1.
Prologo
Si sentono a casa a
New York come a Bombay, sono “sradicati” ma hanno famiglia, passano
dal sushi al chicken
tandoori con la stessa facilità con cui passano dal “Washington
Post” a “Le Monde”. Parlano più di una lingua straniera, utilizzano
quotidianamente le tecnologie più avanzate (dalla posta elettronica
alle videoconferenze) e sono, generalmente, liberi professionisti.
Parliamo di individui che hanno sviluppato una rara abilità
transculturale, capaci di nuotare agilmente fra le acque delle
differenze etniche, sociali e linguistiche. Per loro instaurare
rapporti d’affari a Parigi o a Tokyo, con un tycoon della finanza
locale o con un hacker dell’underground informatico non fa alcuna
differenza; e questo non perché sono maghi del business ma perché,
nella maggior parte dei casi, conoscono e comprendono entrambe le
culture (francese e giapponese, istituzionalizzata o alternativa)
dall’interno. Veloci e flessibili di pensiero, hanno come unica
fede terrena il cosmopolitismo. Grandi esperti in fatto di
repentine metamorfosi, sanno calarsi in qualsiasi habitat reale o
virtuale mantenendo intatta la loro intrinseca e complessa
identità. Di fronte alla più banale delle domande, “Da dove
vieni?”, ammutoliscono e, dopo un breve silenzio impacciato,
rispondono con un’altra domanda, questa volta sconcertante: “In
quale anno?”. Questo è il profilo sintetico in cui si riconoscono i
“nomadi globali”, i nuovi cavalieri erranti della civiltà digitale.
Rappresentano, per il momento, una fetta esigua e poco appariscente
della forza lavoro mondiale ma sono destinati a diventare l’élite,
influente quanto indispensabile, di una nuova era.
Sono loro, i grandi
attraversatori di frontiere – multimediali, multietnici e
multiculturali – la prima evidente espressione del mutamento
epocale che sta vivendo l’umanità alle soglie del terzo
millennio. I più adatti, per
formazione cultural-professionale e per mentalità, a sostenere il
ritmo destabilizzante di questa “fase di passaggio” che sta
portando l’Occidente ricco e viziato (e con esso le punte più
avanzate del capitalismo estremorientale) contro e oltre i suoi
stessi valori-culto. Dalla stabilità alla mobilità, dalla
conservazione tranquillizzante all’incertezza disgregante, dal
controllo centralizzato al decentramento totale, dal dirigismo
burocratico alla flessibilità.
Ancora una volta
risuona nel mondo l’eterno ritornello, scandito generazione dopo
generazione, come in una sorta di umana e planetaria legge del
contrappasso: i tempi stanno cambiando; ancora una volta, che ci
piaccia o no, che lo avessimo ardentemente desiderato o ferocemente
temuto e osteggiato. Solo che, ora, il cambiamento ha assunto forme
talmente repentine e traumatiche da lasciarci spiazzati,
boccheggianti di fronte al gigantesco sforzo che esso ci impone:
quello di trasformarci tutti, prima o poi e inesorabilmente, in
esseri mutanti, capaci di adattarci a un mondo dove, ormai e per
sempre, non saranno più reperibili né un centro, né una direzione,
né un punto perennemente stabile di riferimento: “Un mostro di
forze senza principio e senza fine, che non aumenta né si consuma
ma solo perennemente si trasforma” (Deleuze/Di Marco). Un mostro,
certo, ma anche una stupenda occasione di riscatto. Sviluppando
un’intera e potentissima nuova generazione di tecnologie l’uomo ha
creato, seppur inconsapevolmente, le premesse per una mutazione
d’incalcolabile portata. In questo disegno non premeditato (né
tanto meno preventivato) la spinta all’erranza psicologica, al
nomadismo transnazionale e transculturale, potrebbe funzionare da
fertile incubatrice per la prossima, imminente evoluzione culturale
dell’umanità.