4. Pedigree di un mutante
 
 
 
 
Se questo è l’attuale quadro di riferimento, è ora più facile inserire il nomade globale in cima a una ben definita scala evolutiva. Egli rappresenta il prodotto finale di un processo di sradicamento e superamento degli “schemi statici”2 in azione nelle diverse fasi storiche della civiltà umana. Un processo che, partendo dall’antica Grecia per arrivare ai giorni nostri, è passato attraverso una serie di figure-simbolo, ognuna delle quali incarnava già in sé alcuni dei tratti psico-emozionali che si ritrovano ora riuniti nell’odierno nomade:
 
I primi esploratori via mare e via terra (dagli antichi Fenici a Magellano): desiderio di scoprire l’ignoto, di superare i limiti imposti dalle certezze della cultura di riferimento.
I pionieri del Nuovo Mondo: ricerca di una vita migliore, più libera e autonoma.
I viaggiatori-esploratori d’epoca vittoriana: curiosità verso l’“altro da sé“, ansia di libertà.
I globetrotter on the road degli anni ’60-’70: apertura verso nuove esperienze, nuovi livelli di consapevolezza; ricerca spirituale; rifiuto delle omologazioni sociali.
Gli espatriati (diplomatici, militari di professione, missionari, rappresentanti di multinazionali): disponibilità allo sradicamento, a confrontarsi con altre culture.
I nomadi globali.
 
Quando si parla di “superamento degli schemi statici” si parla dell’azione di rottura o comunque di disturbo che, più o meno consapevolmente, questi personaggi attuarono nei confronti dello status quo, dei parametri di riferimento della loro cultura d’origine. Così se i primi esploratori spinsero il mondo allora conosciuto ben oltre le insuperabili colonne d’Ercole, gli espatriati finirono per intaccare, con la scoperta, l’apprezzamento e la divulgazione di culture “altre”, le forme più ottuse di ardore e di orgoglio patriottico dei loro connazionali. Eppure, per quanto accettino o arrivino ad apprezzare la cultura locale, gli espatriati hanno comunque ben salda come punto di riferimento inalienabile la propria cultura d’origine. In molti casi, per mantenere vivo il ricordo e il sapore della tradizione, finiscono per autoghettizzarsi in quartieri concepiti come riedizioni in miniatura della Madrepatria. Quelli di origine inglese, per esempio, tendono a ricreare, a Bombay come a Nairobi, il campo di cricket, il circolo di bridge, il country club, il golf club e l’immancabile sala da tè. Ecco perché i nuovi nomadi si presentano come qualcosa di ancora diverso rispetto alle figure che li hanno immediatamente preceduti in un’ipotetica scala evolutiva. Per scelta o per vocazione, sono dei cosmopoliti convinti: la loro cultura di riferimento è sostanzialmente un cocktail complesso e variegato di tutte le culture con cui sono entrati in contatto o che hanno assimilato. Se decidono di partire lo fanno sapendo che, ovunque si stabiliscano, un modem e un computer consentono di rimanere saldamente ancorati al network neuronale del villaggio globale. I motivi che spingono alla mobilità sono tanti e soggettivi. Si parte – e si resta – per curiosità, per il desiderio di assimilare usi e costumi locali, assaporare cibi diversi, apprendere una lingua straniera, stringere nuove relazioni, amicizie, contatti. In alcuni casi si sa che, per svolgere il proprio lavoro con successo, bisogna permearsi di cultura locale; in altri, si è spinti più semplicemente dal desiderio di arricchire il proprio bagaglio di esperienza personale. Ed è così che, pur essendo il nomadismo globale uno stato d’erranza mentale più che fisica, nella pratica si ritrovano sovente entrambe le situazioni. Due facce mutevoli di una stessa medaglia, unite dalla fluida ubiquità di un bit.
Piccolo inciso: la tribù dei nomadi globali nulla ha a che fare con quella degli uomini d’affari e degli executive da business class degli anni ’80/’90, fisicamente provati dalle continue trasferte di lavoro e dall’accavallarsi delle sindromi da jet-lag. Qui l’accento non è sulla frequenza dei trasferimenti, sul numero di punti-volo accumulati in un anno vissuto intensamente. Esiste un abisso psicologico e motivazionale tra la categoria del manager in trasferta e quella del nomade “in missione”. Il primo finalizza i suoi spostamenti in base a un obiettivo specifico e all’ottenimento di un risultato pressoché immediato: seguire una trattativa, concludere un affare, controllare i risultati di una filiale. Non c’è coinvolgimento emotivo: luoghi, persone, culture “altre” vengono appena sfiorati nel flusso nevrotico degli arrivi e delle partenze. I luoghi di riferimento sono i duty-free degli aeroporti, le hall degli alberghi a quattro/cinque stelle, le sale riunioni delle grandi corporation: veri e propri templi dell’omologazione economico-culturale, dove il rito di primo mattino è una simbolica continental breakfast. Non c’è voglia di fermarsi, semmai quella di concludere il job il più in fretta possibile per prendere il primo aereo e tornarsene a casa. Il nomade, al contrario, si concede obiettivi più allargati. Ciò che conta sono la curiosità per nuove culture, gli stimoli intellettuali che solo la diversità (di idee, emozioni, stili di vita) sa offrire, il bagaglio di esperienza personale che sempre più si arricchisce; in quest’ottica il tempo può diventare una variabile indipendente. In ogni caso, tutto questo vissuto non farà che incrementare le voci di un personalissimo “portfolio”, cioè quel ventaglio diversificato di competenze professionali e di saperi multipli che costituisce il vero patrimonio dei moderni cavalieri erranti.
È Charles Handy, filosofo del business, ad aver introdotto il concetto di portfolio, associandolo alla comparsa di una nuova figura di lavoratore: un libero professionista che, di volta in volta, sviluppa un’abilità e/o un’idea da offrire a chi ricerca business opportunities o da sviluppare nel momento in cui entra a lavorare in squadra con altri esperti per la finalizzazione di un progetto. Ogni nuova risorsa (un’esperienza maturata sul campo, un ulteriore aggiornamento, lo sviluppo di un nuovo prodotto ad alto contenuto tecno-creativo) viene quindi inserita nel suo portfolio personale. La novità sta nel fatto che le varie competenze accumulate nel corso del tempo non procedono secondo un excursus lineare e consequenziale. Ciò, di conseguenza, rivoluziona anche il modello classico di retribuzione, che non prevede più solo meri compensi in denaro ma si apre ad altre forme di gratificazione: amore, soddisfazione creativa, potere, gioia. Naturalmente la mappa di specializzazioni e interessi (tecnici ma anche umani, politici, sociali, collettivi) che viene a crearsi muta costantemente, così come la stessa nozione di carriera: qualcosa che è più vicino al concetto rinascimentale di Sapere che non all’ennesimo stage di specializzazione in Business Administration.
In questo nuovo modo di porsi nei confronti dell’attività lavorativa c’è dunque spazio per i colpi di testa, i cambi di direzione improvvisi, le avventure azzardate a scopo sperimentale; un atteggiamento che, tra l’altro, richiede un distacco consapevole dalle mere logiche del profitto.