14. Sulle orme dello sciamano
Nella sua ricerca
spirituale il moderno nomade trascende i dogmatismi religiosi
tradizionali e si ritrova più vicino all’esperienza sciamanica di
molte tribù nomadi. Lo sciamano è colui che legge il libro della
giungla, entra in simpatia con piante e animali, si impregna del
loro spirito. Il suo viaggio iniziatico verso la conoscenza lo
porta sovente a stati di trance, in cui egli riesce a entrare in
risonanza con ogni forma di vita, a fondersi con il mondo. Le nuove
forme di sapere, permeate di elementi tecno-scientifici, finiscono
così per assimilare un affascinante elemento d’indagine: quello che
porta all’evoluzione spirituale dell’individuo, alla comprensione
dell’uomo in rapporto alla vitalità della natura.
Si sta
progressivamente delineando l’affermazione di un approccio
esistenziale dove scienza, arti sociali e spiritualità si fondono
per dare vita a una visione ecologico-panteista della vita non
lontana da quella espressa negli anni Settanta dalla teoria di
Gaia. Il suo architetto, James Lovelock, concepisce la terra come
un superorganismo vivente autoregolantesi (Gaia, appunto), in cui
non solo le piante, gli uomini e gli animali ma anche l’atmosfera e
gli oceani sarebbero collegati da una fittissima rete di
interdipendenze. In fondo, è quello che già avevano percepito –
senza concettualizzarlo – molte tribù nomadi primitive; in loro
questa sorta di panteismo a somma zero (ricevi esattamente quanto
dai) si esplicitava in alcuni gesti rituali. Gli aborigeni
australiani, per esempio, «si muovevano sulla terra con passo
leggero; meno prendevano dalla terra, meno dovevano restituirle.
Non avevano mai capito perché i missionari vietassero i loro
innocui sacrifici. Loro non sacrificavano vittime, né animali né
umane: quando volevano ringraziare la terra dei suoi doni, si
incidevano semplicemente una vena dell’avambraccio e lasciavano che
il sangue impregnasse il terreno» (Bruce Chatwin). La prospettiva
di Gaia non si discosta molto nemmeno dalle più note filosofie
orientali, che non hanno mai visto il mondo come qualcosa di
diverso da un sistema complesso. Da un’idea di uomo in lotta contro
la natura (e pertanto moralmente in grado di accettare il mero
sfruttamento delle risorse ambientali) anche in Occidente si sta
ora lentamente tornando a quella di un reciproco
adattamento.
Sulla base di questo
percorso interiore si esplicita anche il concetto di “sensibilità
cosmica”: non ha nulla a che fare con qualsiasi forma di religione
tradizionale, non è consolatoria e non è nemmeno il rifugio in
un’illusione, in un millenarismo in chiave positiva. È
semplicemente una riscoperta del senso del sacro, del lato
trascendente della natura umana. Non risponde a niente e nessuno,
non prevede pratiche di sorta, riti, meditazioni, sacerdoti o
discepoli. È pura emozione interiore.
L’anello si chiude,
dunque, per poi riaprirsi sull’infinito: l’uomo del Duemila si
ricongiunge per un attimo al nomade dell’era paleolitica, allo
stato di consapevolezza collettiva dell’uomo preverbale, e da qui
spicca il volo verso più vasti orizzonti. Da una mitica Età
dell’oro si passa in un solo balzo temporale a una sofisticata
civiltà tecno-digitale spalancata su altri mondi, con nuovi (o
antichissimi?) modi di percepire l’ignoto.
In questo rito di
passaggio verso il terzo millennio la natura primordiale può essere
vissuta come un gigantesco catalizzatore e acceleratore delle
nostre facoltà di sentire, pensare, agire. Nella sua forma più
avanzata, infatti, lo sciamanismo non riguarda tanto (o non solo)
la natura, quanto (e soprattutto) gli stati profondi del nostro
essere. Lo sviluppo di una nuova attitudine metafisica coincide
allora con il desiderio, sempre più sentito e razionalizzato, di
scavare nelle ignote profondità dello spirito: negli ultimi due
secoli abbiamo esplorato l’infinitamente grande e l’infinitamente
piccolo (le terre incognite, lo spazio, gli oceani, l’atomo). Non
ci resta più che da esplorare noi stessi, e questo è un continente
ancora più grande di tutti gli altri messi insieme. Dopo
l’esplosione dell’uomo nel mondo, l’implosione del mondo
nell’uomo.
In modo forse un po’
rozzo e istintivo quello che i giovani ravers ricercano negli stati di trance autoindotti
ballando sui ritmi ossessivi della musica techno è forse proprio
una regressione allo stato primigenio. Un disperato tentativo
metropolitano di percepire la potenza della natura – e quello che
essa nasconde – ricalcando gli stati di trance che le antiche tribù
nomadi di cacciatori/raccoglitori sapevano provocare naturalmente o
raggiungevano ingerendo sostanze allucinogene.
È come se il recupero
delle proprie capacità intuitive portasse ora l’uomo a leggere
l’esistenza in modo sensoriale piuttosto che mentale. Senza per
questo ripiombare in una barbara irrazionalità. «La sensorialità»,
spiega Ettore Sottsass, «non è uno stato primitivo, è uno stato
culturale. Non rinnega la storia, la “cita”. Il senso è cultura, tu
senti quello che una struttura storica, letteraria, culturale ti
informa». La percezione sensoriale di un discorso, di una persona o
di un’opera d’arte è un processo estremamente sofisticato, che va
oltre l’atteggiamento razionale con cui siamo stati abituati a
interpretare la realtà.