondo e consapevole impegno nei confronti dell’umanità che lui sintetizza in alcuni principi fondamentali. Il primo dei quali suona più o meno così: «Contribuire a delineare il prototipo di un nuovo stile di vita. La civiltà futura farà virtualmente a meno della carta, sarà energeticamente autosufficiente, dipenderà da una Rete globale a larga banda (il che significa trasmissioni velocissime di dati, immagini e informazioni) e avrà una prospettiva globale dei fenomeni socio-economici. Non è troppo presto iniziare a prepararsi all’avvento di una nuova era: abbiamo bisogno delle idee, degli strumenti e della consapevolezza necessari ad affrontare i cambiamenti fondamentali che ci attendono».
Il secondo punto mette in luce l’importanza del business della consulenza in versione nomade: le imprese hanno sempre più bisogno di esperti specializzati capaci di gestire le nuove tecnologie. Il problema è che generalmente gli specialisti perdono di vista il quadro generale. Sta nascendo così un mercato parallelo di professionisti che viaggiano costantemente attraverso i vari mondi delle tecnologie, della cultura e delle scienze applicate con lo scopo di fertilizzare il terreno dei saperi multipli. «Nessuna rivista di settore, così come nessuna conferenza può essere più stimolante di una schiera di “rinnegati”, di tecnoidi curiosi e generalisti, lasciati correre a briglia sciolta attraverso le praterie dell’industria. Le aziende che riconoscono di doversi necessariamente focalizzare su alcuni obiettivi specifici mantenendo però i contatti con contesti più allargati (grazie ai nuovi nomadi) ottengono un profilo più competitivo. «È proprio il mio stile di vita mobile, permeato da un efficiente supporto tecnologico, a offrirmi un ampio spettro di opzioni lavorative e a rendermi marketable, cioè economicamente appetibile».