6. Un salto quantico
 
 
 
 
In realtà, l’unico modo per trasformare le enclave in laboratori per il futuro, in teste di ponte per lo sviluppo di nuove forme di convivenza, di stili di vita e di creativi approcci al lavoro è quello di renderle estremamente permeabili all’ambiente circostante e agli influssi dall’esterno, capaci di creare una fertile osmosi tra il dentro e il fuori; cittadelle pronte ad applicare la stessa flessibilità (di approccio, di comunicazione e di auto-organizzazione) che si richiede ai loro abitanti. Se queste comunità-laboratorio funzionassero, diventerebbero il modello su cui ri-organizzare la società a livello planetario. L’alienazione metropolitana, le megalopoli fagocitanti verrebbero inghiottite; di loro rimarrebbe solo un brutto ricordo; tutt’al più potrebbero trasformarsi in immensi musei di archeologia del XX secolo4. Tutto questo profuma di utopia, è vero. D’altra parte i cyber-guru contemporanei non aiutano certo a fare chiarezza. Si limitano a prospettarci e prometterci un futuro radioso ad alta tecnologia. Si è in dubbio tra l’interpretare il loro ardore profetico come una professione di fede o come un peccato d’ingenuità. Eppure ora come non mai gli esperti dell’Occidente avanzato, i profeti della nuova frontiera digitale dovrebbero fare un uso massiccio di critica costruttiva per discernere nel flusso magmatico della mutazione la via buona da quella cattiva, le forze motrici sane e progressive da quelle potenzialmente ostili, disgreganti, autodistruttive. Quello che a tutt’oggi manca è l’elemento moderatore di un “idealismo critico”. Ottimisti e apocalittici si scontrano sul vuoto; quel vuoto che ancora separa la sfera della scienza e della tecnica da quella delle scienze sociali e delle discipline umanistiche. Le “visioni” sono divaricate perché non c’è un terreno comune su cui costruire una nuova progettualità. Una volta colmato questo vuoto, lo spazio per il sogno, realistico e potenzialmente realizzabile, rimarrebbe comunque aperto.
Oggi i nomadi globali (così come d’altronde i guru mediatici alla Negroponte e gli ottimisti futurologi alla George Gilder) sono investiti di una grande responsabilità: la consapevolezza di essere, per il momento e per il prossimo futuro, un’élite; pionieri di una nuova era, sì, ma privilegiati: padroneggiano le più avanzate tecnologie, i mezzi di comunicazione più sofisticati; molti dei loro rappresentanti occupano le più alte sfere della comunità scientifica, si ritrovano inseriti in un circuito professionale di altissimo livello, sono costantemente aggiornati e ricevono una formazione pressoché permanente, adeguata ai sempre più rapidi sviluppi del mercato. Consapevoli di tutto questo, i nomadi globali hanno una “missione” più alta da perseguire che non quella del mero interesse/benessere personale: promuovere i principi della cooperazione integrandoli con quelli della competizione; contribuire ad estendere la mentalità improntata sul cambiamento e, soprattutto, sull’apprendimento perenne, ormai divenuto la chiave di volta, il principio fondatore della futura umanità digitalizzata e interconnessa. Come auspica Pierre Levy, il legame sociale viene reinventato “in funzione dell’insegnamento reciproco, della sinergia delle competenze, dell’immaginazione e dell’intelligenza collettive.”5 Finalmente, grazie a questa sorta di gigantesca rete neuronale creata dalle nuove tecnologie, l’uomo sembra in grado di dare vita a un’inedita forma di consapevolezza, dove il Sé viene messo direttamente in relazione con il Tutto.
La missione che coinvolge, nolenti o volenti, i nuovi nomadi e gli abitanti delle enclave non nasce, come d’altronde si stenterebbe a credere, da mero spirito solidaristico; tutt’al più si può parlare di solidarismo calcolato. Per quanto molti di loro possano essere spinti anche da profonde motivazioni etiche, l’analisi di fondo ha motivi molto più pragmatici. Nessuno può negare l’evidenza dei fatti. Oggi come oggi, le tensioni e le disuguaglianze sociali hanno raggiunto livelli preoccupanti. Il sistema capitalistico non solo è divenuto sempre più complesso e aggressivo ma ha acquisito insopportabili tendenze di stampo darwinista: sopravvivono solo i più dotati (il che, oggi come oggi, significa i più preparati culturalmente e tecnologicamente); gli altri si arrangino. Le vittime della Terza rivoluzione industriale, cioè i milioni di lavoratori licenziati e rimpiazzati da macchine e computer, premono alle porte di un mercato che li ha esclusi per sempre dai processi produttivi; mentre i nuovi settori di produzione emergenti non riescono ad assorbire la manodopera eccedente. Il divario tra i sempre più ricchi e i sempre più poveri continua ad aumentare; al contempo, si assiste a una ripresa su larga scala di forme di lavoro servile.
Ognuno pensi per sé: questo tipo di egoismo materialista ha la vista corta; a lungo andare la noncuranza nei confronti delle fasce più deboli si ritorce contro il sistema stesso. È la miseria la maggiore causa dell’alto tasso di criminalità metropolitana che stiamo soffrendo; è la disperazione che arma il povero e chiede vendetta nei confronti del ricco. E poi, fattore decisivo, nel momento in cui la drastica caduta del potere d’acquisto di milioni di diseredati avrà ridotto i consumi all’osso, chi comprerà i beni prodotti dal sistema? Sarà bancarotta per tutti, ricchi e poveri. Ecco allora che perseguire un corso più illuminato, improntato su un efficace spirito di cooperazione, eviterebbe il dispiegarsi di drammatici sconvolgimenti sociali e contribuirebbe a sollevare un mercato comunque in crisi per mancanza di strategie e di saldi punti di riferimento.
È vero che i nuovi nomadi non avrebbero alcun problema a farsi strada in un mercato mondiale ferocemente competitivo. Stiamo parlando di uomini/donne forti, tanto professionalmente quanto emotivamente, sufficientemente corazzati per sopravvivere – da leoni – in un mondo del genere. Invece si chiamano fuori, rifiutano una tale impostazione. Lo stesso discorso vale anche per le strutture economico-scientifiche che gravitano nella sfera bellico-militare. Si percepisce un disagio crescente fra gli esperti che lavorano nei laboratori di Silicon Valley piuttosto che di Fort Alamo; molti di loro, compresi i “cowboy dell’alta tecnologia”, non vogliono più lavorare per la scienza militare. Sono così nate associazioni, come la High Technology Professionals for Peace o la Computer Professionals for Social Responsibility, che si battono per una smilitarizzazione delle strutture scientifiche.
È iniziato il grande rifiuto della logica economica tritasassi. E i pionieri erranti ne sono i paladini per eccellenza.
Sia però ben chiaro che, nel suo movimento dinamico verso un nuovo livello evolutivo, il nomade globale non rinnega a priori i valori fondamentali del capitalismo e dell’organizzazione statale di stampo occidentale. La democrazia è una conquista inalienabile, così come i principi del libero mercato e della libera iniziativa. Nel suo progetto per una migliore qualità della vita, però, s’inscrive il tentativo di superare l’impasse in cui oggi si trovano intrappolati gli Stati occidentali (seguiti a ruota libera da tutti gli altri), dove la crisi generale dei valori su cui finora si era fondata la società e la paralisi di tutti i movimenti morali sta generando un flusso crescente di forze e comportamenti autodistruttivi: l’escalation della violenza e della povertà nei ghetti, la regressione alla primitiva legge della giungla (la morale della ragione del più forte), lo scadimento della qualità intellettuale, l’eclissi di ogni schema sociale, l’indifferenza, l’anomia. Se è vero che senza qualità statica (la conformità all’ordine, a una serie di valori e di leggi precostituiti) un organismo è destinato alla dissoluzione, è altrettanto vero che senza qualità dinamica (la spinta verso un cambiamento in meglio) questo stesso organismo non può crescere. Per questo è necessario trasformare il capitalismo, renderlo “illuminato”, capace di promuovere progetti di cooperazione internazionale a lungo termine invece di perseguire logiche a breve periodo di rapace miopia. Come non accorgersi che i danni ambientali provocati dallo sviluppo economico formano di per sé una sorta di limite naturale agli affari? Entra allora in gioco la ricerca di nuovi modelli di produzione, legati a un globale progetto di sviluppo compatibile con la sopravvivenza del pianeta. “Le nostre domande devono cambiare; invece di chiedersi quali prodotti o servizi si possano creare per guadagnare la maggiore quantità possibile di denaro, bisognerebbe pensare: che cosa posso produrre che sia in grado di liberare, informare e migliorare il mondo, preservando al tempo stesso un equlibrio naturale già delicato?” (R. Pirsig).
Al contempo si fa strada un’idea di competizione che superi il bisogno di sconfiggerci e sopraffarci a vicenda; rievochi l’epoca d’oro (se mai esistette) del gentleman’s agreement o ne apra una nuova fatta di fertile spirito agonistico inter pares. In fondo si è su questa terra per stare tutti meglio. “Quanto ancora può reggere un modello dove la norma è uno “stato di tensione continua, la tensione del manager, che può essere l’uomo più calmo, più sorridente, più pacioso del mondo, ma deve strangolarsi per vincere la concorrenza e fare carriera?” (Robert Pirsig)
Spirito di cooperazione, ideali comunitari, creatività, spiritualità, ritorno alla natura, rifiuto delle omologazioni sociali e burocratiche: siamo nel futuro o back to the Sixties, a un ritorno nostalgico agli albori del movimento hippy? Alcune parole possono avere ancora un’eco formidabile, risuonare nell’aria come slogan già uditi e già ripiegati nel cassetto delle fantasie. Nessuno vuol rubare ai figli dei fiori la paternità di certe intuizioni ma il futuro è diverso. Quello che segna la differenza tra ieri e domani è il “modo” in cui certe parole vengono pronunciate e i nuovi significati che col tempo hanno acquisito. Tra i nomadi globali non si respira alcun radicalismo sovvertitore, alcuna ricerca iconoclasta; non c’è un rifiuto a priori della tecnologia e dei sistemi economici. Non si cerca di rompere il sistema, o di abbandonarlo, per ripartire da zero: è sufficiente modificarlo, e dall’interno. Questa nuova fase di passaggio prevede un “dopo”, che non deve necessariamente identificarsi con una continuità o una rottura: può anche esprimersi come il risultato di un “salto quantico”, il passaggio a un nuovo livello dell’umana evoluzione.