24.

I giorni volarono, in un crescendo di nervosismo.

Le giornate sull’isola si andavano accorciando mentre i malumori al convento non facevano che lievitare, come impasti fuori controllo. I lavori di ristrutturazione procedevano a rilento ed Elettra spendeva gran parte delle giornate in cucina per insegnare a Nicole i segreti della panificazione, sperando allo stesso tempo di riuscire a evitare Adrian.

Si sentiva in trappola ogni volta che lui intercettava il suo sguardo, e quando accadeva lei vedeva affiorare sulla pelle traditrice le prove della propria incoerenza; fuggiva da lui, eppure spesso si ritrovava a vagare per il convento in cerca del suo profumo. Le era capitato proprio la sera prima, dopo il tramonto; sapeva che lui era andato via, ma non era riuscita a resistere al bisogno di entrare nella stanza in cui aveva lavorato tutto il giorno, cercando nell’aria ispessita dalla vernice fresca le tracce del suo odore. Era lì, Elettra lo sentiva, avvolgente come un abbraccio, quello da cui suo malgrado continuava a fuggire.

Era consapevole che il suo atteggiamento non aveva niente di giusto, ma non poteva fare a meno di continuare a evitare Adrian. Avevano ancora molto da dirsi, anche se le scoperte sul passato di sua madre, sull’amore per quell’artista, Marte, che l’aveva messa incinta e poi abbandonata rinnegando qualsiasi tenerezza ci fosse stata fra loro, la faceva sentire immersa in una simmetria soffocante. Lei non aveva alcuna intenzione di ripercorrere la strada intrapresa da Edda, per questo lottava con tutte le sue forze contro il sentimento che sentiva crescere nei confronti di Adrian, perché quello era un sentiero dal quale sapeva di doversi tenere alla larga, ne andava della sua vita. E poi non era pronta a un confronto con lui, non ancora, perciò, piuttosto che affrontarlo, preferì tuffarsi nel ricettario di Edda sperimentando le preparazioni insieme a Nicole, la cui nuova abilità la lasciava ogni volta sbalordita.

«Le ricette devi avercele qua dentro, non sulla carta», le ripeteva sempre sua madre premendosi l’indice contro la tempia. «La cucina non si scrive ma si sente, e la carta non ti servirà a un bel niente se non sai usare queste», la rimproverava mostrandole le mani già segnate dall’artrosi, il mostro che aveva finito per divorarle. Ma adesso, dopo anni di finte partenze e silenzi, aveva trovato nientemeno che il primo ricettario di Edda, scampato al fuoco e rinvenuto nel vecchio forno del convento; un regalo piovuto direttamente da un passato magico, in cui Elettra cercava affannosamente la madre. Tutto quello che desiderava era tenerla con sé ancora un po’, il tempo necessario perché fra loro si ricucisse lo strappo e tornasse il sereno. O forse, se solo avesse avuto il coraggio di ammetterlo, per sempre, per avere un pezzo di lei che nessuno avrebbe mai potuto toglierle. Nessuno, nemmeno il passato.

«Che prepari di buono oggi?»

Elettra richiuse con un tonfo il quaderno e sollevò lo sguardo verso il soffitto ancora sporco di cenere, masticando una parola velenosa. Per una volta che non aveva in mente lui, Adrian aveva pensato bene di materializzarsi in cucina!

«Il pane di Ognissanti», rispose secca. Fece il giro del tavolo spazzando via le briciole. Voleva mettersi a fare una cosa qualsiasi, ma tutto quello che le serviva per impastare si trovava dalla parte di Adrian. Oltre la trincea scavata dal suo orgoglio. “Magnifico”, pensò con la fronte stropicciata da una ruga, ancora imbarazzata dal fantasma del bacio che si erano scambiati.

«Pane di Ognissanti», le fece eco Adrian girandole intorno, incuriosito dalle ciotole che lei andava riunendo sul tavolo. «Il pane dei santi», continuò sotto lo sguardo di Elettra, che pur concentrata sulla ricetta non perdeva nemmeno un suo battito di ciglia. «Che c’è dentro?»

Lei incrociò le braccia e inspirò a fondo. Quello era il suo campo, tra zucchero e farina era al sicuro almeno quanto con una penna in mano, ma parlare non era mai stato il suo forte. Allargò le braccia a indicare la fitta sequenza di ingredienti riuniti sul tavolo, sperando quasi che quelli potessero parlare per lei. Adrian, però, voleva sentire la sua voce.

«Frutta secca e mosto cotto. Come puoi vedere, del resto», rispose controvoglia.

«È una ricetta di tua madre?»

Lei raddrizzò la schiena, la mano appoggiata sul fianco. «Che cosa te lo fa credere?»

«Be’», tentennò lui infilandosi le mani in tasca, «visto che abbiamo trovato quel ricettario, vorrai cimentarti... Del resto ne hai le capacità. Credo tu abbia ereditato parecchio da tua madre», disse sorridendo della confusione di Elettra, mentre lei puliva il tavolo dai resti della farina.

Detestava ammetterlo, ma trovava intrigante il suo modo di fare, le fossette intorno alla bocca quando sorrideva. E quegli occhi che ogni volta la inchiodavano. “Esattamente quello di cui non hai bisogno, Elettra”, si rimproverò sciacquandosi le dita.

«In effetti è una ricetta di mia madre», ammise asciugando le mani olivastre nello strofinaccio.

Le mancava, Edda, terribilmente: spesso la notte restava sveglia nello sforzo di ricordare com’era la vita con lei e come sarebbe stata se la madre fosse rimasta sull’isola invece di scappare, una domanda che spesso la sua mente le porgeva nel buio della cella, quando la vita nel convento sembrava addormentata.

“Tutto più semplice”, era la risposta che si dava ogni volta, fantasticando di impastare quello stesso pane insieme a Lea, anche lei bambina, mentre Edda sorvegliava che non combinassero disastri e distribuiva loro manciate di confettini colorati da spargere sulla glassa di quel pane scuro profumato d’autunno; se sua madre fosse rimasta al convento, avrebbe avuto un’amica con cui giocare e condividere tutto. Prese una manciata di farina e la distribuì a pioggia sulla spianatoia, mentre lo sciroppo al mosto si intiepidiva sul fuoco. Sarebbe stato emozionante, pensò, per lei che aveva sempre vissuto sotto la sorveglianza materna; con Lea avrebbe avuto l’infanzia che si era ritrovata a sognare da adulta, e magari anche quel padre che aveva cercato per anni, tra gli uomini in attesa nel cortile della scuola al suono della campanella.

Scosse la testa con la mano premuta sulla fronte a tamponare quella ferita, sempre la stessa, ma non appena vide Adrian rovistare nella sua malinconia gli voltò le spalle.

«Cos’hai?»

«Niente, che cosa dovrei avere?»

«Non lo so, dimmelo tu. Se non mi vuoi fra i piedi basta dirlo, ma non tenermi il muso.»

«Stupidaggini», borbottò lei. Afferrò dal pensile un paio di barattoli di spezie, più veloce del solito, mentre ripassava al volo la ricetta. “Anice, cannella e chiodi di garofano”, si ripeté come una cantilena.

«Okay, messaggio ricevuto», si arrese lui. Fece per andarsene, ma una volta sulla soglia si bloccò, la testa che ciondolava fra le spalle. Picchiettò con la punta della scarpa sul pavimento, poi fece il giro del tavolo e si mise dietro di lei, le mani in tasca. «È per il bacio, vero? Perché sono sparito?»

Il viso di Elettra si aprì a un sorriso sfuggente, mentre le dita scorrevano in automatico le etichette sui barattoli. «Figurati», rispose distratta.

«Se è per questo, posso spiegarti.»

«Voi artisti siete fatti così, non devi spiegarmi proprio niente.»

«Voi artisti?» ripeté lui, disorientato. «Elettra, ma che stai dicendo?»

Lei sbuffò. Non aveva alcuna voglia di parlare di Marte, di sua madre e di quella vita a specchio in cui si sentiva intrappolata, ma Adrian non sembrava intenzionato a mollare la presa.

«La verità», gli rispose, ma lui continuò a tenere in ostaggio i suoi occhi, come sempre, per cui Elettra si pulì le mani nello strofinaccio ed espirò rumorosamente. «Vuoi sapere tutta la storia, immagino.»

Adrian si guardò intorno, spaesato. «Lo gradirei molto, perché a essere sincero non capisco cosa tu stia dicendo. Di quale storia parli?»

«Della mia, Adrian. La mia e quella di mia madre, di questo posto», disse indicando le pareti bianche e dando così inizio al suo racconto. Le parole fluirono spontanee ma vigliacche; pur di non sollevare lo sguardo, Elettra si sforzò di concentrarsi sulla ricetta che stava per realizzare, a testa bassa, stringendo le palpebre quando l’emozione diventava troppo intensa, ma non appena trovò il coraggio di guardare Adrian negli occhi lesse nei suoi stupore misto a dispiacere, e sentì nell’animo quel che più temeva: in fondo lui era come suo padre, il suo comportamento lo provava. Si era dimostrato inaffidabile nei suoi confronti, con le sue continue sparizioni, e lei non aveva intenzione di fare la fine di sua madre. E soprattutto desiderava cucinare, smettere di parlare.

«Eccoti la verità», concluse scostando una ciocca dalla fronte. Avrebbe voluto prendere tutti gli ingredienti e cominciare a lavorare, lasciare le mani libere di andare, di stancarsi, concentrata solo sui pani e i dolci per la festa, ma il pensiero di Adrian e il vederlo lì, con l’odore della sua pelle inchiodato nella mente a ricordarle quello che non poteva permettersi, era una tortura che sentiva di non meritare. Il ricordo di quel bacio, del sapore che avevano le sue labbra e delle braccia che l’avevano stretta come non credeva più possibile, poi, era insostenibile per i suoi nervi. «A ogni modo siamo adulti, non due quattordicenni. È stato solo un bacio, non mi sembra il caso di farne una tragedia.»

«Solo un bacio», le fece eco lui. D’un tratto la sua voce era diventata ruvida, Elettra riusciva a percepirne le sfumature pungenti come zafferano. Accarezzò cauta il vetro panciuto di un barattolo, sprofondando la testa fra le spalle.

«Esatto. Solo un bacio», ribadì. Lo aveva detto; ci aveva girato intorno per giorni, ma quando meno se lo sarebbe aspettato la verità era rotolata fuori dalle labbra.

Alle sue parole seguì un silenzio di pietra, rotto dai soliti rumori del convento: il gocciare ininterrotto dell’acqua nelle tubazioni arrugginite, il rumore di passi che si trascinavano al piano superiore e quello della zappa con cui Dominique stava liberando l’orto dalle erbacce. Due piani sopra di lei, poi, riposava la madre di Lea, caduta in uno stato soporoso dalla notte dell’incendio, mentre dalla piccola finestra ricavata nel muro si affacciava il blu intenso del mare. Tante volte, in quei giorni, Elettra era scesa in spiaggia, una piccola baia riparata cui si arrivava camminando per venti minuti su un sentiero tracciato fra i cespugli di lentisco. Se ne stava lì per ore con le ginocchia premute contro il petto, seduta su uno scoglio granitico a guardare il mare scavare nella pietra, in ascolto del gorgoglio risentito della marea; da quando Isabelle le aveva raccontato dell’estate del 1952, le correnti avevano invaso anche il suo corpo, disegnandole nell’anima il profilo di una costa frastagliata e scogli appuntiti in cui, come nella baia, malgrado le asperità del suolo, sbocciavano ostinati piccoli fiori gialli. Crescevano anche dentro di lei, che invece non voleva vederli.

«Immagino che ora ti senta una donna realizzata. Hai ottenuto quello che volevi senza dovere niente a nessuno, perché niente ti tocca davvero. Complimenti, bel lavoro.»

«Ma che dici?» sbottò lei chiudendo il pensile con una spinta, le guance in fiamme. Il tono di Adrian non le piaceva affatto, ma a giudicare dallo sguardo arrabbiato che le aveva rivolto non sembrava intenzionato a ritrattare.

«Perché, vorresti dirmi che non è così?» rilanciò lui. Le mani che tanto le piacevano se ne stavano nascoste nelle tasche dei jeans, strette in due pugni. «Ti sono servito per toglierti dalla testa il tuo ex, e ora che ci sei riuscita… be’, ora puoi anche sbarazzarti di me, giusto?»

Elettra puntò lo sguardo oltre le sue spalle, sbalordita. Attorcigliò fra le dita il canovaccio sporco di farina, e lo lasciò cadere sul tavolo. «Non è così che stanno le cose, e non è semplice», si difese, in affanno, mentre lo sguardo di Adrian andava scavando in quello che lei non riusciva a dire.

I loro occhi erano legati con un doppio nodo, che la attirava verso di lui.

«Se ho frainteso, spiegami perché mi eviti, perché ti comporti come se tra noi non fosse successo niente.» Le si avvicinò, ma quando vide Elettra indietreggiare rimase dov’era. «E se è vero che mi sbaglio, allora dimmi cosa dovrei pensare di tutta questa faccenda, se non che c’entrano quel maledetto bacio e il tuo ex.» La voce gorgogliava rabbia, reclamando risposte che lei non aveva.

Elettra si guardò intorno, con il fiato corto. Rovistò in ogni angolo del suo inconscio in cerca delle parole giuste, poi ne afferrò una manciata e le lanciò oltre la trincea carnosa delle labbra. «Non è per Walter», farfugliò, «e non è per te.» Tenne la mano chiusa contro il petto, cercando di dominare respiri sempre più spinosi. Era difficile parlare avendo di fronte un uomo che le chiedeva qualcosa che lei aveva cercato a lungo, perché tante volte durante le passeggiate solitarie per il convento aveva rimpianto di aver conosciuto Adrian solo quell’estate; sarebbe bastato che le loro vite si fossero sfiorate qualche anno prima e tutto sarebbe stato diverso, più facile. Un incastro perfetto.

Ma non era andata così, ed era impossibile tornare indietro. L’ictus di Edda e le sue conseguenze l’avevano trasformata in una donna stanca e disillusa, acuendo le tante spigolosità del suo carattere, ma quella era la vita, la sua soltanto, e non poteva fare altro che stare al gioco.

«Io non posso cambiare quello che sono diventata, e tu non puoi farci niente.»

«Questo non puoi saperlo.»

«Invece sì», ribatté. «Forse avrei potuto essere una persona diversa se mia madre non avesse avuto quel maledetto ictus e io non mi fossi dovuta occupare della panetteria invece che pensare a cosa volevo fare della mia vita, ma le cose sono andate diversamente da quello che speravo, che sognavo. Tutto è andato in modo diverso», rimarcò abbracciando esausta con un gesto l’intera stanza. Stava rivangando qualcosa che si era ripromessa di mettere da parte, e che una volta emerso avrebbe creato solo disastri.

Adrian però voleva sapere; bene, lo avrebbe servito. «Tu non hai idea di chi fossi prima né di cosa sia ora, perciò non dirmi che sono ancora in tempo per diventare una persona migliore, perché il tempo è la sola cosa che non ho.» Si appoggiò al tavolo, mentre il dorso della mano premeva contro le labbra. Voleva smetterla di parlare, di pensare, di combattere. Tutto quello che desiderava era un attimo di tregua dagli occhi di Adrian, solo un po’ di pace.

«Quello che dici non ha senso.»

«Sì che ce l’ha», replicò fiacca, ma lui fece spallucce.

«Ti stai raccontando un mucchio di bugie per non guardare in faccia la realtà.»

«Perché invece tu la conosci, la realtà? Sai talmente tante cose di me da poter giudicare la mia vita?» scattò. Ne aveva abbastanza di quella pressione; era confusa, impaurita, ma aveva la sensazione che a lei non fosse concesso esserlo. Si liberò la fronte da una ciocca di capelli, furiosa. «Tu non sai che cosa è stata la mia vita negli ultimi anni, e non hai la minima idea di quello che ho passato da quando sono arrivata qui.»

«Hai ragione», annuì lui, un tono sopra la cordialità. «Io non ho idea di quello che hai passato, perciò raccontamelo. Ti sto dicendo che voglio sapere, che sono qui per questo, ma tu sei così ossessionata dai tuoi drammi da non voler sentire. Tu non ascolti niente oltre te stessa. E non ascolti me», concluse picchiandosi l’indice contro il petto mentre lei scuoteva la testa.

Adrian si ostinava a non capire; non capiva che lei non voleva affrontare l’argomento, e che scalciava alla sola idea di farsi trascinare in quella discussione. Era sicura che continuando su quella strada prima o poi uno dei due si sarebbe fatto male, ed era convinta che sarebbe stata lei; quella scena faceva parte di un film che sua madre aveva già vissuto.

Alzò gli occhi su di lui, che la fissava a braccia conserte; era tardi per fare marcia indietro.

«Vuoi sapere com’è la mia vita? Lo vuoi sapere davvero, Adrian?»

Lui la guardò dritto negli occhi. «Sono qui per questo.»

Elettra si morse il labbro, mentre il cuore suonava una musica che la frastornava. Nella mente prendevano corpo le figure di Edda, Joséphine e Marte, e poi ancora la panetteria, l’infanzia e l’ictus che aveva stravolto tutto.

«Un inferno», rispose a denti stretti. «Tu non sai cosa significhi svegliarsi ogni maledetto giorno senza la minima idea di cosa farai domani, dato che la tua vita e la tua famiglia, o meglio tua madre, sono andati in pezzi. Tu non sai quanto sia frustrante combattere contro il senso di fallimento, né quanto la possibilità di non riuscire a rimettermi in carreggiata mi terrorizzi.» Gli occhi si riempirono di lacrime, che piovvero sulla curva sporgente del seno. «E non sai quanto mi costi accettare il passato di mia madre», ribadì con il pugno chiuso sul petto a scandire il tempo di un’emozione crudele. Lo aveva detto, finalmente; aveva trovato il coraggio di ammettere che il ricordo dell’estate del 1952 la schiacciava, che era furiosa con Edda per averle portato via suo padre e con Marte per aver preferito a sua madre un’altra donna, lasciando Edda a fare i conti con un amore che non aveva saputo gestire. Sentimenti contrastanti che la facevano sentire spezzata, in guerra con sé stessa.

«Tutto quello che sognavo era una vita normale, come gli altri; immaginavo le mie giornate finire rileggendo l’articolo da mandare in stampa con una tazza di tè e la coda di un labrador che picchiava sulle gambe, in attesa che mio marito tornasse dal lavoro. Gli avrei preparato la cena, una buona cena, o magari saremmo andati fuori. Fantasticavo di fare una telefonata a mia madre e di qualche pranzo domenicale da lei, di tanto in tanto. Era questo che volevo, niente di più; uno spettacolo a teatro, magari un viaggio, qualche serata spensierata con gli amici. Un figlio sì ma non subito, magari dopo qualche anno, e invece non ho avuto un bel niente, perché da un giorno all’altro mi sono ritrovata in un incubo; prima mia madre, poi la panetteria. Ma va bene», disse con le mani alzate, indietreggiando, «sono abbastanza grande per accettare che le cose non vanno sempre come desideriamo, e so che posso superare tutto, per quanto complicato possa essere, però è inutile fingere che questo non mi abbia cambiato. La ragazza che sognava le serate a teatro se n’è andata da un pezzo, e non tornerà.»

«Parli come se non avessi altra scelta che trasformarti in qualcosa che non sei.»

«Forse è così, non lo so», rispose. «A ogni modo non ho intenzione di tornare indietro, non avrebbe senso. Preferisco concentrarmi sul futuro, sulla vita che ho adesso e cercare di migliorarla, ma il tempo delle grandi speranze è finito. Tutto quello che ho vissuto mi è rimasto dentro, e non è qualcosa che si cancella, non è come cambiare canale. Io non funziono così.» Finì con l’indice premuto contro il petto, gli occhi annebbiati da una fragilità improvvisa. Stava guardando Adrian, eppure non lo vedeva; di fronte aveva solo la mappa confusa della sua vita, e il caos degli ultimi mesi cui stava faticosamente cercando di trovare un senso.

Quando si vide prendere le mani, però, sentì lo stomaco torcersi come uno straccio bagnato.

«Io non sono Walter, e non ho intenzione di ferirti.»

«Tu non vuoi capire», ribatté lei. «Ci sono tante cose che non sai di me», continuò masticando un sorriso amaro. Scosse la testa e si schermì, le mani sollevate a imporre una distanza che le permettesse di respirare. «Non sei tu», sussurrò. Unì i palmi, le punte dei polpastrelli a sigillare le labbra.

Un minuto. Le servivano solo sessanta secondi per racimolare il coraggio.

«E allora cosa?» le chiese Adrian, confuso.

«Il problema sono io e tutto quello che ho perso, mia madre e i suoi segreti», ammise fiacca. «Ho troppe cose da recuperare e tante ancora da capire, al momento non c’è spazio per altro. E dubito che ce ne sarà ancora per parecchio tempo», aggiunse con il palmo appoggiato sul vestito, in ascolto del suo cuore arrabbiato. Si ribellava, scalciava, ma Elettra rimase impassibile. Era quella la decisione migliore, la sola possibile per lei; Adrian rappresentava un passato dal quale doveva affrancarsi, una vita che in fondo non le era mai appartenuta, per quanto la desiderasse. Lei la voleva, sì, voleva Adrian e una vita con lui, ma sapeva che lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento avrebbe riportato indietro le lancette del tempo, a un’estate terribile.

Un errore che non poteva permettersi.

Rimase con i piedi piantati sul pavimento, immobile, senza fiatare; si aspettava qualcosa, una reazione qualsiasi. Le sarebbe bastata una parola, una soltanto, purché facesse a pezzi la cortina di silenzi fra loro.

«D’accordo.»

Adrian lo disse a voce alta, come se lui per primo avesse bisogno della certezza di quanto si era detto. Poi rimise le mani in tasca e si avviò alla porta, con la sola compagnia dei suoi passi.

Elettra lo guardò allontanarsi, senza la forza di parlare ancora. Notò solo che camminava chinato in avanti, come se portasse tutta la vita sulle spalle.

«Allora, che si cucina oggi?»

Quelle cinque parole si arrampicarono su per la sua spina dorsale con l’irruenza di una scossa.

Le mani si spalancarono in cerca di un appiglio, mentre lo sguardo sereno di Nicole irradiava le pareti della cucina di nuova luce. «Ehi, va tutto bene?» Lanciò un’occhiata allarmata al volto teso di Elettra, un rebus di stupore e irritazione. «Ho fatto tardi perché mi sono trattenuta in cappella un po’ più del solito», si scusò.

Non capiva che cosa fosse venuta a fare Nicole, perché proprio in quel momento, e improvvisamente si ricordò della sera prima, quando le aveva promesso di insegnarle qualche ricetta. Indossò un sorriso di circostanza e afferrò il pentolino in cui aveva scaldato un liquido pastoso, indicando a Nicole un paio di ciotole accanto a lei. Aveva un secondo lotto di pane di Ognissanti da preparare, gli ingredienti erano quasi tutti sul tavolo.

«Vieni, iniziamo», disse avvicinandosi al piano di lavoro.

Pestò i chiodi di garofano nel mortaio e li versò insieme alle altre spezie in una ciotola più grande, poi aggiunse la farina e un pizzico di sale, unendo in ultimo la scorza d’arancia grattugiata che scivolò controvoglia dal piattino.

Nicole, al suo fianco, le passava gli ingredienti. «Che cosa stai preparando?»

«Non avere fretta.» Elettra fece roteare nel pentolino il mosto, che subito sprigionò l’odore denso e vagamente alcolico della frutta fermentata al sole.

«Adesso che si fa?» le domandò poco dopo Nicole accennando alle pagnotte appena formate, mentre lei controllava quelle che aveva messo a lievitare in precedenza.

“Che abbia sbagliato tutto?” si domandò lei prima di incontrare con il sorriso angelico di Nicole.

«Adesso aspettiamo», disse. «Aspettare è la sola cosa che possiamo fare», aggiunse coprendo i pani.