13.

L’estate abbandonò l’isola in un giorno, all’improvviso, nascondendo il sole dietro un velo di bruma impalpabile. L’intero paese scolorì nel riflesso d’acciaio delle nuvole, e le sedie di paglia sparirono dalle poche vie abitate insieme a gatti e biciclette. Solo gli anziani, la memoria dell’isola, rimasero fuori a curare giardini e fazzoletti di terra strappati al mare da cui ricavare di che vivere, mentre i giochi disegnati in terra dai piccoli turisti che avevano animato le strade con il gesso bianco sbiadivano sotto i colpi dei primi temporali.

La zona del porto, tuttavia, non era la sola a risentire dell’aria ogni giorno più pungente; anche i sentieri bruciati dal sole in cui Elettra amava perdersi per pensare a Edda si trasformarono presto in rivoli fangosi.

La cucina e il ricettario di sua madre, perciò, rimasero il suo unico rifugio.

Da quando il quaderno di ricette di Edda era comparso nella sua vita, Elettra non faceva altro che impastare, infornare e glassare, quasi quelle pagine fitte di appunti e macchie le avessero restituito una passione che credeva sopita, che era convinta fosse stata lavata via dal suo sangue molto tempo fa. Ma si sbagliava.

Si sbagliava perché nel seguire le indicazioni materne ritrovava la voce di Edda, percepiva ancora sulla pelle il profumo caldo del suo respiro, quasi avvertisse la sua presenza accanto a lei.

Tutto nel convento, del resto, le parlava di lei. Le capitava sempre più spesso di girare in giardino da sola, per pensare, soprattutto quando discuteva per ogni piccola cosa con Lea. Da quando Adrian ed Elettra avevano scoperto il quaderno di Edda, infatti, era diventato impossibile per lei parlarle. Lea aveva preso a comportarsi in modo strano nei suoi riguardi: da un giorno all’altro era diventata più fredda, a volte scostante, mentre quando era con le altre o in compagnia di Adrian sembrava essere la donna gentile di sempre.

Un giorno, dopo l’ennesima discussione con Lea, Elettra aveva cercato riparo dagli affanni della mente sotto la chioma folta del melo selvatico in fondo al giardino, e lì, con la testa appoggiata sul tronco profumato di erba e umidità, aveva notato un solco sulla corteccia. Gli aveva concesso appena un’occhiata, indispettita dalle parole che ancora scintillavano elettriche nella mente, ma quando aveva messo a fuoco il significato delle lettere incise con un coltello decenni prima di lei, per un secondo il cuore aveva sospeso i battiti.

Il nome leggibile sul tronco era quello di sua madre.

Anche Edda in un tempo indefinito si era seduta sotto quel melo, anche lei, magari, aveva avuto una brutta giornata come la sua, o piuttosto una discussione con la persona di cui era stato cancellato il nome.

“Non siamo mai state tanto vicine come ora”, pensava qualche giorno dopo accarezzando la copertina del quaderno, in attesa del buio che poteva nasconderla agli occhi del mondo durante sue ricerche. Non si sarebbe fermata al primo tentativo fallito e, anzi, l’incontro notturno con Isabelle aveva aumentato ancora di più i suoi sospetti. Quella zona del convento, quelle stanze nascondevano qualcosa.

Quando il sole cedette il passo all’oscurità, infatti, Elettra si avventurò nel corridoio deserto, in sottofondo solo il gocciare della grondaia. Mise un piede avanti all’altro, lentamente, trattenendo il respiro ogni volta che superava la cella di una delle sue amiche, e pregò che almeno per quella notte Lea non fosse vittima dell’insonnia.

Estrasse con una pinzetta la forcina spezzatasi nella serratura quando aveva soccorso Isabelle, inserendone subito dopo una nuova. Con un movimento rapido fece scattare il chiavistello, ignorando il sudore che le colava lungo la fronte, ma nel momento in cui la porta si aprì sentì tutto il suo sangue freddo venire meno, e le ginocchia piegarsi dal sollievo.

Prese dalla tasca della vestaglia una candela, che illuminò di luce vellutata anni di abbandono. Finalmente un po’ di fortuna: aveva trovato subito l’archivio. Era una stanza di piccole dimensioni, stipata di carte; c’erano registri ovunque, compilati con una grafia elegante che sembrava appartenere a un secolo lontanissimo sebbene risalisse a poco più di settant’anni prima, e centinaia di libri a formare torri impolverate. Il piano della scrivania era completamente sommerso dai fogli; documenti e pacchi di corrispondenza erano ovunque, tanto da rendere difficile persino camminare in quel labirinto, ed Elettra si sentì assalire dallo sconforto: trovare informazioni su Edda non sarebbe stato affatto semplice, e di sicuro avrebbe richiesto più di una notte di ricerca.

“Perché diavolo Lea ha voluto nascondere un caos simile?” pensò reprimendo uno starnuto. “Se voglio capirci qualcosa sarà meglio prendere un po’ di registri alla volta, così da non destare sospetti”, si disse. Prese i primi tomi che le capitarono a tiro, volumi enormi che avrebbe potuto nascondere solo sopra il suo armadio, lì dove sapeva che nessuna avrebbe potuto trovarli nemmeno durante le pulizie, e li portò nella sua cella. Li lasciò cadere sulla coperta, accese la luce e iniziò a sfogliarli; al loro interno colonne piene di nomi, con date e cifre scritte a margine.

“La dote che le famiglie versavano al convento per provvedere alle loro figlie, mi sembra di capire”, ipotizzò Elettra notando quanto le donazioni fossero diverse tra loro. C’era chi aveva affidato grandi ricchezze nelle mani della badessa di allora; alcuni avevano donato addirittura proprietà terriere, altri invece si erano limitati a offrire qualche capo di bestiame, che Elettra immaginò rappresentare tutti i loro averi.

«Vediamo dove sei», sussurrò cercando fra quelle colonne il nome di sua madre. Esaminò gran parte dei registri che aveva portato con sé, ma lì non c’era traccia di Edda. Nessun nome noto, non un dato da cui partire. Richiuse l’ultimo tomo con un tonfo, piantando il gomito sulla copertina. Presto avrebbe dovuto prendere altri volumi e cercare ancora, ma doveva fare in fretta, perché il tempo che poteva concedersi di passare sull’isola si andava assottigliando.

Ancora qualche settimana e non sarebbe rimasto molto del chiostro fiorito che Nicole curava con devozione; presto avrebbero raccolto le ultime pesche, trasformato le prugne in marmellata e messo sotto spirito i fichi neri con cui Dominique si sfamava durante i suoi pranzi solitari, per fare scorta di cibo in vista della stagione fredda.

La mattina dopo a Elettra sembrò che l’aria avesse lo stesso sapore della zuppa ai funghi che sobbolliva sul fuoco, un sapore che le ricordava le domeniche d’autunno in cui andava con Edda e la famiglia di Esther a coglierli nei boschi intorno alla città. Tornava da quelle avventure sporca di fango fino alle ginocchia e affamata, ma ricordava con nostalgia il sapore di aglio e rosmarino delle zuppe di Edda e la sua voce che le ripeteva di non lasciare l’aglio nel piatto, perché faceva bene al cuore. Come se quegli spicchi carnosi fossero amuleti per combattere ogni male.

«Cosa ti hanno fatto, mamma, per spingerti a fuggire da qui e tenermi nascosta la verità per tutti questi anni?» chiese a sé stessa ad alta voce senza accorgersene.

«Cosa fai, parli da sola?»

«Santo cielo, Adrian!» strillò. «Ma tu salti fuori sempre all’improvviso?»

«Quando meno te lo aspetti, altrimenti non c’è gusto», ridacchiò lui.

«Molto divertente.»

Una saetta dorata si piantò nel mare, liberando radici elettriche sull’acqua. Il rumore della pioggia che picchiava sulla grondaia sembrava la turbina di un jet.

«Allora, mi fai entrare o speri che mi venga un colpo?» Adrian la guardò dritto negli occhi, facendosi scudo dalla pioggia con la camicia tirata sulla testa.

«Vieni, almeno qui starai al caldo.»

Uno scalpiccio di passi umidi sul pavimento, e subito lui si avvicinò al fuoco a braccia tese. «Questa maledetta pioggia mi ha preso alla sprovvista; avevo detto a Lea che sarei passato per finire di sistemare il tetto, ma non ho fatto in tempo ad arrivare che ha cominciato a diluviare.»

«Che vuoi farci, ormai l’estate è agli sgoccioli; non possiamo più aspettarci solo giornate di sole.»

«D’accordo, ma questa fine estate è a dir poco folle; non ricordo un settembre così piovoso da secoli!» protestò mentre piccole pozze d’acqua si andavano allargando intorno alle scarpe.

«Ben ti sta; così impari a spaventarmi», scherzò guardando la camicia gocciolante che teneva ostinatamente indosso nonostante i brividi che cercava di nasconderle, e gli fece cenno di toglierla.

«Scusa?»

«Togliti la camicia», insistette, ma di fronte alla sua ritrosia puntò i pugni sui fianchi e gli rivolse un sorriso malizioso. «Ho già visto un uomo anche con meno vestiti addosso di quanti ne abbia tu ora, perciò se mi passi la camicia la metto vicino al forno ad asciugare. Se invece preferisci tenerla e recitare la parte dell’uomo tutto d’un pezzo, fa’ pure.»

«Ma lo sono!» si difese lui sfilandosela. La arrotolò nel palmo e gliela passò, puntando il dito contro di lei. «Sei tu che stai cercando di corrompermi.»

La pioggia sottile intorno al convento si era trasformata a poco a poco in una parete grigia, una quinta dietro cui si nascondeva la risata spensierata di Elettra. «Smettila di dire stupidaggini e renditi utile, piuttosto.»

«Questo è schiavismo, signorina Cavani.»

Elettra lanciò un’occhiata alla cassetta di mele ammaccate dalla grandine che le aveva consegnato Dominique un paio di giorni prima; sarebbe stato impossibile venderle, ed era stufa di riempire barattoli di conserve. Ne prese una per saggiarne le rotondità imprecise, inspirandone il profumo di terra bagnata e vaniglia.

«Ti piace la torta di mele?»

«È uno dei miei dolci preferiti, perché?»

«Inizia a montare la panna, allora; se ne vuoi una fetta, dovrai prima preparare il burro», rispose facendo scivolare una frusta e una ciotola di panna verso Adrian, che si grattò il mento, dubbioso.

«Ti avverto: so distinguere a malapena un’omelette da un uovo sodo.»

Elettra, alle prese con ciotole e ingredienti, si affacciò per un istante dalla dispensa. «Per ora non servono grandi abilità; basterà che tu sappia distinguere una massa solida da una liquida. Io nel frattempo prendo il necessario.»

«Questa non mi sembra una ripartizione equa del lavoro.»

«Non ho detto che lo sarebbe stata», ribatté Elettra chiudendo l’anta con un colpetto del fianco. Lavorò uova e zucchero e lentamente incorporò la farina setacciata senza mai perdere di vista Adrian, e quando vide che la panna iniziava a rassodarsi si pulì le mani e bagnò un panno pulito, avvicinandosi a lui. «Adesso prendi il burro e scolalo dal latticello», disse guidando la sua mano sul panetto. Il tocco di Elettra era umido ma fermo, e la sua vicinanza emanava un bouquet di aromi speziati che lo confuse. Il burro gli scivolò dal panno, ma lei lo recuperò prima che ricadesse nella ciotola. «Non avere fretta», lo rassicurò, parlando sottovoce, ma si ritrovò più vicina a lui di quanto desiderasse; riusciva quasi a vedere la pupilla scura nei suoi occhi di cioccolato, ma il sorriso di Adrian spostò la sua attenzione dagli occhi alle pieghe della bocca.

«Preferivo montare la panna», ribadì lui.

Elettra abbassò lo sguardo e si allontanò immediatamente; si sentiva in imbarazzo, ma fece finta di niente. C’era sempre stato un confine netto tra loro, solido come un muro, e trovava rassicurante sapere che nessuno dei due lo avesse mai attraversato. Dopo Walter aveva promesso a sé stessa di chiudere con gli uomini, anche se Esther le aveva riso in faccia quando gliene aveva parlato, avvertendola che niente è per sempre. Soprattutto quel tipo di propositi.

Fidarsi nuovamente di un uomo, tuttavia, le sembrava impossibile; aveva sofferto troppo, tutte le lacrime che immaginava di poter piangere le aveva versate per lui, perciò non gliene restavano per un altro amore fallimentare. Scosse la testa per scacciare dalla mente quei pensieri e sistemò una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Riprendi quel burro, invece di lamentarti», lo sgridò continuando lo scherzo. Il tono era allegro, ma un ingranaggio era saltato e, per quanto piccolo fosse, il tempo fra loro aveva iniziato a girare in modo anomalo.

«Fatto.»

«Bene. Ora premi per far uscire il liquido, poi lavalo, ripeti il tutto e il gioco è fatto.» Fece il giro del tavolo per tornare al suo impasto, mentre gli occhi di Adrian non la lasciavano un momento; Elettra li sentì addosso per tutto il tempo, mentre portava la ciotola con l’impasto al petto per lavorarlo, quando si chinava sulla tortiera per sistemare le mele e spargervi un generoso strato di zucchero e mentre spingeva la teglia nel forno.

Erano sempre su di lei, qualunque cosa facesse; persino nei giorni a seguire, quando era sola in giardino seduta sotto il melo e lui a lavorare dall’altra parte del convento, li sentiva.

E se n’era accorta anche Isabelle, tornata alla carica pochi giorni dopo con il suo solito sorriso malizioso.

«Adrian sembra molto interessato a te», le fece notare scorrendo l’indice sul barattolo di sciroppo di tarassaco preparato da Lea per curare la tosse che la tormentava da giorni. «S’inventa di tutto pur di starti intorno. Lo ha fatto anche l’altro giorno, quando c’era il temporale.»

«Ha ragione Isabelle; a quanto pare hai fatto colpo», rimarcò Lea piluccando un grappolo d’uva. A differenza della malizia sfrontata della levatrice, però, nella voce dell’amica Elettra lesse un rimprovero. Una nota amara che non aveva mai notato prima, e che la mise in allarme. «Se anche fosse interessato a me, non è rilevante», rispose piccata, a voce alta. «Sono già abbastanza impegnata a cercare di risolvere i miei problemi, non ne voglio altri. Ho da poco chiuso con il mio fidanzato», aggiunse a spazzare via ogni dubbio.

«Ex fidanzato», puntualizzò Lea, seria.

Isabelle sobbalzò sulla sedia, le guance in fiamme. «Perché questo tono? Da quando sei interessata a Adrian?»

Lea avvampò. «Non lo sono mai stata», rispose lapidaria.

«Bene, perché dammi retta: che due uomini si contendano una donna può essere lusinghiero, ma che due donne, due amiche», specificò, «mettano a repentaglio il proprio legame per un uomo non è semplicemente avvilente. È stupido», sentenziò amara.

«Allora non dovrai preoccuparti, credimi: non sono interessata a Adrian», intervenne Elettra, ma Isabelle dissolse le sue parole con un gesto impaziente.

«Ancora più stupido di litigarsi lo stesso uomo è impedirsi di essere felice con un altro solo perché hai piantato quello sbagliato. Lasciare un fidanzato, Elettra, non è come perdere un marito; non devi vestirti a lutto, perciò nessuna donna dovrebbe sprecare tempo a rimpiangere uomini inutili. La vita va vissuta», continuò ammonendola con l’indice teso, mentre Lea strappava con rabbia gli acini dai raspi.

«Anche se volesse vivere con Adrian, non potrebbe farlo comunque; Elettra non rimarrà con noi ancora a lungo, dato che sua madre sta morendo.»

Isabelle sgranò gli occhi e si portò le mani al petto, voltandosi verso una Elettra paonazza.

“Cerca di stare calma”, si ripeté lei come un mantra, ma lo sguardo indagatore della levatrice era un faro puntato contro il suo viso pallido. Avrebbe voluto dire qualcosa, difendersi dalla crudezza delle parole di Lea, ma il cuore le scalciava nel petto impedendole di pensare, e la gola si era chiusa su sé stessa come una pallina di carta stropicciata. Lea non doveva spingersi sino a quel punto, rivelando dettagli della sua vita privata. Isabelle non conosceva tutti i particolari della situazione di sua madre. Strinse i pugni, la gola un deserto sconfinato, terra arida spaccata da un sole assassino.

«Tu non hai il diritto di parlare di mia madre», disse tagliente, la voce arrochita dalla rabbia. «E tantomeno hai quello di emettere sentenze sulla sua salute solo perché tu una madre, probabilmente, non l’hai mai avuta», aggiunse. Aveva voluto ferirla, affondare il coltello nella carne per ripagarla con la medesima moneta.

Un colpo che raggiunse il suo obiettivo senza sforzo.

Aveva affondato la lama in una ferita ancora aperta e aveva vinto, colpendo a morte il nemico, ma non era felice, non se bisognava pagarne il prezzo con i dolori che ognuna delle due custodiva nell’anima. Non se il suo bersaglio era la persona cui si sentiva più vicina, colei che l’aveva accolta nella sua casa e nella sua vita. Lea però si era spinta troppo oltre perché Elettra potesse rimanere in silenzio.

«Mia madre sta morendo, è vero, ma tu non hai il diritto di dirlo a voce alta. Non hai il diritto di dire questa enormità in mia presenza, come se lei non fosse niente per me. Non tu», l’ammonì con l’indice teso prima di voltare le spalle alla porta e lasciare la stanza, davanti allo sguardo vacuo di Isabelle.