9. Una nuova Babele
 
 
 
 
Quale sarà l’idioma con cui comunicheranno i nuovi nomadi? Attualmente, per quanto i francesi possano risentirsene, la lingua franca che apre tutte le porte e scavalca qualsiasi confine è l’inglese. Certo, non è il ricercato Queen’s English che coltivano a Eton; è piuttosto un pidgin-English, contaminato da centinaia di accenti, ridotto alla sua struttura essenziale, basic, come direbbero i sudditi della Corona: è l’inglese che si parla negli aeroporti, tanto per intenderci. Ma guardiamo oltre, spingiamoci nel prossimo futuro. Cosa trapela dalla boccia di cristallo della nostra maga virtuale? Uno sguardo dagli occhi a mandorla. È la Cina che avanza, seguita a ruota da Taiwan, Hong Kong, Corea, Malesia e Singapore. Due miliardi di teste che lanciano i loro messaggi – finalmente cablati, finalmente interconnessi – al mondo intero. È vero, l’inglese è la lingua con cui la rivoluzione informatica si è imposta sul mondo; però i nuovi nomadi (fluenti nell’idioma dominante) sono solo i pionieri di una nuova era. Bisogna inserire il distacco di almeno due generazioni per cercare di leggere quello che effettivamente accadrà; nel qual caso, le Tigri asiatiche dovrebbero aver qualcosa da dire. Figure nomadi per eccellenza (sradicati dal Medioevo e proiettati direttamente nell’era digitale), i cinesi potrebbero anche essere in grado di imporre il mandarino come futuro idioma-passepartout.
Anche se tutto, prima o poi, finirà per fondersi nel grande calderone linguistico del Terzo millennio: alle forme pure dell’inglese si accavalleranno le più pittoresche e intraducibili espressioni del russo, del tedesco, del francese, dello spagnolo, del giapponese e, naturalmente del cinese di Shanghai. Fino a che l’umanità intera non avrà contribuito a dare vita a un’inedita e vivacissima forma di babelico esperanto. In fondo, basta partecipare a una sessione di chat fra amici dislocati in varie parti del mondo per comprendere che i germi di un nuovo idioma nomade sono già stati inoculati.