20. Identikit: come riconoscere un nomade globale
 
 
 
 
C’è nomade e nomade; c’è chi viaggia con la testa e chi viaggia col corpo; chi migra per lavoro e chi per cambiare vita; c’è chi fa surf sull’onda incalzante dei dati digitali e chi fluttua in un mare di culture e lingue diverse. Le modalità e le tecniche dell’erranza come fondamento esistenziale sono un fatto puramente soggettivo. Nonostante ciò, il nomade globale (che mai si dichiarerà tale) riconosce, se non tutti, almeno una buona parte di questi principi-chiave:
 
– Esprimere insofferenza nei confronti del controllo burocratico.
– Conoscere una o più lingue straniere.
– Mantenere una mente flessibile, aperta al nuovo e all’“altro”.
– Sostenere un approccio cosmopolita.
– Sentirsi a casa in qualunque luogo.
– Avere fisse dimore “temporanee”.
– Non “appesantirsi” eccessivamente con beni terreni e proprietà immobiliari.
– Essere sempre pronti al cambiamento, alla migrazione.
– Mantenere forti contatti con la comunità di elezione, la propria cerchia di amici, di conoscenze.
– Adattare i principi della cooperazione a una sana competizione professionale.
– Perseguire e promuovere l’apprendimento permanente.
– Ampliare e arricchire il “portfolio” personale con esperienze di vita e di lavoro diverse, che non seguano un percorso razionale e lineare (la “carriera” in senso classico, ormai anacronistica) ma che assecondino le curiosità, gli stimoli, le occasioni e gli interessi del momento.
– Sfruttare le più avanzate tecnologie senza divenirne schiavi.
– Rifuggire da ogni forma di pregiudizio, fanatismo ideologico, messianesimo o settarismo.
 
Così, in sintesi, si profila il “credo” nomade del Duemila. Eppure si sente l’esigenza di scavare più a fondo, di entrare nella testa dei nuovi pionieri. Per capire come affrontano lo stato di erranza fisico-mentale e una vita senza più certezze; in che modo si relazionano in un contesto lavorativo; cosa regala loro equilibrio e soddisfazione; come superano i conflitti emozionali e interpersonali.
Fondamentalmente il moderno nomade è “colui che osa”, dove osare significa avere il coraggio di guardare il mondo con occhi diversi da come ci è stato insegnato, di lasciarsi guidare dalle proprie intuizioni e percezioni, di affrontare la vita come una personalissima ricerca, assumendosene in toto la responsabilità; ed è anche il coraggio di avere un sogno e di pagare il prezzo per averlo. È senz’altro vero che per potersi permettere un atteggiamento del genere bisogna innanzi tutto essere degli inguaribili ottimisti. Ci risiamo! Di nuovo con la storia yankee del positive thinking, lanciata come antidoto alle depressioni degli anni Novanta. “Io penso positivo” dovrebbe essere lo slogan da recitare di primo mattino quando suona la sveglia, nel momento di varcare la soglia dell’ufficio, al coffee corner dopo la sfuriata del capo e la notte prima di coricarsi. Sinceramente nauseante. Eppure, oggi anche i più seri studi psicologici confermano che un atteggiamento ottimista nei confronti della vita è una delle chiavi che aprono le porte al successo (soprattutto in termini di soddisfazione personale), all’equilibrio mentale e a un’esistenza più armoniosa e serena. Armiamoci di pazienza, sembrano suggerire i tempi nomadi, e impariamo a guardare al lato positivo delle cose, al bicchiere mezzo pieno invece che mezzo vuoto.
Il primo passo verso l’erranza è dunque adottare quel piglio sicuro che porta a mettersi in discussione, ad azzardare colpi di testa o gettarsi in imprese professionalmente rischiose sapendo che la vita manterrà, comunque, un buon sapore. E che c’è sempre un modo per cavarsela, anche nelle situazioni più difficili. A quest’inesauribile fiducia in se stesso il nomade intreccia l’abilità (innata o appresa) di socializzare, di padroneggiare il linguaggio dei segni e dei sentimenti (l’unico che permette di entrare veramente in sintonia con gli altri), di alimentare e mantenere amicizie durature. Un rinnovato senso di comunione col tutto (quel “superorganismo” e quella “intelligenza collettiva” di cui si parlava), e quindi con ciascuna delle sue parti, spinge a ricercare nuove formule di coesistenza basate sul rispetto reciproco, sul riconoscimento di percorsi e modi di pensare alternativi. È proprio questo zoccolo duro di grande, fiduciosa energia interiore, di relazioni facili/stabili e di spirito comunitario che consente al moderno nomade di superare il senso di spaesamento, la perdita dei punti di riferimento tradizionali, il vuoto di valori che gli ha lasciato in retaggio l’età moderna.
L’individualismo esasperato di fine secolo finisce così, giocoforza, per stemperarsi in un gioco allargato di attenzione e cura verso l’altro da sé. Eppure comprendere gli altri, i loro sentimenti e le loro motivazioni, per trovare il modo migliore di interagire con essi in maniera cooperativa, non è sempre cosa facile, soprattutto (e siamo i più) quando non si posseggono innate capacità di mediazione. Ecco perché, come sostiene Daniel Goleman, fin da piccoli dovremmo apprendere i rudimenti di un “alfabeto emozionale” che ci aiuti a sviluppare un nuovo tipo di sensibilità e di intelligenza sociali10, senza le quali avremmo difficoltà a promuovere più evolute forme di coesistenza.
Finora nessuno si era mai preoccupato di insegnare, in modo diretto e con metodo, in famiglia e men che meno a scuola, l’Abc della convivenza pacifica. E cioè la capacità di ascoltare le ragioni della controparte, l’arte di instaurare e alimentare relazioni, di entrare in empatia con i sentimenti altrui, di risolvere positivamente i conflitti interpersonali, di sviluppare l’autocontrollo e il controllo dei sentimenti negativi (l’ansia, la collera, le frustrazioni, gli stati depressivi). Oggi però si fa strada la consapevolezza che è proprio da questi valori dimenticati (o mai appresi) che bisogna ripartire. Negli Stati Uniti esistono già scuole sperimentali dove si tengono corsi di una disciplina pionieristica che è stata definita in diversi modi: “Sviluppo socialÈ, Abilità di vita”, “Apprendimento sociale ed emozionale”, “Scienza del sé”.”
Al “bambino egoista” del XX secolo, isolato dagli altri e chiuso nel suo istinto accentratore, fa ora da contraltare un “uomo nuovo”, forte della sua maturità sociale; consapevole che l’unico modo per contrastare la lenta disintegrazione di ogni modello di riferimento (la famiglia, la scuola, il partito, lo Stato) è ricostituire il senso di comunità e di comunione con gli altri. E tanto più maturano i rapporti interpersonali tanto più si afferma nel nomade di oggi un rinnovato spirito di cooperazione (metaforico retaggio di quello spirito solidaristico che un tempo lo legò ai membri di arcaiche tribù). Al di là dei facili idealismi, sono proprio questi tempi moderni a decretare, con la loro fine, anche la fine di uno spietato atteggiamento di autoaffermazione e di lacerante competizione. Non è un caso che proprio in questi ultimi anni siano ovunque proliferate innumerevoli associazioni di volontariato e forme di solidarietà spontanea.
Se c’è un campo dove i pionieri di una nuova era dimostrano di aver raggiunto appieno la maggiore età questo è il mondo del lavoro. Dal sistema verticistico, rigidamente gerarchicizzato, si passa all’organigramma orizzontale e flessibile. Dal rapporto capoufficio/impiegato si slitta verso il gioco di squadra regolato da un team leader, sostituibile di volta in volta a seconda del tipo di professionalità richiesto al momento; in quest’ottica, qualsiasi membro di un gruppo di lavoro è, grazie ai suoi particolari talenti, potenzialmente idoneo a tenere le redini di una squadra.
La rivoluzione nomade, dunque, scardina il concetto tradizionale di leadership. L’esercizio del potere, di chi ha il controllo o la responsabilità finale di un progetto (così come di una multinazionale o di un Ministero) tende ora a fondarsi sull’abilità di gestire in modo armonioso i rapporti interpersonali. Il valore di un leader viene valutato in base al grado di scioltezza con cui riesce a motivare e coinvolgere i membri della sua squadra di lavoro, alla capacità con cui sa conquistarsi rispetto, consenso e autorevolezza (un concetto ben distinto da quello di sterile imposizione della propria autorità). Appianare i conflitti senza aggressività, senza mortificare il singolo minacciando la sua dignità e la sua autostima sarà dunque il primo requisito per raggiungere il successo. Ormai persino i manuali di management (!) rilevano che più l’individuo viene responsabilizzato e apprezzato per il suo contributo più egli si dimostra produttivo ed efficiente. Siamo al richiamo verso un approccio empatico sostenuto dallo psicanalista Harry Levinson quando, criticandone la mancanza, osserva: «I dirigenti scarsamente empatici sono molto inclini a fornire il feedback in modo offensivo, come una raggelante umiliazione. L’effetto netto di queste critiche è distruttivo: invece di aprire la strada alla correzione dell’errore, generano una reazione emotiva negativa di risentimento e di amarezza, spingendo l’individuo a mettersi sulla difensiva e a tenere le distanze».
Altrettanto importante, per approdare al successo nella leadership, è la capacità di sviluppare reti informali di professionisti e colleghi in grado di risolvere problemi imprevisti in tempi brevi. Più i compiti si fanno complessi (e la tendenza, dalla bioingegneria al marketing globale, è questa) più è necessario poter attingere dalle competenze altrui. E questo è possibile solo se si è stati in grado, nel corso della propria vita professionale, di intrecciare una fitta maglia di relazioni informali, alle quali rivolgersi per ottenere preziose consulenze in tempo reale.
Entrambi questi nuovi elementi di valutazione – approccio empatico e capacità di sviluppare reti informali – rientrano nelle risorse di cui si dovrebbe dotare un’impresa che intenda non dico prosperare ma quantomeno sopravvivere nei nuovi contesti socio-economici che si stanno delineando. Paradossalmente, per affrontare la competizione in futuro ci sarà sempre più bisogno di cooperazione: «Poiché i servizi basati sulla conoscenza e l’informazione come pure le risorse intellettuali diventano sempre più importanti per le aziende, il miglioramento della cooperazione fra individui sarà uno dei modi principali per mettere a frutto le risorse intellettuali a disposizione, a tutto beneficio della propria competitività» (Goleman). Di pari passo, è dalla matrice sociale della collaborazione che nasce la vera innovazione, molla propulsiva del progresso contemporaneo, fertile grembo di inedita creatività. In un momento in cui il canto corale dei mass media inneggia al supremo valore del prossimo futuro – l’Informazione – umilmente si realizza che comunque è l’Uomo, e non il Dato, il bene supremo delle leggi di mercato. Ecco perché Michael Schrage, autore di un libro dal titolo eloquente – Shared Minds (menti condivise) – si spinge a reclamare giustizia per l’Umanità: «la gestione delle relazioni umane dovrebbe soppiantare quella delle informazioni in quanto fonte di reale innovazione, di incremento della produttività e di nuovo valore delle imprese. La natura delle nostre interazioni è più importante delle accelerazioni nella consegna, e dell’incremento nella quantità, delle informazioni».