6.
Una scia argentea attraversò la notte scura, regalando un desiderio ai cacciatori di stelle.
Elettra, raggiunta Lea in terrazza per godere del silenzio della sera, le fu subito accanto, pronta a tacitare i brividi di freddo annodando il vecchio scialle di Edda sulle spalle. Era piacevole condividere con Lea le impressioni della giornata, ma quello che più apprezzava della sua compagnia era la libertà di rimanere in silenzio. Con lei non aveva bisogno di riempire i vuoti di parole e, in un modo che ancora stentava a comprendere, ognuna sembrava capace di colmare quelli dell’altra, come se tra loro ci fosse una tacita intesa, un patto sottoscritto in una vita già trascorsa.
«È tutto così poetico, dopo il tramonto», osservò.
«Languido, direi.»
Elettra annuì, stupita: la lingua di Lea viaggiava più veloce della sua, ma le loro menti erano perfettamente coordinate. «Già», concordò.
La notte, dalla terrazza, sembrava fatata; a fatica distingueva l’orizzonte dall’enorme sagoma scura che era la pineta, ma più in là, dove gli occhi faticavano a mettere a fuoco e gli oggetti diventavano minuscoli, le luci flebili delle biciclette dei ragazzi del paese in cerca di avventure e libertà danzavano nel buio come lucciole. Trascinate dal vento, giungevano dal porto le voci di una vita semplice, rilassata, e lontani echi di radio accese.
Una metà dell’isola sembrava voler vivere anche per l’altra, sprofondata invece nel silenzio perfetto del buio. E al centro, nel cuore di quella terra aspra, c’era il convento, custode di segreti che Elettra sentiva legati a doppio nodo al suo passato, a quel barattolo di primule candite da cui non si separava mai.
«C’è una cosa che vorrei chiederti», esordì Elettra grattando via la vernice della ringhiera bruciata dal sole.
Lea, rapita dalla luce abbagliante delle stelle, si voltò appena. «Dimmi.»
«Tu hai sempre vissuto qui, giusto?»
Lea annuì. «Io ci sono praticamente nata, nel convento.»
Elettra prese dalla tasca il barattolo di primule candite e glielo porse. «Hai idea di chi possa avere scritto questa etichetta?»
Lea si chinò a osservarla. «Sembra molto vecchio, dove l’hai trovato?»
«In un angolo della dispensa, mentre facevo l’inventario.»
«Allora deve essere lì da molto.»
«È proprio quello che vorrei scoprire. Tu saprai sicuramente qualcosa sul passato del convento. Sembra un posto così affascinante; chissà quante storie circolano su questo palazzo», disse fissando la luna, sognante, mentre Lea indietreggiava impercettibilmente, la schiena e le braccia rigide.
«Essere cresciuta fra queste mura non fa di me la custode del convento», rispose secca, ma Elettra non si lasciò intimorire dalla sua ritrosia, e colmò prendendole la mano la distanza che l’amica aveva posto fra loro.
«Quello che ti chiedo è solo un piccolo aiuto, nient’altro.»
Lea inspirò rumorosamente, la mano ghiacciata. «Francamente non capisco perché ti interessi tanto la storia di questo posto. Si tratta solo di un palazzo abbandonato, niente di più.» Elettra sospirò: Lea stava eludendo le sue domande esattamente come aveva fatto quando le aveva chiesto della voce che aveva sentito la prima notte. Per quanto potesse credere a magie e suggestioni, infatti, faticava ad accettare che sentir chiamare il nome di sua madre fosse il frutto di un’allucinazione, e si pentì di aver accantonato la questione. Un errore che non intendeva ripetere.
Rigirò il barattolo nel palmo; milioni di persone potevano avere un tratto simile a quello di Edda, ma era certa che ci fosse qualcosa di più. «Questa grafia assomiglia moltissimo a quella di mia madre.»
Lea deglutì. «Capisco, ma…» Lasciò la frase a metà e si sporse dalla ringhiera, negli occhi un’ombra fugace.
«Forse dovrei chiedere a Dominique, magari lei ne sa qualcosa.»
«Ne dubito. Lei vive qui da poco, e quell’etichetta sembra risalire a molto tempo fa. Probabilmente agli anni precedenti alla guerra, quando il convento era ancora in piena attività. Mi spiace di non poterti aiutare.»
«Magari potrei provare a contattare qualche monaca, una vecchia suora trasferitasi sulla terraferma.»
«Impossibile», sentenziò Lea, aspra.
«Perché?»
«Sono morte anni fa. Tutte quante.»
Un colpo che Elettra non si aspettava, e che la fece barcollare. Un vicolo cieco, dunque, la chiave di una cassaforte già vuota. «Be’, se non altro ci ho provato», disse cupa. «È strano, eppure a volte mi sembra di sentirla, sai? Mia madre, intendo. Ho l’impressione che sia proprio qui, accanto a me.»
Lea si voltò di scatto, una ciocca ribelle a coprirle il viso. «Le madri rappresentano un autentico pilastro, la memoria storica della nostra anima. Non credo che esista qualcosa di più sacro dell’amore che lega una madre al proprio figlio.»
Rimasero in silenzio a lungo, quando il richiamo di una civetta catturò l’attenzione di Elettra. «C’è un’altra cosa che vorrei domandarti», riprese voltandosi verso Lea, che le fece cenno di continuare. «Passeggiando per il convento in questi giorni ho notato che ci sono molte stanze chiuse, un’intera ala a dire la verità, e mi chiedevo…»
«Cosa vuoi sapere, di preciso?» la interruppe Lea, la fronte contratta.
Era notte fonda e la sola luce era quella offerta dal cielo, ma Elettra avrebbe giurato di scorgere un tremito nello sguardo dell’amica. Diede le spalle al panorama, incrociando le braccia sul petto.
«Insomma, prima la storia della voce…»
«Te l’ho detto, è il vento che fa di questi scherzi.»
«Io provo a crederci, ma insomma, è assurdo!» replicò Elettra, sul viso un sorriso intriso di scetticismo. «Quale sarà il prossimo passo, un fantasma che si aggira per il convento? Siamo tutte un po’ grandicelle per credere ancora alle favole», scherzò, ma Lea non rise insieme a lei. Si aggrappò alla ringhiera.
«Le stanze chiuse devono rimanere tali; lì non c’è più niente d’importante, credimi. Quando il convento era ancora abitato dalle monache venivano utilizzate come magazzini e archivi, ma poi furono svuotate e chiuse. I più anziani sostengono che al loro interno i nazisti abbiano interrogato e torturato i partigiani locali, e a nessuno piace tornare in un posto simile. C’è ancora molto dolore, lì dentro.»
Elettra annuì, scossa dallo spicchio di crudeltà che il racconto di Lea aveva lasciato trasparire. «Okay», bisbigliò, mentre l’altra tornava a guardare l’orizzonte.
L’afa degli ultimi giorni era stata spazzata via dal maestrale, che aveva ripreso a soffiare sul mare increspato. Sarebbe durato tre giorni; ormai Elettra aveva cominciato a conoscere i ritmi dell’isola che la ospitava. Lea, intanto, continuava a fissare il panorama; qualcosa non tornava nel suo atteggiamento, pensò Elettra, ma non insistette. Voleva chiederle ancora del vasetto di primule, ma le domande le si strozzarono in gola. Avrebbe dovuto cavarsela da sola, pensò tornando nella sua stanza.
Nel cuore della notte la raggiunse un brusio, prima che il suono di passi nel corridoio la svegliasse.
Spalancò gli occhi; c’era qualcuno davanti alla sua porta, ma chiunque fosse si era fermato al primo cigolio delle molle del materasso. Elettra lo maledisse a denti stretti, e lentamente liberò le gambe dalle lenzuola; se fosse stata abbastanza cauta, avrebbe scoperto chi era. Avanzò a piedi nudi, respiri e battiti rallentati, sudore freddo che correva silente lungo la schiena, ma, quando fece per afferrare la maniglia e sfruttare l’effetto sorpresa, rimase immobile di fronte al piccolo rettangolo scivolato nella fessura fra il pavimento e la porta.
Un biglietto era comparso ai suoi piedi.
Non fare domande.
Elettra si chinò a raccogliere il messaggio, il cuore che batteva all’impazzata.
«Che significa?» sussurrò, tenendo in bilico fra le dita l’ennesimo mistero. «Tu lo sai, vero?» chiese alla persona oltre la porta, ma quella, se c’era, non le rispose. Elettra allora afferrò la maniglia e aprì, certa di cogliere il misterioso messaggero sul fatto, ma a risponderle fu solo il buio, un tunnel di tenebra che avvolgeva l’intero corridoio ridotto al silenzio, proprio come intimava il biglietto.
Del messaggero nemmeno l’ombra, fagocitato dalla densa oscurità calata anche fra i suoi pensieri.
Chiuse la porta, la schiena premuta contro il legno.
“Chi vuole ridurmi al silenzio, e quale mistero si nasconde fra queste mura al punto di dover essere protetto con una minaccia?” si chiese ripensando alle parole tracciate sulla carta. Si premette il biglietto contro il petto. “Che cosa nasconde questo posto, e cosa c’entro io con questa storia?”
Domande, pensò Elettra guardando l’orologio, che avrebbero accompagnato il suo lungo viaggio verso l’alba.