2.
Seduta nella sala d’attesa della clinica dove era ricoverata sua madre, Elettra si ritrovò a pensare che non aveva nemmeno più il coraggio di stare nella stanza con lei. Teneva le dita strette alla medaglietta raffigurante santa Elisabetta d’Ungheria, la patrona dei panettieri cui Edda era devota al punto da riservarle un piccolo altare in casa. Non sapeva perché l’aveva portata quel giorno: l’aveva vista sul comodino e aveva sentito l’esigenza di averla con sé. La Santa nel suo palmo aveva un’espressione trasognata che infondeva pace, una quiete che in trentatré anni Elettra non aveva mai conosciuto. La rivoltò fra le dita, soffermandosi sull’iscrizione ai margini: Île du Titan. Non ci aveva mai fatto caso. Quel nome non le diceva granché, ma immaginò facesse parte di quei misteri del suo passato che Edda le aveva taciuto.
«Uno dei tanti», disse con la voce carica di rimpianto. Tutto era andato perduto con lei, inghiottito dal suo sonno bianco: giorni, nuvole, sorrisi.
Afferrò la borsa decisa a tornarsene a casa, ma quando si alzò si sentì avvolgere dal calore di un profumo intenso, familiare.
La fronte si contrasse, assorbita dal tentativo di intrappolare quella fragranza in un ricordo. Conosceva quel sentore di farina arrotondato da una punta di zucchero, ma non riusciva a capire che cosa fosse la nota dispettosa di fondo. Poi una leggera folata di vento le restituì un ricordo che le fece tremare le ginocchia. Il profumo era inconfondibile, non aveva dubbi: era quello del pane all’anice di Edda.
Lei impazziva per quei panini speciali, e ricordava ancora come da bambina amasse inzupparli nel latte caldo fino a quando la glassa che li ricopriva diveniva trasparente. Ricordava con esattezza la consistenza dei semi d’anice che sprigionavano come un fuoco d’artificio tutto il loro sapore d’estate. Elettra aspettava con ansia la sera in cui Edda preparava l’impasto, il profumo lievemente alcolico della pasta lievitata, il suo profumo di buono, di pulito.
«Mio Dio», sussurrò con le dita premute sulle labbra. “Devo essere impazzita sul serio”, pensò osservando preoccupata il corridoio ingombro di carrelli di lenzuola e farmaci; in tutto quello che aveva percepito non c’era niente di reale se non la fervida fantasia di una ragazza nostalgica.
«No, bambina, è tutto vero», la corresse una voce roca alle sue spalle.
Elettra deglutì impercettibilmente; non una sola goccia di sangue osò muoversi dentro di lei. Non aveva aperto bocca, eppure qualcuno sembrava averla sentita.
Fece un respiro profondo e si girò; dietro di lei una donna sulla sedia a rotelle, una vecchia signora che la fissava con occhi incolori.
Elettra cercò di sciogliere con un sorriso l’imbarazzo crescente, e nonostante la cecità l’altra sembrò captare qualcosa. «Mi chiamo Eva, sono un’amica di Edda. Felice di conoscerti, Elettra», aggiunse con la voce arrochita dal tabacco.
«Lei mi conosce?» rilanciò lei, a disagio di fronte a quel piccolo corpo avvolto in un plaid turchese.
«Per forza, Edda non fa che parlare di te!»
Tutti i muscoli di Elettra scattarono all’istante. “Ecco dove vuole andare a parare”, pensò.
Troppe volte aveva letto di donne raggirate e derubate da sedicenti sensitive; gli sciacalli erano una specie che non conosceva estinzione. «Guardi, se sta cercando un modo per far soldi con me si sbaglia», l’avvertì, ma l’altra scosse la testa. Raccolse le mani in grembo, per niente intimorita dal tono minaccioso di Elettra, e tirò un lungo sospiro.
«Smettila di ciarlare e ascoltami, piuttosto: tua madre è in pensiero per te, tesoro», riprese accarezzando l’aria con la piccola mano. «Non vuole che te ne stia a rimuginare per la panetteria, tanto non si poteva fare niente per salvarla. Piuttosto vorrebbe che ti riguardassi di più, ha detto di trovarti un po’ deperita.»
Elettra indietreggiò. Deperita: Edda utilizzava sempre quel termine. Tuttavia non abbassò la guardia. «Mi dispiace, temo che mi abbia confuso con un’altra», tagliò corto. «Mia madre è in coma da un anno e non è nelle condizioni di sostenere una conversazione. Quanto a me sto benissimo, grazie.»
«Non direi, sembri uno spaventapasseri.»
Elettra boccheggiò, spiazzata dal tono irriverente della donna: ne aveva abbastanza dei suoi deliri. «Mi spiace, devo salutarla.» Strinse la borsa contro il fianco e le voltò le spalle, ma quando fece per andarsene l’altra si agitò sulla sedia.
«Aspetta!» la richiamò. Tirò un pugno sul bracciolo e prese fiato, tutto quello che sembrava esserle rimasto nei polmoni. «Edda mi ha chiesto di dirti di preparare i panini all’anice, ma di non esagerare come al tuo solito con la scorza d’arancia!» le urlò dietro.
Un avvertimento che inchiodò Elettra e la sua ritrosia nel mezzo del corridoio; solo lei e Edda conoscevano l’ingrediente segreto della ricetta. «Lei come…» disse voltandosi, ma l’anziana sovrastò la sua voce.
«Ricordati, Elettra: solo due cucchiaini da caffè per dose. Una volta che avrai preparato i pani, avvolgili nel panno di lino che si trova nella credenza in cucina, quello che macchiasti di sugo quando avevi otto anni, e portali al convento di Santa Elisabetta, sull’isola del Titano: se non sbaglio hai qualcosa di tua madre, con te, che saprà indicarti la strada», disse sfiorandosi appena il collo. «Una bussola molto particolare.»
Elettra sgranò gli occhi: quella donna non poteva sapere della medaglietta di Edda, era impossibile; da quando era entrata in clinica non la indossava più. “Eppure…” pensò allarmata e incuriosita, mentre l’altra proseguiva imperterrita con l’indice teso verso di lei.
«Sull’isola troverai tutte le risposte che cerchi, che hai sempre cercato, bambina, ma non lasciarti intimorire da niente e da nessuno; rimani sorda alle storie che circolano su quella terra ostile e la sua gente e deponi i pani ai piedi della Santa. Offrili a lei e prega per tua madre, la Santa ti ascolterà. E non temere», aggiunse, «andrà tutto al suo posto. Tutto quanto.» Elettra l’ascoltava senza fiatare; dinanzi a quella piccola donna tutte le sue resistenze erano crollate.
«Devo andare, bambina», la salutò Eva sottovoce.
«Aspetti!» esclamò Elettra precipitandosi ai suoi piedi, mentre la caposala affacciatasi in corridoio prendeva il controllo della sedia. «Mi dica, Eva: per cosa dovrei pregare esattamente, cosa c’è su quell’isola?» chiese, ma l’infermiera le scoccò un’occhiata di fuoco e con un paio di manovre le voltò le spalle. Elettra allora scattò in piedi e l’afferrò per la spalla, stringendo forte la presa. «La prego, la prego: mi lasci parlare con lei. È importante.»
L’infermiera si liberò con uno strattone, squadrandola dall’alto in basso. «La signora è gravemente malata, perciò mostri un po’ di rispetto e abbia la cortesia di lasciarla in pace», la liquidò allontanandosi. La sedia scivolò silenziosa, portando con sé la donna e i suoi segreti.
Le risposte, il passato: tutto andava via da lei, di nuovo.
Elettra rimase nel mezzo della corsia a guardare la caposala scortare Eva nella sua stanza, inerme.
L’incantesimo era rotto, il profumo di anice svanito.
Pane all’anice
1 kg di farina
200 g di zucchero
25 g di lievito
600 ml di latte
1 cucchiaio di miele
1 tuorlo d’uovo
1 cucchiaio di olio
4 cucchiai di semi di anice
1 arancia (scorza)
1 pizzico di sale
Per la glassa:
1 albume d’uovo; zucchero; succo di limone
Sciogliere il lievito in poco latte intiepidito insieme con un cucchiaio di miele e lasciare riposare per almeno 10 minuti. Su un piano formare la fontana con la farina, lo zucchero, il sale, l’anice e la scorza; versare al centro il tuorlo, l’olio e, a poco a poco, il latte rimasto, aggiungendo in ultimo il lievito sciolto. Lavorare l’impasto per alcuni minuti, energicamente, sino a ottenere un composto elastico. Riporre in una ciotola capiente unta d’olio e lasciar riposare sino al raddoppio del volume. Riprendere l’impasto, formare delle palle grandi come un’arancia e deporle su una teglia. Coprire con un telo e lasciar riposare per un’ora.
Trascorso questo tempo, spennellare i pani con un po’ d’albume, porre in forno caldo a 170° e cuocere per circa 30 minuti, mettendo in forno anche un pentolino d’acqua.
Preparare la glassa: mescolare l’albume e lo zucchero sino a ottenere un composto chiaro e denso, aggiungendovi qualche goccia di succo di limone. Pennellare i pani freddi e lasciar asciugare completamente.