13. Oltre la tribù
 
 
 
 
L’unità di base dell’organizzazione sociale fra le popolazioni nomadi tradizionali è il clan familiare allargato, costituito da legami di sangue e di parentela. I membri di questi microcosmi riconoscono una comune identità, generalmente condividono l’utilizzo di un territorio, fanno pascolare insieme i loro greggi e sanno che possono contare sulla solidarietà degli altri membri della comunità in caso di bisogno. Più gruppi di questo tipo collegati gli uni agli altri da un principio, che nella maggior parte dei casi si rifà a una comune discendenza, danno vita a una tribù. All’interno di queste realtà, indipendenti da un’autorità politica o governativa permanente, il mantenimento dell’ordine viene assicurato dalla collaborazione interna e dall’appello alle convenzioni etiche.
Fin qui siamo al concetto classico di tribù. Altra cosa sono quelle forme di aggregazione sociale (riscontrabili soprattutto nelle periferie urbane) che gli studiosi inizialmente, e metaforicamente, avevano definito “fenomeni di tribalizzazione”. Una volta però che l’espressione è finita in pasto ai mass media, sempre in cerca di brillanti neologismi, ha perso il suo carattere metaforico, banalizzandosi. Oggi parlare di “tribù metropolitane” significa identificare dei trend; sfogliando le riviste di moda e attualità si possono recuperare intere carrellate di tribù: da quelle dei neohippy a quelle dei ravers, passando per i cyberpunk e i travellers7.
Sicuramente la perdita dei punti di riferimento istituzionali (la famiglia, il partito, la scuola, la professione, lo status) e la conseguente disgregazione sociale portano i singoli individui a ricercare il perduto senso di identità nel senso di appartenenza a un gruppo, a una tribù. Le occasioni di contatto, di adesione sono le più disparate: etniche, religiose, ecologiche, politiche, culturali, musicali, legate a una moda, a un fumetto, a una serie televisiva (la tribù dei fan di Star Trek ha adepti in mezzo mondo) come a un gioco di ruolo. Le nuove tribù sono tante e multiformi, nascono e muoiono nell’arco di un mattino. Si aderisce all’una o all’altra per una comunanza d’intenti o di interessi, non per qualche obbligo sociale: luogo di provenienza, status, razza, età non sono più i criteri determinanti per far parte di un gruppo o per formarlo. Stiamo passando da una società d’appartenenza a una società d’adesione.
In tutto questo, tra le tribù di ieri e quelle di oggi, come si muove il nomade globale? Tendenzialmente si spinge oltre. Il tribalismo, come l’integralismo (politico, etnico, religioso) è un rifugio nel passato che mal si concilia con il balzo nel terzo millennio. Il recupero del passato ha un valore solo quando lo si interiorizza per superarlo, non per arenarvisi. Ieri come oggi, la tribù è una realtà – per quanto amichevole e informale – fondamentalmente chiusa, ripiegata su se stessa, sorretta da regole e rituali che non possono venir messi in discussione: pena la sua dissoluzione. Quello che invece ricerca il moderno nomade è una rete di comunità aperte, fluide, flessibili, in cui uomini e idee possano muoversi secondo il principio dei vasi comunicanti, in perpetua osmosi tra il dentro e il fuori. Si ritorna al concetto di enclave, di kibbutz postmoderno e multietnico. Certo, anche queste cittadelle per esistere dovranno poggiare su un complesso di regole da tutti accettate; ma l’organizzazione amministrativa di una comunità non ha nulla a che fare con il libero scambio delle idee e dei saperi, non impedisce al singolo di organizzarsi la vita a piacimento, secondo il proprio credo religioso, le proprie usanze, gli interessi e le affinità elettive del momento. Da qui emerge una sorta di tolleranza generalizzata, in cui si accetta di coabitare con l’altro nella misura in cui quest’altro non intende imporre i suoi propri valori. Inoltre, in una comunità di membri autoresponsabilizzati, liberi di aderire alle sue regole o di andarsene altrove, anche le leggi amministrative possono venir messe in discussione, aggiornate e democraticamente vagliate.
Abbiamo dunque da un lato un processo di tribalizzazione comunque destinato a espandersi nel prossimo futuro: la crisi delle forme tradizionali di aggregazione e di identificazione sociale è inarrestabile; la tribù è pertanto l’unità di appartenenza minima a cui può oggi aspirare il singolo. Dall’altro lato si sta configurando una rete internazionale di comunità nomadi (enclave) che potrebbe funzionare da cuscinetto mediatore e catalizzatore tra le varie tribù, mettendo le une a contatto con le altre grazie alla sua natura tollerante e permeabile. Graficamente si potrebbe raffigurare questo meccanismo come una grande nebulosa energetica: al suo interno gravitano le enclave, fra loro collegate su scala mondiale; ai bordi galleggiano le unità tribali, connesse alle enclave da flussi di informazioni e interazioni. In questo modo, anche la singola unità tribale può rendersi partecipe della complessità sociale del pianeta Terra.
In quest’ottica, i nomadi globali verrebbero a delinearsi in un primo momento come rappresentanti di un’élite intermedia, che si differenzia dalle classi dirigenti per essere più vicina alla realtà e ai problemi della gente; costituirebbero pertanto un anello essenziale per il funzionamento della società futura. Sul piano politico le enclave fanno parte della nazione che le ospita, ma sotto ogni altro profilo sono permanent autonomous zones8 che appartengono a tutto il mondo. Muovendosi dinamicamente tra locale e globale, i nomadi del Duemila rendono così visibile la nuova frontiera che, dal punto di vista dell’organizzazione sociale, si avvicina al modello del sistema immunitario: un sistema decentralizzato, orientato all’azione, dotato di indelebile memoria ed eccellente comunicatore.
C’è chi teme che una troppa apertura finisca per rendere un tale sistema sociale estremamente vulnerabile, facile preda di forze nocive, tese a escogitare nuovi modi di esercitare un potere aggressivo e totalitario. In effetti il sistema è fluido, reticolare, tollerante ma come quello immunitario è anche in grado di reagire prontamente e decisamente a chi tenta di imporsi per distruggerlo, per re-impiantarvi i codici di un controllo centrale. La biologa Polly Matzinger ha scoperto che le difese del nostro corpo si attivano quando le cellule dendritiche (contenitori di antigeni), disseminate in tutto l’organismo e munite di lunghe e ramificate estensioni, segnalano la presenza di cellule infettate o “assassinate”. Lo stesso vale per il sistema delle enclave, dove la presenza di forze ostili può essere neutralizzata (con la persuasione, l’espulsione e, in ultima istanza, con la forza). L’eventualità di un breakdown, di crolli o impasse temporanei, rientra nel meccanismo stesso di funzionamento del sistema. È dall’analisi delle fratture, dei punti deboli, che si possono predisporre spazi di azione preventiva e difensiva. Il concetto riprende metaforicamente la teoria espressa dall’immunologo e premio Nobel Niels Jerne negli anni Settanta, che vede il sistema immunitario come un network in grado di autoregolarsi usando solo se stesso: sempre sintonizzato su uno stato dinamico di risposta interiore.
La creazione di collegamenti a più livelli, inoltre, dal locale all’internazionale, dal particolare al generale, non è casuale: nutre il chiaro obiettivo di stemperare un fenomeno d’élite, come sarà inizialmente quello delle enclave, nel mare magnum delle masse, in modo che la presa di coscienza diventi effettivamente un fenomeno collettivo.