20.
Dopo aver visto sbocciare sulla pelle diafana di Sabine enormi isole porpora, la mappa di un matrimonio in cui l’amore era sparito da tempo, non fu necessario spendere nemmeno una parola per stabilire che Sabine dovesse restare al convento. Non appena la vide Nicole corse a preparare una cella, mentre Lea e le altre radunarono il necessario per un primo soccorso.
In piedi accanto al letto di Sabine, Elettra torse per ore la pezza con cui aveva lavato via il sangue dalle sue ginocchia e placato la febbre; Sabine era una donna annientata, succube di tremori che infestavano i suoi sogni di incubi, incubi di un uomo che non sapeva amare.
I primi giorni furono i più difficili; Sabine faticava persino a respirare, tanto era forte il dolore provocato da un pugno di Gustave che le aveva incrinato due costole, eppure anche in quei momenti dalle sue labbra non sfuggì un sospiro di troppo. Non un lamento su quanto era accaduto il giorno della fuga, mai.
Da parte loro, Lea e le altre evitavano di fare anche il minimo accenno a Gustave, mentre Elettra, assorbita da tutt’altri pensieri, si limitava a svolgere il suo lavoro in cucina in attesa che fosse l’amica a parlare. Avrebbe voluto continuare le sue indagini, ma ogni volta che si allontanava dal letto di Sabine sentiva il laccio della coscienza stringere la presa, e allora crollava di nuovo sulla sedia, vinta. Non poteva abbandonarla, non se lo sarebbe perdonato; la vita di Edda, pur con tutti i suoi misteri, apparteneva al passato, mentre le ferite sul corpo di Sabine erano dolorosamente attuali. Elettra desiderava solo che l’amica si sentisse al sicuro, protetta, e che mai, mai nessuno in paese potesse guardarla con gli stessi occhi aguzzi con cui squadravano lei, perché era certa che non avrebbe mai retto il colpo.
Infine, parentesi a inizio e chiusura di ogni giornata, c’era il pensiero di Adrian. Dopo il bacio che le aveva rubato era sparito, e da quello stesso giorno Elettra aveva cominciato ad avere problemi con gli impasti; all’improvviso non riusciva più a montare nemmeno una goccia di panna senza che impazzisse, e anche preparare una semplice crema era diventato un inferno. Ma nonostante tutto a Sabine piaceva osservare lei e Nicole cucinare insieme, e trovava rilassante stordirsi con il loro chiacchiericcio, mentre fra un pensiero e l’altro leggeva qualche passo della Bibbia che portava sempre con sé.
«Leggere le sacre scritture e stare con voi è la sola medicina di cui ho bisogno per rimettermi in sesto», ripeteva spesso alle due, ridendo di gusto alla vista delle smorfie di Elettra ogni volta che l’impasto si ribellava alle sue mani.
Era sempre così, da quando era arrivata al convento, ma quell’ultima volta Sabine era certa che non l’avrebbe mai dimenticata: Elettra e Nicole erano alle prese con la preparazione degli ovis mollis, un tipo di biscotti proveniente direttamente dal ricettario della giovane Edda.
«Posso stare qui con voi?» aveva chiesto loro affacciandosi alla porta della cucina, con un ampio sorriso e la Bibbia premuta sul petto esile.
Elettra, china sull’impasto accanto a Nicole, non appena sentì la voce di Sabine alzò la testa. «Certo che puoi, anzi devi. Vieni, siediti qui con noi», rispose con un sorriso fugace prima di rituffarsi sulla massa zuccherina che le invadeva lo spazio fra le dita; la pasta era troppo morbida, instabile, un paio di minuti in forno e si sarebbe liquefatta. Elettra sbuffò, strofinandosi la fronte con il braccio. «Nicole, per favore, potresti venire a darmi una mano con questi? Ho bisogno di te, altrimenti finirò per lanciare tutto fuori dalla finestra», chiese all’amica mentre Sabine sfogliava attenta le pagine dei Salmi. «Ti appassiona molto la Bibbia, vedo», disse poi, notando con la coda dell’occhio il libro che la barista teneva aperto, sempre lo stesso da quando aveva varcato la soglia del convento; da allora Elettra l’aveva sorpresa spesso a guardare ammirata le immagini sacre della cappella. Un rifugio, una consolazione: gli occhi laici di Elettra leggevano una solitudine sterminata nel crocifisso che Sabine nascondeva sotto la camicetta.
«Mi piace il messaggio, la speranza che leggo fra queste pagine, cui per troppo tempo ho dovuto rinunciare.»
«Perché?» le domandò Nicole rovesciando sul piano infarinato l’impasto di Elettra.
Sabine accarezzò con la punta delle dita le pagine ingiallite, sulle labbra l’ombra sbiadita di un sorriso. «Gustave non mi permetteva di andare in chiesa, né la domenica né per le feste; diceva che era una perdita di tempo, e che con una casa e un bar da mandare avanti il tempo da dedicare al padreterno non c’era. A me però sono sempre piaciute le sacre scritture, sin da quando ero bambina; leggerle mi fa sentire confortata, compresa. In pace», rispose stringendosi nelle spalle mentre Nicole preparava una teglia di piccole polpettine dorate che offrì all’amica.
«Di sicuro non è efficace come una parabola, ma anche questo ti rappacificherà con il mondo, credimi», disse facendole l’occhiolino mentre Elettra rileggeva ancora una volta la ricetta di Edda. «Assaggia e dimmi se sbaglio.»
«Sicura?» sussurrò, e titubante protese appena l’indice, portandosi un briciolo di frolla alle labbra. La pasta aveva una consistenza sabbiosa, se la spingeva contro il palato sentiva i granelli di zucchero sciogliersi all’istante, dolci come un ricordo d’estate, mentre sul fondo fluttuava la scia morbida di burro e tuorli. Sabine chiuse gli occhi, stringendo le labbra. «Delizioso», mugolò.
«Il segreto sono tuorli sodi e burro freschissimo. E un pizzico di quella magia che a quanto pare ultimamente mi ha abbandonato», intervenne Elettra prendendo anche lei un ciuffetto d’impasto da assaggiare.
«Niente che non si possa riparare, spero», notò Sabine.
«Tutto si può curare, anche il disamore», rispose lei. «Basta trovare il mezzo giusto.»
Nicole sorrise e mise sul piatto della bilancia un sacchetto di zucchero; lei la sua magia l’aveva trovata grazie a Elettra, al profumo dei suoi dolci. Da quando lei era approdata sull’isola la sua vita aveva un sapore più intenso, dolce come i coni di panna montata alla cannella per cui impazziva il suo Fabien.
Sabine, invece, continuò a fissare imperterrita le fughe delle mattonelle. «Sarebbe bello imparare a curare il disamore, ma non so se ci riuscirei.»
«Tutti possono farlo», la contraddisse Elettra incrociando le braccia. «Devi solo desiderarlo con forza, ma non c’è niente, niente, che tu non possa fare.» Prese una noce d’impasto e la passò a Sabine, che la fissò con gli occhi pieni di sospetto. «Prova con questo, ad esempio.»
«Come? Ma io non ho mai fatto un dolce in vita mia, non sono in grado!»
«Sciocchezze! Basterà che tu smetta di pensare con la testa e inizi a farlo con queste», le spiegò prendendole le mani, mentre Nicole scompariva nella dispensa. «Lasciati guidare dall’istinto, gioca con i ricordi e i profumi evocati dagli ingredienti. Ascoltati. Ascoltati e sarà facile, credimi», le assicurò. «Facile come mangiare una pallina d’impasto», aggiunse arrotondandone una fra le dita.
«Okay», balbettò Sabine fissando imbarazzata la pasta rimastale appiccicata alle dita, ma quando la avvicinò al naso per sentirne il profumo si sentì subito attrarre nel suo cuore di zucchero e uova, persa nel ricordo di una sciarpa di lana rossa che aveva riposto in fondo all’armadio. L’aveva dovuta nascondere in una vecchia scatola di biscotti, e col tempo aveva assunto lo stesso odore che ora le impregnava la mano. Aveva acquistato quella sciarpa qualche mese dopo il matrimonio, prima di iniziare a passare davanti agli specchi senza girarsi: pensarci le faceva male. La sua pelle aveva ancora troppi lividi, eppure per un momento quel ciuffo di pasta zuccherina le aveva restituito la sensazione di una vita più semplice. Quella in cui comprare una sciarpa era una cosa normale.
«Ha un profumo meraviglioso», sussurrò. Lasciò cadere la noce d’impasto nella ciotola, mentre l’ombra della sciarpa sbiadiva dietro l’anta chiusa della sua felicità. Rimase a guardare il composto inghiottire i ricordi e si voltò a cercare Elettra, china davanti al forno per controllarne la temperatura. «Però ha anche un qualcosa di malinconico», aggiunse a voce alta, ed Elettra non se ne meravigliò. Era esattamente lo stesso effetto che faceva a lei ogni volta che preparava quei biscotti; le bastava che l’olio essenziale racchiuso nella scorza del limone si legasse all’impasto, per mettere indietro le lancette e ritrovarsi di nuovo nel tepore della Bottega dei sogni, a disporre i biscotti in riga sulla teglia sotto la supervisione di Edda.
«Allora, si è consumata la magia?» domandò a Sabine, ma quando si voltò a cercarla e la vide in un angolo con le braccia conserte, si allarmò. «Perché sei finita laggiù?» le chiese urtando con la mano le casseruole che Nicole aveva preparato per sciogliere il cioccolato.
«Gustave», sussurrò la donna, uscita dal suo angolo. Ricordare la sciarpa rossa era stato come ricevere un abbraccio, ma alla dolce malinconia di quel momento si era sostituito il terrore degli anni che erano seguiti, dei pugni e del sangue raggrumato fra i denti. Del tintinnio, così simile a quello della casseruola di rame appena caduta sul pavimento, del crocifisso di metallo appartenuto a sua madre che lui aveva distrutto durante la loro ultima lite.
Un ricordo che le aveva spezzato il respiro.
All’inizio fu appena un sussulto, ma in pochi secondi il panico la investì. Sabine sentì le ginocchia cedere e il terrore risalirle fino alla gola mentre le mani si aggrappavano alle spalle, la mente rivolta a un’esistenza imprigionata nel sottile cerchio d’oro a guardia del suo anulare; non era quella la vita che desiderava, non al fianco di Gustave, finalmente aveva il coraggio di dirselo, ma quei pensieri la schiacciavano per la loro enormità.
Tamponò le mani umide sul grembiule, combattendo con ogni pensiero e respiro per cancellare dalla mente la faccia arrabbiata di suo marito, per dimenticare quelle urla che si rincorrevano in tutti i suoi ricordi. Voleva solo sparire, smettere di esistere; non ne poteva più di quella vita, della violenza, del sapore acre del sangue. Tutto quello che Sabine desiderava erano pace e silenzio, era questo ciò che le aveva mostrato quel piccolo dolce: la quiete del chiostro, luce calda ad accoglierla.
E la Santa, che le sorrideva dalla sua nicchia fiorita. Sarebbe andato tutto bene, sembrava dirle con le sue mani tese, pronte all’abbraccio.
“Andrà tutto bene”, si ripeté la donna, le dita intrecciate in preghiera, sino a quando non sentì qualcuno prenderla gentilmente per le spalle.
«Sabine? Sabine, stai bene?» le domandò Elettra, preoccupata.
Fu la sua voce, la luce irreale della cucina con gli odori penetranti e il profumo dolceamaro dei ricordi, scandito dall’eco di quel tintinnio metallico sul pavimento.
Fu il vento che distratto sfogliava le pagine della Bibbia rimasta sul tavolo, e il sorriso dolce di Nicole, a dimostrarle che anche nella notte più scura le stelle continuano a brillare.
Fu allora, in quel preciso istante, che Sabine capì qual era la sua strada, che trovò il coraggio di guardare negli occhi la speranza.
Sorrise alla giovane Cavani, nel cuore una pace ritrovata, muta e soffice come candida neve.
«Sto benissimo», sussurrò accarezzando con la punta delle dita la croce che portava appesa al collo, mentre le campane della chiesa in paese scandivano la mezz’ora.