14.

Dal pomeriggio in cui Isabelle era venuta a conoscenza della gravità delle condizioni di Edda, Elettra evitò di ritrovarsi nella stessa stanza da sola con Lea. Preferiva concentrarsi sulla preparazione dei dolci da vendere al mercato agli ultimi turisti, pronti a tornare alle loro vite, che a differenza degli isolani non nutrivano alcun pregiudizio su Lea e le altre. Nonostante gli attriti, lei il convento era determinata a salvarlo, anche se sarebbe stato tutto più difficile senza la complicità della proprietaria.

Eppure Lea aveva provato a ricucire lo strappo.

La sera stessa del loro litigio aveva bussato alla sua cella per scusarsi, ma era rimasta a parlare davanti alla porta chiusa per quasi un’ora. Elettra, seduta sul letto oltre la parete, non aveva trovato la forza di aprirle; non poteva farlo senza aggredirla, pronunciando ancora parole di cui sapeva che si sarebbe pentita.

Lea aveva voluto vendicarsi, punirla per la sua sintonia con Adrian, per quel modo tutto loro che avevano di guardarsi, capaci di ritrovarsi persino nel delirio mattutino del mercato del pesce, come qualche giorno prima.

Era accaduto proprio quel venerdì, non avrebbe potuto dimenticarlo nemmeno se avesse voluto. Era andata al molo dei pescatori insieme a Lea in cerca d’ispirazione per un nuovo biscotto da inventare per l’inaugurazione del loro banco, nonché a comprare qualcosa per il pranzo, del buon pesce con cui deliziare le sue amiche; il sole stava a guardare, dal suo giaciglio di soffici nuvole bianche, la folla che si accalcava intorno alle casse del pescato disposte alla buona su tavolacci di legno, divertito nell’osservare le anziane litigarsi un cartoccio di sardine. Lì, immersa nel chiacchiericcio del mercato, fra decine di persone e odori intensi, le era bastato lasciarsi guidare dal vento per riconoscere nelle sfumature del libeccio quella miscela inconfondibile di vernici e mare, l’odore di Adrian. Lui era nascosto nella folla, da qualche parte, e non importava che non riuscisse a scorgere il suo volto, perché la pelle sapeva prima ancora degli occhi che lui era lì.

Aveva lasciato che fosse Lea a contrattare al suo posto per un pagello, strappandolo al pescatore alla metà del prezzo iniziale, ed era rimasta in disparte a osservarla farsi largo fra i banchi con il cestino appeso al braccio, passando in rassegna le casse di pesce semivuote.

Elettra invece no, lei non era riuscita a muovere un solo passo. Il respiro era diventato più profondo, quasi volesse imprigionare in ogni boccata d’aria un po’ di quel profumo, trattenuto nell’abbraccio del battito rallentato. Adrian era lì, sentiva i suoi occhi cercarla, ne leggeva la presenza nei volti che incontrava, nei suoni che la circondavano, nei passi intorno a lei, a centinaia; decine di scoppiettii sul selciato a scandire il ritmo serrato della vita che si aggirava fra casse di pesce e nasse abbandonate, tamburi di una guerra che da anni Elettra combatteva contro sé stessa.

E poi, finalmente, lo vide. Fu solo un breve incontrarsi, ma il tempismo fu impeccabile; nello stesso istante entrambi avevano rivolto lo sguardo nella direzione giusta, ritrovandosi l’uno di fronte all’altro pur nella folla di isolani e turisti. Lui era ai margini dello spiazzo seduto su un motorino, in compagnia di un amico, ma quel sorriso appena abbozzato e i capelli scompigliati dal mare bastarono a confermarle qualcosa contro cui si dibatteva da settimane.

Alchimia: non esisteva un’altra parola che spiegasse quel legame, il sentirsi, la fitta alla testa un momento prima che lui entrasse nella stanza in cui si trovava anche lei. Una parola che Lea aveva visto disegnarsi sul filo teso che legava i loro sguardi, e che avrebbe influenzato pesantemente il suo umor nero dei giorni a seguire.

Gelosia, dunque; Elettra non sapeva come altro spiegarsi il comportamento dell’amica, ma quando, dopo giorni, trovò la voglia e la forza di affrontarla, quando chiese a Lea se la ragione di quella improvvisa ostilità nei suoi confronti fosse stata dovuta a un sentimento che provava per Adrian, la ragazza negò con forza.

«Tu mi chiedi una cosa impossibile, perché le donne come me l’amore le ha sempre spezzate», aveva risposto Lea sibillina, guardandola dritto negli occhi un momento prima di inabissarsi di nuovo nel suo mondo di ampolle e decotti, lontano da lei e da tutto il resto.

Una risposta che aveva lasciato Elettra con più dubbi di quanti non se ne agitassero già nella sua testa; se quella era la sua posizione, però, Lea doveva sapere che lei non intendeva rinunciare all’amicizia di Adrian.

La sua vicinanza era preziosa, perché lui era una delle poche persone con cui poteva parlare liberamente e aveva il suo stesso umorismo; per cui non appena poté impastò una dose di focacce alle mele e con il cesto sottobraccio si avviò verso la sua casa. Da quando Adrian si era affacciato nella sua vita, Elettra sentiva ogni giorno più intenso il legame con la cucina, il piacere che scorreva sottopelle per il momento in cui lui avrebbe assaporato il frutto del suo lavoro.

“Era questo che provavi quando preparavi i miei piatti preferiti, quando cucinavi per i tuoi clienti? Era gioia quella che cercavi di trasmettermi, quell’amore che con le parole ti riusciva tanto difficile comunicarmi, mamma?” si era sorpresa a pensare in un dialogo immaginario con Edda mentre friggeva i soffici dischi di pasta fruttata, sulle labbra il sorriso per una complicità ritrovata, riconoscente per il dono che il convento le aveva fatto restituendole sua madre. «Era questa la ragione per cui mi volevi in panetteria con te? Affinché vedessi che si può essere felici nutrendo gli altri?» aveva sussurrato coprendo con un tovagliolo i dolci ancora fumanti, sorridente.

Avanzò a piccoli passi lungo il sentiero scosceso che collegava il convento alla spiaggia, fra cespugli disadorni di fiori e bacche, ormai strappati dall’autunno all’abbraccio dei rami, mentre il mare alla sua destra batteva i pugni contro la scogliera. Bussò più volte e con forza alla porta ma nessuno le rispose, una possibilità che ormai aveva messo in conto; spesso, infatti, Adrian era fuori a pesca o a cercare nelle isole vicine qualche lavoro che gli permettesse di metter qualcosa in tavola e pagare le bollette, perciò seguì la dritta che le aveva dato lui una volta: la chiave era sotto il vaso sulla finestra.

Fece scattare la serratura e si ritrovò di nuovo nella cucina spoglia nella quale solo qualche settimana prima aveva chiesto aiuto a Adrian, un tempo che le sembrò lontanissimo.

Posò il cestino sul tavolo, assi di ginepro logorate dall’uso e dal sale, e subito l’odore pungente della vernice le pizzicò le narici attirandola in spazi della casa in cui non era mai stata prima.

«C’è qualcuno?» ripeté a fugare il dubbio di non esser sola. Nessuno le rispose.

Lasciò la borsa sul tavolo insieme al cestino e, dopo un’ultima occhiata alla cucina, mosse il primo passo verso l’ignoto. Di fronte a lei una vecchia porta in legno macchiata di vernice bianca era aperta sul salotto, nel quale, fra pareti bianco latte, notò un divano turchese su cui era stata abbandonata una coperta ricamata dalle lunghe frange, e una pila di vecchie riviste a fungere da tavolino. Sulla parete opposta una porta chiusa, verniciata di un azzurro cielo che le ricordò le terse giornate di maestrale; era lì che immaginò nascondersi il segreto di Adrian e lì andò, Elettra, determinata a scoprirlo. Sapeva di non averne il diritto, ma non ne poteva più di segreti e bugie, e la vita al convento le aveva insegnato che non esisteva alcuna possibilità di svelare un mistero senza la determinazione a conquistarsi autonomamente il proprio pezzo di verità. Appoggiò cauta la mano sulla maniglia, ma non appena varcò la soglia della camera ebbe la sensazione di essere stata catapultata in un mondo parallelo: tutti i mobili erano stati accatastati in un angolo e coperti alla buona con un telo impolverato per fare spazio a una decina di busti femminili che ingombravano la stanza, materia viva incastonata in un guscio di pietra.

Il sole alto, poi, irrompeva prepotente nella stanza in cui erano state staccate le tende, invadendo l’interno con la luce violenta del giorno.

Elettra sgranò gli occhi, lo sguardo riverente che sfiorava appena le creazioni in divenire; non era mai entrata nello studio di un artista sino a quel momento, ma la sua presenza lì la faceva sentire una profanatrice, come se stesse derubando Adrian della sua creatività.

Calpestò il pavimento ingombro di sacchi, scalpelli e stracci abbandonati ovunque, quando un riflesso dorato catturò la sua attenzione e gli occhi corsero veloci verso un angolo della stanza. Si fece largo fra le carte che soffocavano quel tesoro misterioso, abbozzi di studi di mani e occhi di donna, e lì, abbandonata in un angolo, Elettra scorse una tela: ritraeva una barca nella tempesta, il piccolo ingegno umano contro la forza smisurata della natura che lo sovrastava.

Sollevò il dipinto da terra affascinata dalla pastosità dei colori a olio stesi con le dita, a rimarcare la tragicità di un abbandono lì su una riva sfigurata dalla mareggiata che aveva trascinato con sé tronchi e ciottoli colorati, ma non osò toccarla, perché il solo guardare quella barca con la fiancata scrostata e un remo spezzato appoggiato di fianco la riportava alle sue tempeste.

Posò la tela su un tavolo e continuò a sfogliare bozzetti e fogli sparsi, accarezzando con la punta delle dita i volti che lottavano contro la pietra per emergere. Una disperazione profonda aleggiava in quella stanza permeata dal senso opprimente della sconfitta, fantasmi di storie a metà e prigionie infinite. Ovunque Elettra posasse lo sguardo si sentiva circondare da un senso di perdita: la leggeva nei visi sconvolti intorno a lei, nella mano tesa verso un altrove sconosciuto, nel rollio disperato della barca strattonata dall’oceano, e tuttavia quella disperazione conviveva con la speranza di salvezza. La stessa voglia di vivere che aveva spinto lei a intraprendere quel viaggio.

Raggiunse in silenzio il centro della stanza e si strinse nelle braccia, nel tentativo di lenire le sofferenze che vibravano fra le pareti. Chiuse gli occhi per un istante, la testa che leggera ricadeva indietro mentre i polmoni si dissetavano di quelle storie. Inspirò il sapore gessoso della polvere, di quella pietra che a fatica conteneva la materia e quei volti di donne che si replicavano all’infinito.

I listelli del pavimento scricchiolarono sotto il peso di passi sapientemente confusi con la voce del vento, così da permettere a Adrian di raggiungerla indisturbato.

Era dietro di lei, e portava con sé il sapore del mare; i capelli spettinati profumavano della sabbia calda di mezzogiorno, i vestiti erano impregnati di quell’odore di sale e alghe ormai familiare. Rimase per qualche istante in disparte a osservare Elettra nel suo mondo finché lei, aperti gli occhi, non lo fissò piena d’imbarazzo, balbettando parole di scuse che tradivano una bugia.

«Allora hai dato un’occhiata. Spero ti piacciano.»

Elettra annuì e gli sorrise. «Sono lavori splendidi», rispose indicando il parterre di busti e bozzetti. «Sono tutte opere tue?»

«Esatto; loro sono tutte le mie donne.»

Elettra scosse la testa, soffermandosi sui ritratti femminili; a prima vista le era sembrata una galleria di volti diversi, donne ognuna con la sua storia da raccontare, con le sue rughe e i patimenti, ma a un’analisi più accurata notò che c’era qualcosa che legava tutte loro, un tratto comune. «È strano: più guardo questi volti e più mi sembra che appartengano tutti alla stessa donna.»

«Touché.»

«È la tua musa?» gli chiese decisa a scoprire il suo segreto, perché c’era qualcosa di taciuto e intenso nella dolcezza con cui Adrian fissava le sue creazioni, un sentimento molto più profondo degli strati millenari che avevano originato la materia che plasmava con il suo scalpello.

«Molto di più. Lei è mia madre.»

«Sul serio?»

«È morta quando avevo undici anni.»

«Mi dispiace.»

«Perché mai? Non vi conoscevate.»

Elettra abbassò lo sguardo, le mani impacciate che rincorrevano i fiori stampati sulla gonna. Le succedeva spesso con Adrian; quando il discorso diventava troppo personale lui si chiudeva dietro un sorriso da cui escludeva il mondo, una parete impossibile da scalare, liscia e altissima. Elettra però voleva cambiare le cose, fargli capire che di lei poteva fidarsi, che lo avrebbe ascoltato se solo si fosse deciso ad aprirsi. Si schiarì la voce, mentre la stanza si tuffava nell’ombra di una nuvola che sfidava il sole. «È lei a ispirarti?»

«Vuoi davvero parlarne?» Adrian sembrava sorpreso, ma gli bastò un’occhiata per capire che lei faceva sul serio. Sgombrò una sedia da un secchio pieno di pennelli e scalpelli di ogni dimensione e ci si sedette a cavalcioni, il mento appoggiato sulle braccia conserte. «Ho iniziato a scolpire il suo viso perché temevo di dimenticarlo», rispose con lo sguardo perso in un tempo distante, profumato di un senso di malinconica felicità che ancora batteva forte dentro di lui. «Sai, quando sei bambino tendi inconsciamente a selezionare i ricordi; so descriverti ogni particolare del mio primo giorno di scuola, ma nella testa non c’è più traccia della voce di mia madre. L’ho persa, perciò ho pensato che prima di dimenticarmi del tutto di lei avrei dovuto provare a catturare almeno il resto.»

«Non hai delle sue foto?»

Adrian deglutì, lo sguardo impenetrabile. «Preferirei non parlarne, se non ti dispiace.»

«Non mi dispiace», annuì lei. Si guardò intorno, sfregandosi le braccia; all’improvviso era a disagio lì dentro, fra le repliche di una donna scomparsa prima ancora che suo figlio potesse memorizzarne la voce. «A dire la verità ero passata per lasciarti un po’ di focacce alle mele. Le ho lasciate in cucina, credo tu le abbia viste.»

«No, sono entrato dal retro, senza passare dalla cucina.»

«Okay… be’, ora lo sai.»

«Sì, almeno posso ringraziarti.»

Elettra arrossì. «Non c’è bisogno; te le ho portate per tutto quello che hai fatto al convento, mi sembrava il minimo», disse vedendolo scomparire nel corridoio, da cui riemerse con il cestino appeso al braccio.

«Ho fatto solo il mio lavoro, ma sono molto felice che tu me le abbia portate: credo che le finirò tutte entro stasera», disse dando un colpetto all’intreccio di vimini.

«Non sono così tante, guarda bene; dentro ci sono anche dei regali da parte delle altre.»

Incuriosito, Adrian appoggiò il cestino sul tavolo e scostò il fazzoletto ricamato da Nicole a protezione del bottino di candele, infusi e barattoli di conserve, oltre al sacchetto delle focacce di Elettra che sprigionava nell’aria il profumo spensierato dello zucchero alla cannella. Rovistò a lungo, pescando dal cestino un vasetto con un’etichetta chiara. «Pesche e lavanda, eh? Sembra interessante, ma non vi libererete di me rimpinzandomi di marmellate», scherzò.

«No, almeno credo», rispose lei, disorientata; faticava sempre a seguire i cambi d’umore di Adrian, che sfiorandole la schiena con la mano la condusse in cucina. Prese dalla credenza gli stessi bicchieri opachi con la bottiglia di vino che le aveva offerto la prima volta, e lei questa volta accettò.

Adrian si riempì il bicchiere e sedette al tavolo, gli occhi fissi sui nodi del legno. «Mia madre si chiamava Anne Morel», iniziò a raccontare dopo un breve silenzio. Le pentole di rame appese ai ganci sopra di loro tintinnarono, mentre fuori il vento sollevava nuvole di polvere bianca. Da qualche parte un rumore di imposte sbattute, e il cigolio di cardini da oliare.

«Anne Morel», ripeté Elettra bevendo un sorso d’acqua; quel nome non le era nuovo.

«Era la prima moglie di Bernard Morel, mio padre. L’uomo che vuole comprare il convento», si affrettò ad aggiungere, precedendola.

Davanti a quella confessione Elettra quasi soffocò; il vino le andò di traverso, e iniziò a tossire. C’era per forza un errore. Doveva esserci. «Sei sicuro che sia lui? Non è un omonimo?»

«Vorrei, ma non è così.» Fece dondolare il bicchiere ormai vuoto fra le mani, fino a quando non urtò malamente contro il tavolo sbeccato. «Bernard è uno squalo, e dei peggiori. È stato capace di uccidere mia madre pur di sposare Elodie Laurent, la figlia del magnate degli alberghi di lusso.»

Si versò un altro bicchiere e un altro ancora, mentre Elettra se ne stava rinchiusa in un silenzio allarmato. Fissò Adrian con i suoi grandi occhi di giada, leggendo nell’impronta scarlatta del vino sul vetro tutto il suo rancore.

«Purtroppo per lui non è riuscito a liberarsi di me allo stesso modo. Dopo le seconde nozze mi ha portato a vivere con sé nella villa di Elodie, rimasta incinta mentre la terra sulla tomba di mia madre non si era ancora assestata, e lì sono rimasto fino a quando non ho levato le tende. Mi facevano schifo, lui e il suo ridicolo ménage», raccontò ingoiando l’ultimo sorso.

A Elettra, che aveva rincorso il fantasma di suo padre per tutta la vita, sembrò assurdo che Bernard avesse lasciato andare il proprio figlio. «Scusami, ma non capisco: tuo padre non ha tentato di fermarti?» chiese, ma lui si abbandonò a una risata amara.

«Scherzi? Finalmente mi ero tolto dai piedi; quel bastardo avrà stappato lo champagne.» Decine di rughe si disegnarono intorno alle sue labbra, intorno a uno sguardo che vagabondava inquieto fra pareti di colpo troppo strette. «Per lui deve essere stato un inferno convivere con me; io ero lo specchio dei suoi rimorsi, perciò quando gli ho detto che me ne andavo ha staccato un assegno e mi ha augurato buon viaggio.»

«E tu che hai fatto?»

«Quello che si fa in questi casi: ho girato il mondo», rispose stringendosi nelle spalle come se quella fosse l’unica risposta possibile. «Avevo bisogno di ritrovare pace e verità, perché dopo la morte di mia madre niente di quello in cui avevo creduto era più vero. Il mondo non era come me lo aveva raccontato, e nemmeno come avevo immaginato che fosse; lei mi aveva insegnato il significato di parole come lealtà e fedeltà, ma non c’era niente del genere nei baci che Bernard dava a Elodie, come se non ricordasse più quelli che aveva dato a mia madre. E io non lo accettavo; non potevo sopportare di vedere il suo ricordo calpestato, perciò mi dissi che se era questo ciò che il mondo aveva da offrirmi, me ne sarei inventato uno diverso, migliore», rimarcò con l’indice premuto sul tavolo mentre pennellate porpora gli coloravano gli zigomi.

Elettra lo ascoltava attenta, rapita dal suono altalenante della sua voce. Ricordare quei momenti era ancora molto doloroso, lo vedeva; lui continuava a far ruotare il bicchiere nelle mani, mentre il ginocchio scandiva nervoso minuti di un tempo che portava inciso sul cuore. Si schiarì la voce. «È stato allora che hai cominciato a disegnare?»

«Sì», rispose telegrafico. Si passò la mano fra i capelli e sulla barba. «All’inizio facevo acquerelli e qualche tela, ma quando ho scoperto la scultura mi sono fermato. Per anni ho girato il mondo con due soldi in tasca e la voglia di appartenere a un luogo, ma ogni posto in cui mi fermavo era quello sbagliato. Non so nemmeno io come spiegartelo, è una sensazione strana che mi trascino dietro da quando mi sono trasferito con Bernard da Elodie, e che non mi ha mollato fino a quando non sono approdato qui. L’isola mi piace, ci sto bene; mi sono adattato subito ai suoi ritmi, alla gente del posto. Avevo trovato una zona grigia in cui rimanere in attesa di un’altra marea, di un altro posto da visitare, ma poi è arrivato Bernard ed è cambiato tutto. Il passato è tornato, e con lui è tornata la rabbia, tutta quella che credevo di aver seppellito nel corso dei miei viaggi in giro per il mondo. Ma oggi non voglio più nascondermi; non gli permetterò di trattarvi come ha fatto con me e mia madre.»

«Mi stai dicendo che hai accettato il lavoro perché vuoi vendicarti di lui?» rilanciò Elettra.

«Forse all’inizio, ma ora le cose sono diverse. Mi sono trovato bene al convento, con voi; finalmente ho provato di nuovo la sensazione di far parte di qualcosa. Di farne parte davvero», spiegò sforzandosi di trovare le parole giuste.

«E di sentirti meno solo, immagino», concluse lei al suo posto.

Adrian inarcò le sopracciglia, impigliato nell’eco sorda di quelle parole; erano una condanna feroce, anche se pericolosamente vicina alla verità. «Una cosa del genere», ammise.

Lei e Adrian avevano pochissimo in comune, ma erano affetti dalla medesima solitudine. Elettra non faticava a immaginarlo camminare per le strade come lei, senza mai riuscire a mescolarsi con la gente, come se entrambi fossero portatori di un gene malato che impediva loro di stabilire un legame con la realtà. Ogni contatto causava dolore, angoscia, inquietudine; era stato così per Adrian, che vagabondava per il mondo armato del suo scalpello, e lo era per lei.

Le sue ragioni, del resto, erano tutte nel naufragio della sua ultima relazione; le era bastato chiedere di più per ritrovarsi da sola, ma riflettendoci un’ultima volta nella cucina spoglia di Adrian, fra trecce d’aglio e piastrelle blu cielo sbeccate, Elettra trovò il coraggio di guardare con lucidità alla fine della sua storia con Walter; era stata bellissima, piena di emozioni, ma poi era finita. E faceva male, a dispetto del tempo, di tutto il dolore che li aveva separati.

«Una focaccia per un sorriso?» le propose Adrian frugando nel cestino che gli aveva portato, da cui estrasse uno dei morbidi dischi di pasta e zucchero caramellato. «Voglio provare la teoria di tua madre di cui mi hai parlato la volta scorsa e vedere se anche queste sono magiche.»

Lei gli sorrise e prese la focaccina dalle sue dita callose, dividendola a metà. «Okay, ma non voglio tenere tutto l’incanto per me», disse restituendogliene un pezzo, a cui Adrian diede il primo morso.

«Divine», disse coprendosi la bocca, pronto per un secondo assalto.

Elettra stette a guardarlo, la testa appoggiata sul palmo della mano. Edda preparava sempre quelle focacce quando iniziava l’autunno per gustarle con lei, sedute sul divano insieme a una ciotolina di soffice crema chantilly. In quel momento, però, il pensiero di Edda era un granello di zucchero dentro di lei: dolcissimo ed evanescente. Doveva tornare al più presto in archivio, prendere altri registri del convento ed esaminarli; prima o poi sarebbe riuscita a trovare qualcosa, un nome, un numero. Non sapeva cosa aspettarsi o cercare di preciso, eppure era certa che lo avrebbe trovato in quella stanza.

Diede un altro morso alla focaccia, la mente già per le scale che conducevano alle stanze segrete, ma il profumo forte e speziato sprigionatosi nell’aria si diffuse come una scia velenosa a ricordo della sua storia naufragata.

«La mia ultima relazione è più o meno come questa focaccia», spiegò d’impulso rigirando fra le dita la sua metà. «Io sono l’impasto, la farina, lo zucchero e il resto, mentre lui è stato la spolverata finale di cannella. La focaccia non è la stessa se togli le spezie, ma è buona anche senza.»

«Tu però la preferisci con la cannella, suppongo.»

Elettra si strinse nelle spalle. «Ho scoperto che ci sono cose che mi piacciono di più.»

«Vale a dire?»

«Per molto tempo sono stati gli amaretti», rispose. «Ne adoravo la friabilità, la croccantezza.»

«Ma ne parli al passato», le fece notare Adrian.

«In effetti è così, quegli amaretti sono stati il mio dolce preferito fino all’adolescenza. Tutti gli anni obbligavo mia madre a cucinarli, ma mi lamentavo sempre perché non erano mai uguali a quelli preparati dalle madri dei miei compagni. Mi infuriavo con lei perché ogni volta ci metteva qualche spezia, oppure variava il rapporto tra zucchero e albumi rendendoli morbidi invece che croccanti. Solo anni dopo ho capito che stava cercando di farmi capire quello che non volevo sentire.»

«E poi è arrivata la cannella, giusto?»

«Già», rispose Elettra con un lungo sospiro, lo sguardo incollato all’anulare orfano del suo anello. «Lui è stato la spezia che ha dato brio a un impasto piatto; all’inizio è stato meraviglioso, ma il suo profumo è svanito in fretta. Troppo in fretta», precisò. «Ormai però è una storia chiusa», concluse.

Adrian si puntellò sui gomiti, sporgendosi verso di lei. «Non ti manca quel pizzico di cannella?»

Elettra lo guardò negli occhi; sembravano grandi lacrime scure, leggermente tese verso il basso, ma sapevano affondare senza sforzo dentro le sue ferite.

Distolse lo sguardo, a disagio, preferendo concentrarsi sulla focaccia divisa a metà; ne osservò l’impasto poroso, la sofficità, e quelle lentiggini brune sulla crosta. «Hai un fazzoletto?» chiese a Adrian, che glielo passò immediatamente.

Lei lo aprì sulle gambe, scrollò la cannella dal dolce e gli diede un morso. Masticò lentamente, assaporando ogni briciola; era saporita, con il giusto equilibrio fra zuccheri e lieviti come le focacce di Edda.

Era il dolce perfetto, quello che aveva cercato di replicare nell’ultimo anno della sua vita: solo allora capì che era mancato l’ingrediente segreto, ritrovato nella cucina del convento insieme a lei. La passione.

Mandò giù il boccone, sollevando lo sguardo su Adrian.

«Molto meglio senza», decretò con un sorriso a metà.