25.
Elettra era davanti a quella porta chiusa da ore, ormai, eppure non aveva ancora trovato il coraggio di bussare. Erano giorni che girava intorno alla stanza della badessa fiutando l’aria in cerca di un qualche segno, una traccia, ma ogni volta che aveva pensato di entrare qualcosa l’aveva bloccata. Inizialmente era stata Lea a chiederle di rimandare l’incontro con sua madre, l’incendio l’aveva provata duramente; però Elettra sentiva che c’era dell’altro. Ogni volta che sfiorava la maniglia era attraversata dalla sensazione di stare facendo la cosa sbagliata, come se ci dovesse essere un tempo più giusto per quel confronto.
Il corpo le suggeriva di avere pazienza, ma lei non era fatta per le attese; tallonata com’era dal presente, non poteva permettersi di sperperare il tempo, e decise di agire quella mattina.
Si era svegliata presto, molto prima del sole che ancora si crogiolava sotto l’orizzonte, nelle gambe il bisogno di andare lì dove le era stato chiesto di non fermarsi.
Scese in cucina e prese dal vassoio un paio di guelfi, i pasticcini che per ammissione della stessa Lea la badessa adorava, e affrontò le scale che l’avrebbero condotta da lei.
Si sarebbe accontentata di uno sguardo, un cenno della mano, un battito di ciglia, ma aveva bisogno di guardare quella donna negli occhi e chiederle di perdonare sua madre.
Lei aveva bisogno di quel perdono; lo voleva per Edda, per chiudere definitivamente con il passato, e ne aveva bisogno per sé.
Spinse con mano leggera la porta socchiusa ed entrò nella stanza in punta di piedi; nella camera, spoglia come tutte le altre celle, solo un tavolo di legno con una sedia e un enorme crocifisso a guardia del letto spartano. Nell’aria l’odore di chiuso, di malattia; il sentore acido di un corpo stremato dalla battaglia e di bende imbevute di soluzioni alcoliche a base di erbe.
Sullo sfondo, fra le pareti bianco latte, uno squarcio di colori, quel mare che tanto aveva dato e tolto alla vita di Joséphine e di Edda.
«È permesso?» sussurrò, consapevole di non dover attendere una risposta.
Distesa sul letto, su lenzuola di lino che profumavano di giorni senza tempo, la badessa era una figura esile con indosso l’abito scuro che aveva segnato tutta la sua vita, le mani asciutte raccolte come se stesse pregando. Al cigolare della porta i suoi occhi si spostarono dal loro altrove misterioso sulla sua ospite, mettendo a fuoco il profilo di un passato che attendeva da tempo e che salutò con un debole sorriso. Sembrava le sorridesse dall’aldilà, una sensazione che a Elettra gelò il sangue.
«Non dovevi disturbarti per me, cara», sussurrò. Una gentilezza che ricacciò il cuore di Elettra nel suo guscio.
«Mi chiamo Elettra Cavani, madre», disse piano. «Sono la figlia di Edda.»
«So chi sei», le rispose l’altra sollevando la mano dalla coperta. «L’ho saputo dal primo momento in cui ti ho visto. Sei bella, sai? Hai i suoi stessi occhi», continuò accarezzandola con lo sguardo.
Poteva durare solo un attimo, Lea l’aveva avvertita; le aveva detto che i momenti di lucidità della madre erano comete che si esaurivano in un rapido bagliore, ma a Elettra bastò prendere fra le sue quella mano, ancora capace di sentire il calore e stringersi intorno a quella di una giovane donna impaurita, che aveva affrontato un lungo viaggio per incontrarla, per rappacificarsi con il passato.
«Perché?» sussurrò. Aveva tanto da chiederle, una vita intera di cui domandarle, ma quell’unica parola le sfuggì dalle labbra prima ancora che riuscisse a pensarla. Isabelle le aveva dato la sua versione della storia, ma lei aveva bisogno di sentirla dalla viva voce della donna che sua madre aveva amato, e forse amava ancora, come una sorella. Era stato un divertimento crudele, il suo, un gioco costato a Elettra molte notti insonni e domande cui nessuno avrebbe più potuto rispondere.
«Perché ha tentato di ostacolarmi, perché non voleva che io scoprissi la verità su Edda e il suo passato?» insistette mentre il viso di porcellana della donna si schiudeva in un sorriso estatico, in cui gli occhi sembrarono perdersi del tutto.
Fece per voltarsi e tendere l’altra mano verso di lei, ma il suo rimase soltanto un proposito. Ciò che doveva sapere, tuttavia, Elettra avrebbe potuto leggerlo nei suoi occhi.
«Avevo paura. Temevo che tanto dolore avrebbe finito per distruggere tutto, e che tu mi odiassi come ti odiavo anch’io. Ti odiavo e ti amavo, come ogni giorno da allora, ma non avrei mai voluto procurarti tanto dolore», rispose Joséphine pescando le parole da un bacino di pensieri e ricordi confusi che si rincorrevano nella matassa di giorni sbiaditi. «Non ho mai voluto che soffrissi quanto ho sofferto io, ed ero così arrabbiata e così felice quando ti ho vista nel chiostro! Eri una visione. Una visione meravigliosa e tremenda che mi ha spaccato il cuore.» Guardò il soffitto, gli occhi puntati verso il ricordo di quel giorno, quando la figlia del passato aveva varcato la soglia del convento e le loro esistenze si erano incontrate per un istante brevissimo, eppure fatale.
Elettra abbassò la testa, le dita che cercavano un appiglio fra quelle parole confuse, dense di significato; amore e odio avevano scandito le vite della badessa e di sua madre, ma nessuna delle due era uscita vincente da quel confronto.
«Madre», sussurrò chinandosi verso di lei, decisa a porre fine al racconto della donna, ma l’altra la ignorò; continuò a fissare la parete bianca sulla sua testa, schermo di ricordi che si andava popolando di immagini di cui Elettra ignorava i colori.
«Quando ho saputo che stavi morendo, quando Isabelle mi ha detto… oh mio Dio, ho creduto di morire anch’io. Volevo morire anch’io», continuò premendo il pugno sul petto avvizzito, mentre la rugiada le inumidiva lo sguardo. Parlava a Edda e a Elettra insieme, la mente incapace di scindere e bisognosa solo di parole, di lasciare che quelle scivolassero via da occhi per anni privati della luce calda del sole.
La mano di Elettra giunse in soccorso del suo sguardo bagnato di rimpianto, il battito accelerato e forte al punto di avere la sensazione che tutto il corpo si scuotesse. Il dolore della badessa era autentico, una lacerazione dell’anima che Elettra voleva sanare, che aveva bisogno di sapere guarita per la pace sua e di Edda.
«Madre», bisbigliò ancora mentre la donna si allontanava da lei, in viaggio verso orizzonti senza tempo e colore, in cui tutto è luce.
«Pace», sussurrò la religiosa. La memoria era in cammino verso l’infanzia e le corse per i sentieri assolati dell’isola, fra segreti sussurrati come formule magiche e diari da riempire di storie. In fondo agli occhi un odore, sempre lo stesso, che ancora aleggiava intorno a lei. «Era bello stare distese in terrazza, la sera. Era bello il mare visto da lassù», sussurrò dando voce alle immagini che si affollavano nella mente. Attimi sfocati, senza tempo, di due ragazzine con un cesto di albicocche sottobraccio e di corse a perdifiato sulla battigia, a rotolarsi sulla sabbia bagnata dal tocco gentile delle onde in cui galleggiavano allegri i frutti aranciati, fra risate e schiamazzi. Sere in cui due donne sedute allo stesso tavolo si erano guardate senza dire una parola, negli occhi rossi di pianto la risposta al silenzio dell’anima.
«Edda», sussurrò la badessa con una voce da bambina, lasciando che il petto di Elettra accogliesse il suo dolore; negli occhi la premura di parlare, di fermare il flusso dei ricordi e acciuffare le parole che continuavano a girare intorno, confondendola. «Sono stata così stupida, così testarda», disse lasciando fluire il veleno dal cuore appannato. «Oh, Edda!»
Gemette, le dita tese e gli occhi spalancati come la bocca, incapace di articolare nient’altro che suoni, mentre Elettra le accarezzava la fronte cercando di calmarla. Era Edda che aveva visto, Elettra ne era sicura; era da lei che la badessa fuggiva in quelle visioni, dal frutto avvelenato della gelosia che aveva spezzato il loro legame, seppure desiderasse ancora avere accanto la sua vecchia amica.
«Perdonala.» Una richiesta sorta improvvisa sulle sue labbra, una preghiera cui diede voce con il cuore torto dal dolore che leggeva sul viso della badessa, lo stesso che straziava sua madre.
Finalmente era tutto chiaro.
Finalmente Elettra capiva perché quella strana danza di indizi a metà; era l’amore fra Edda e Joséphine che lottava per rompere la crosta di rancore e tornare a respirare in superficie, che attraverso un viaggio senza tempo cercava l’assoluzione agli errori del passato.
«Perdona Edda», ripeté piano. Implorò il perdono della donna per conto di sua madre, a labbra strette; perdono per non aver capito, per aver lasciato che la gelosia distruggesse un legame sacro, per non essere stata capace di gioire per lei.
Per un amore straordinario sbocciato nel chiostro di quello stesso convento.
Fu allora, quando Elettra pronunciò il nome di sua madre, che la badessa scoprì il polso per mostrarle la cicatrice di un’antica ferita.
«Edda», sussurrò mentre le lacrime le offuscavano la vista e le labbra si schiudevano al ricordo di due ragazzine con la testa piena di sogni, che nella lontana estate del 1940 avevano stretto un patto di sangue rinnovato proprio su quella terrazza, distese a pancia in su a guardare il cielo.
Un patto che il tempo aveva provato a spezzare, invano, e che riviveva negli occhi di altre due donne, strette da un legame che niente avrebbe potuto sciogliere.
Lea avanzò a passo sicuro nella stanza e si piegò dolcemente sul viso della madre, sfiorandole la fronte con un bacio, poi le sorrise e si voltò verso Elettra. Joséphine, Edda, Lea ed Elettra; donne le cui vite il passato aveva intessuto di trame fatte di segreti e zucchero, e che ora tornavano a respirare fra le mura di un luogo antico, ognuna nell’anima dell’altra.
Lea tese la mano a cercare quella della sorella, mentre con l’altra stringeva le dita esili della madre. Strinse forte entrambe, in silenzio, mentre il pensiero correva a una donna distesa in un letto d’ospedale a molti chilometri da quella stanza, eppure a un passo da loro.
«Pace», sussurrò mentre il sole benediva il nuovo patto regalando loro lo scintillio dorato sul mare, riempiendo la stanza di una nuova luce, intensa e profumata.
Il passato era sanato, le lancette del tempo di nuovo in asse con la vita.