15. Madre natura
Per recuperare lo
spirito puro e integrale del nomadismo bisogna risalire molto
indietro nel tempo, fino agli uomini cacciatori/raccoglitori del
Paleolitico. È lì che si manifestò per la prima volta lo spirito di
un pacifico ideale comunitario; uno spirito fortunosamente giunto
fino a noi attraverso le secolari erranze dei boscimani del
Kalahari e degli indiani delle praterie. Dopo la sbornia di
razionalismo individualista, l’umanità – nomadi globali in testa –
analizza il suo malessere e scopre la nostalgia. La nostalgia per
quel suo perduto, primitivo spirito comunitario, per quel “noi”
collettivo a lungo compresso sotto il tallone dell"Io”. Alla
rigenerante fusione mistica con la natura corrisponde allora, sul
piano sociale, una ricerca di fusione con l’altro e con gli altri.
In questo risveglio dell’ideale comunitario le nuove tecnologie si
presentano come ancelle fedeli, capaci di intrecciare le fila, di
intessere la trama di un villaggio globale ad alta definizione:
emozioni antichissime emergono, rivisitate in chiave
ipertecnologica, ad animare il futuro.
La biologa Lynn
Margulis ha verificato che abbiamo lo spirito di cooperazione già
inscritto nelle nostre cellule. Le moderne ricerche dimostrano che
gli organismi sopravvivono attraverso processi di simbiosi e
dialleanza. Le specie complesse si sono evolute non distruggendosi
a vicenda ma mettendo insieme i rispettivi caratteri. Il ritorno a
forme sociali primordiali dunque non è un atteggiamento retrogrado
e oscurantista, ma un istintivo “ritorno a casa”, a madre natura.
In questo abbraccio cosmico di figliol prodigo il moderno nomade
trova l’energia collettiva, l’impulso per dinamicizzare l’esistente
sotto il segno di una ritrovata solidarietà, in cui ciascuno si
sente legato agli altri da una comune speranza o quantomeno da un
comune destino. Da questa empatia col tutto nasce una nuova
filosofia del vivere. E senza scadere, è importante ribadirlo,
nelle più sfruttate formule di salvezza e di “comunione” New
Age.
La nuova scala di
valori che nel frattempo si viene delineando è un omaggio alla
sensibilità femminile. Qualità delle relazioni, protezione della
vita, intuitività, armonia con la natura, attenzione al corpo,
rispetto dei ritmi biologici, affettività: sono questi gli elementi
su cui si stanno iniziando a costruire le basi per un nuovo ethos.
Quasi una citazione simbolica del tempo delle dee e del
matriarcato, nel momento in cui espressioni maschili quali
l’autorità, il senso di conquista, l’affermazione sono in netto
declino. Se ci sono valori, poi, che si vorrebbe ardentemente
recuperare dalla cultura nomade del passato, questi sono il culto
dell’ospitalità e l’onore della “parola data”.
È importante
sottolineare che quando si parla di cura del corpo si parla di
recupero della dimensione corporea. Niente a che vedere con le
maniacali pratiche che, sul finire del millennio, esaltano il
concetto di fitness: questo benessere del
corpo idealizzato e omogeneizzato in formule standard. No, qui
abbiamo il corpo come mezzo per accedere a una perduta
primordialità sensoriale, per entrare in un flusso che rompa le
barriere tra interno ed esterno, tra realtà percepita e realtà
immaginata. Forse siamo allo Zen. Quello che è certo è che il
ritorno alle origini, a madre natura, oggi non può essere che un
atteggiamento puramente simbolico, che però aiuta a comprendere e
interiorizzare un passaggio significativo. Se un tempo, in una
mitizzata età dell’oro, il corpo svolse la funzione di mediatore
tra uomo e natura, oggi quello stesso corpo funge da permeabile
strumento di contatto tra uomo e macchine evolute, in un indistinto
mélange di reale e immaginario, di naturale e artificiale. Siamo al
“corpo comunitario e cosmico” esaltato da Umberto Galimberti, al
“corpo multiplo e collettivo” propugnato da Luther Blisset, al
“corpo disseminato nelle reti” di Antonio Caronia.
La riscoperta della
fisicità come valore avviene, paradossalmente, proprio nel momento
in cui le nuove tecnologie riproduttive – in particolar modo la
riproduzione artificiale – spezzano il legame più profondo tra la
donna e il suo corpo. Crolla così anche l’ultima prigione culturale
(peraltro già incrinata dalle operazioni chirurgiche sui transgender): l’identità sessuale. Forse è arrivato
il tempo di celebrare la nascita del cyborg, amichevole essere ibrido, misto di corpo e
di macchina; figura comunicativa e interattiva per eccellenza,
capace di fondere in sé gli opposti, umano/meccanico,
natura/cultura, maschile/femminile.