5. Ghetti o enclaves?
 
 
 
 
Aggiornato il suo portfolio, ricostituita quella sua interiore e multiforme identità con l’aggiunta di un nuovo tassello figlio dell’ultima esperienza, il moderno nomade è pronto per ripartire, per mescolarsi e fondersi, scomparire e riapparire. Tutto questo lo può affrontare da solo, in coppia, o con un’intera famiglia al seguito. In ogni caso, per far sì che la sua vita non si trasformi in una esistenza traumaticamente costellata di arrivi e partenze, di cambi di direzione, di repentine ridefinizioni del proprio habitat, il nomade globale necessita di una salda ed efficiente struttura di supporto. In fondo, anche il nomade tribale tradizionale nella sua erranza non mancava di saldi punti di riferimento: le oasi, i caravanserragli, le sorgenti, i centri di rifornimento, i suk, i grandi mercati di bestiame. Ecco allora che, nel caso del nomade del Duemila, entrano in gioco le enclaves: cittadelle, basi di appoggio, “comuni”, kibbutz postmoderni, organizzati sulle basi e sulle esigenze di una grande tribù mobile.
Quindi non solo in grado di fornire alloggi, aree per la comunicazione cablata e multimediale, impianti sportivi e ricreativi, ma anche scuole e centri di formazione per i giovani, laboratori sperimentali e centri di ricerca avanzata, culle di sapere scientifico-tecnologico dove le conoscenze e le diverse esperienze possano venir confrontate e diventare patrimonio comune.
Il rischio, gravissimo e che va prevenuto, è quello che le enclave si trasformino in realtà vere ma chiuse, selettive, ripiegate su se stesse: dei ghetti per un’élite colta, cosmopolita e raffinata. Saremmo di nuovo al punto di partenza: quello di un benessere egoisticamente protetto ma assolutamente sterile, fagocitatore di entusiasmi ispirati e creatività; la negazione del movimento e del Sapere condiviso come indispensabili motori di un’evoluzione culturale.
La realtà dei fatti conferma i timori futuri; il pericolo di un’aurea, egoistica autosegregazione è un problema che molti osservatori hanno già rilevato; fra questi c’è Jeremy Rifkin, che scrive: “In America i residenti dei centri urbani hanno oggi molto più in comune con gli abitanti delle favelas dei paesi del Terzo mondo che con i nuovi cosmopoliti che vivono nelle aree residenziali suburbane o extraurbane, dalle quali pure distano solo poche decine di chilometri”. Persino l’ex ministro del Lavoro statunitense Robert Reich ha paventato che questi nuovi privilegiati senza fissa dimora si ritirino in enclave sempre più isolate, nell’ambito delle quali finiranno per concentrare le loro risorse, invece che condividerle con gli altri americani o investirle in modo da migliorare la produttività del Paese. “Separati dal resto della popolazione da connessioni globali, buone scuole, stile di vita opulento, eccellente assistenza sanitaria e abbondanza di guardiani armati, porteranno a termine la propria secessione dall’Unione”. Fra le righe si legge già la comparsa di un virus senza antidoti: quello che porterà alla disgregazione degli Stati, delle grandi potenze nazionali3.
L’aspetto più inquietante – oserei dire agghiacciante – , però, è proprio il baratro che già ora sta aprendosi tra i cittadini non solo di una stessa nazione, ma addirittura di uno stesso quartiere; per i professionisti della nuova élite, che Rifkin accomuna sotto la definizione di “analisti simbolici”, “il luogo dove si svolge il lavoro è molto meno importante del network globale al quale sono collegati; in questo senso rappresentano una nuova forza cosmopolita, nomadi di una tribù tecnologica che ha forti legami tra i suoi membri – ancorché distanti – che sentono, invece, di avere ben poco a che fare con i cittadini del Paese nel quale incidentalmente lavorano”. È, in qualche modo, lo stesso concetto espresso dal sociologo Ulrich Beck quando parla del comportamento asociale di quelli che lui definisce “giocatori globali”: liberi professionisti, manager di multinazionali, proprietari di aziende che finiscono per pagare le tasse dove se ne pagano meno, per vivere dove si sta meglio, dove ci sono le migliori infrastrutture e più diritti civili. Si presenta così un nuovo tipo di conflitto sociale tra coloro che sono veramente costretti a pagare per il welfare system, da una parte, e coloro che traggono profitto senza pagare per tutto questo.
Nonostante ciò anche in questo caso il futuro, che è sempre previdente, lascia due porte aperte. Se una, nella sua miopia egoistica può condurre a risultati terrificanti l’altra, secondo Franco Berardi, potrebbe aprirsi su di un più auspicabile “processo di ‘scismogenesi’, cioè di proliferazione cellulare di nuovi modelli che, poco alla volta, come un contagio, o piuttosto un contro-contagio, può rovesciare la tendenza attualmente predominante”.