17.
A una settimana esatta dalle rivelazioni di Ada, Elettra si svegliò con una voglia incontrollabile di mandorle.
Per saziarla si avvicinò all’orto in cerca di Dominique, sempre restia a ricevere ospiti nel suo mondo, ma la stupì non trovarla con le braccia sprofondate nella terra. Di solito quando era di malumore passava intere giornate a vangare e zappare, e dal giorno del loro debutto al mercato, durato solo una settimana a causa del costo eccessivo dei permessi che le aveva costrette a ripiegare sulla vendita diretta al convento, il suo umore era pessimo; mangiava sempre in disparte e parlava meno del solito, tanto che persino Lea, ritrovata piano piano l’armonia con Elettra, preferiva starle alla larga. Quel momento difficile, il fallimento del loro piano, le aveva fatte riavvicinare.
«È meglio lasciarla per conto suo. Quando si sarà stancata di fare l’eremita le tornerà la voce, vedrai», le aveva assicurato Lea a colazione, dopo aver visto Dominique prendere la porta.
Elettra la trovava una donna complicata, agli antipodi rispetto alla dolcezza disarmante di Nicole, al suo sorriso accogliente, materno e instancabile. Era Dominique a spaccare la legna per l’inverno e a occuparsi dell’orto, ogni giorno; in paese tutti conoscevano la sua forza, ma nessuno fuori e dentro il convento sapeva cosa si agitasse in fondo a quegli occhi irrequieti.
Vivendo a stretto contatto con lei da qualche mese, Elettra aveva avuto l’impressione che cercasse solo di stordirsi con il lavoro per non pensare, ma quella era una considerazione che Lea le aveva fatto chiaramente intendere sarebbe stato più prudente tenere per sé.
“Forse è solo molto arrabbiata; del resto la tempesta è una tragedia recente, e il dolore esige tempo per guarire”, pensò allungando il braccio verso una mandorla raggomitolata nel suo mallo. Riempì un cestino di piccoli frutti oblunghi, e quando, dopo qualche tempo, si concesse una pausa per distendere i muscoli, la vide; Dominique passeggiava lungo la fascia di terreno incolto che saliva verso la collina, quella in cui aveva sistemato gli alveari. Sembrava avere instaurato un rapporto speciale con le api; ogni volta che era di cattivo umore quelle le ronzavano intorno in sciami ma senza mai pungerla, come un cane fedele si accoccola ai piedi del padrone quando ne percepisce la tristezza.
Anche allora era lì, avvolta in una nuvola rumorosa e scura, a intonare la solita vecchia canzone che Elettra le aveva sentito cantare a proposito di una donna tradita dal suo grande amore, che, accecata dalla rabbia, lo avvelena per poi gettarne il corpo in mare.
Dominique cantava quelle strofe con un calore acceso che strideva nel grigiore autunnale della mattina, ma Elettra si lasciò trasportare volentieri da quel canto che si confondeva con l’orizzonte brumoso, e lasciandosi guidare dalla voce lasciò le gambe libere di andare, fin quando non si ritrovò di fronte allo sguardo gelido della donna. Aveva invaso il suo territorio, e Dominique non le avrebbe tolto gli occhi di dosso fino a quando non se ne fosse andata.
«Hai una bellissima voce», balbettò rompendo il silenzio del campo deserto, mentre l’altra accompagnava le sue amiche alate nella loro casa.
Nuvole plumbee oscurarono il sole, dipingendo pozze d’acciaio sulla terra incolta, mentre Dominique continuava a fissarla, muta. Elettra avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma si zittì non appena vide lo sguardo dell’altra posarsi sul cestino e la sua fronte spiegazzarsi in un caos di rughe.
«Ho preso qualche mandorla; volevo sapere cosa si prova a mangiare qualcosa che si è colto con le proprie mani», spiegò con il tono colpevole di chi è stato sorpreso a rubare.
Ancora silenzio, e una serie di occhiate diffidenti che la attraversarono da parte a parte.
Per risolvere quello stallo imbarazzante si voltò verso l’erba alta che si agitava al vento. Sentiva nell’aria l’odore del sale, un sentore di sabbia che le regalava una libertà inedita, ma le bastava pensare alle strade asfaltate, piene di smog e rumore, della sua città per cancellare ogni allegria: prima o poi sarebbe dovuta tornare; più il tempo passava, più quel giorno si avvicinava. E più si avvicinava, più Elettra si rendeva conto di non avere alcuna voglia di andarsene.
L’isola aveva un carattere difficile, ne aveva avuto una prova proprio in quei giorni, eppure non voleva arrendersi. Voleva trovare un senso alle rivelazioni di Ada, cucirle insieme al collage di informazioni raccolte su Edda, al terzetto sbiadito della foto e alla preghiera; le risposte erano lì, doveva solo trovare il filo che annodasse fra loro tutti gli indizi.
Edda era lì, e forse, immaginò, faceva parte del trio della fotografia.
“Probabilmente l’artista di cui parlava Ada è il tizio nella foto, e mia madre la ragazza che gli è accanto”, pensò, ma sentiva che qualcosa continuava a sfuggirle. “E la novizia, invece? Lei che ruolo ha in tutta questa storia? Se è stata lei a scrivere la preghiera, deve essere coinvolta nella faccenda”, ipotizzò mordicchiandosi l’interno della guancia, assorta.
«Qualcosa non va?»
La voce di Dominique la scosse trascinandola di nuovo nella realtà.
Elettra indietreggiò, incrociando le braccia sul petto a proteggersi da una domanda cui non avrebbe voluto rispondere; c’erano margini enormi da attraversare per farlo, e baratri in cui sarebbe potuta sprofondare in un attimo. Come poteva sapere se tutto stava andando per il verso giusto o no?
Non sapeva più niente da tempo, ormai, eppure sorrise; dissimulare era il solo modo per fuggire da sé stessa, l’unico che le assicurasse una tregua dalle sue angosce. «Va tutto bene. Ho solo qualche pensiero di troppo, un po’ di nostalgia», rispose.
«Se continui a rimpiangere quello che è stato senza far nulla per tornare indietro, deve esserci una ragione, no?»
«Credi?»
«“Chi vuole agisce e chi spera patisce”, diceva mia nonna.»
Elettra abbozzò un sorriso. «In effetti dal canto mio ho agito e patito abbastanza, ma ormai è andata.»
Dominique fece scivolare lo sguardo lungo i fianchi di Elettra ingentiliti dal vestito a fiori, risalendo lentamente sino al suo viso tirato; dormiva poco, e i suoi colori mediterranei non facevano che accentuare le strisce violacee sotto gli occhi. «Comunque sembri più che preoccupata. Sbaglio?»
«No, per niente», ammise Elettra. «Non ho un lavoro. Senza contare che non ho la minima voglia di tornare a vivere in città, anche se dovrei. Laggiù mi sentivo in gabbia, e… so che è folle, ma qui mi sento a casa», tentò di spiegare abbracciando l’enorme bacino color cobalto su cui si affacciava il promontorio a qualche centinaio di metri da lì, cullato dalla risacca.
«Follia è costringerti a sopportare di vivere una vita che non ti appartiene», ribatté Dominique spezzando a mani nude dei rovi secchi. Rigirò un ramo e lo gettò via, volgendo lo sguardo verso il mare oltre la scogliera sino a quando la mano di Elettra non planò sulla sua pelle, dopo avere sfiorato la ruvidità del vecchio cardigan infeltrito. Era una carezza che non riceveva da anni, ma non per questo Dominique tradì la minima emozione; rimase salda nel ruolo che si era ritagliata, quello di una vedova che viveva cristallizzata nella dignità di un dolore profondo più del mare.
Elettra però sentiva intenso il calore sotto il suo palmo, mentre le accarezzava la mano rovente; il suo sangue doveva bruciare, se persino le api le ronzavano a distanza.
«Deve essere stato molto difficile vivere qui, dopo la tempesta», sussurrò.
«La tempesta non c’entra un bel nulla», replicò Dominique scansandosi bruscamente, con gli occhi che scintillavano di rabbia. «È stata Sylvie, quella maledetta vipera, a rovinarmi la vita», ribatté con il fiato avvelenato dall’odio. La guardò per qualche secondo, titubante, ma quello che aveva tenuto per mesi rinchiuso tra le mani callose scalciava per venire alla luce. Si lasciò cadere su un masso piatto, le spalle a proteggere un dolore ancora non sopito.
«Mio marito mi ha tradito con lei per due lunghi anni, così quando l’ho scoperto gli ho gridato in faccia che mi faceva schifo e che tutto il paese avrebbe dovuto sapere che razza di persona era, ma lui non disse una parola. Rimase con le mani in tasca a guardare il pavimento per tutto il tempo, ma bastò che io dessi della puttana a Sylvie per fargli perdere le staffe. Mi zittì con uno schiaffo, uno solo. Ma fu il primo di una serie infinita», proseguì schiacciando l’erba sotto gli stivali di gomma. La voce era lontana, distaccata, come se quel racconto appartenesse a una parente lontana, quel genere di storie che intasano i confessionali di paese. Mentre parlava il suo sguardo rimaneva distante, perso nel tempo infinito delle angosce di un cuore tradito, e tuttavia Elettra sentiva ancora una traccia d’amore nella sua voce, nella lieve incertezza con cui aveva pronunciato il nome del marito. Le labbra di Dominique si erano incollate rifiutandosi di rinnovare un dolore irrisolto, eppure c’era qualcosa in lei, nelle mani che si tormentavano, che non trovava pace, ed Elettra era certa si trattasse di quell’amore sopravvissuto al tradimento; immaginò che non essere riuscita a sbarazzarsi dell’amore che provava per il marito fosse il suo rimpianto più grande. Aveva tentato, ma non era stata in grado di tacitare la donna ferita e innamorata che viveva all’ombra di un’altra, la gelida Dominique, la sola che l’isola ormai conosceva.
Strinse i pugni, schiacciando una vespa con la punta dello stivale. «Prima di allora Claude non aveva mai alzato un dito su di me. Mai», ribadì. «Ma dopo quella sera qualcosa cambiò; forse le cose con Sylvie iniziarono ad andare male, non lo so. Tutto quello che ricordo è che Claude tornava a casa ogni volta più arrabbiato. Io lo vedevo che soffriva per lei, che si consumava per quella puttana arrivista; feci finta di niente, ma non servì a molto. Mi presi le botte che iniziarono ad arrivare insieme alle sbronze, come se quello fosse il prezzo che dovevo pagare per essermi intromessa fra loro. Accettai di vivere in gabbia, quella che mio marito aveva costruito per me a suon di insulti e ossa rotte», riferì mentre Elettra ascoltava quella storia di straordinario disamore con le spalle strette. Faticava a credere che due persone un tempo innamorate potessero trasformare la loro relazione in un labirinto di rancori e violenze, ma le cicatrici di Dominique erano reali.
«Non mossi un dito per mesi, nemmeno per difendermi, ma una sera non ressi i colpi e svenni. Quando mi risvegliai non riuscivo nemmeno a parlare, ricordo solo che il dottore mi disse che avevo un paio di costole incrinate e un braccio rotto, e che dovevo riguardarmi. Io cercai di spiegargli quello che mi aveva fatto mio marito, provai a cercare aiuto, ma quando vidi Claude appoggiargli la mano sulla spalla capii che non sarebbe servito. Aveva già rifiutato il ricovero al posto mio, voleva assicurarsi che non potessi sfuggirgli. È stato allora che ho iniziato a ricambiare il suo odio.» Dominique appiattì lo sguardo verso l’orizzonte, una lama sottile nella memoria.
«Impiegai un po’ a riprendermi, ma quando mi rimisi in piedi avevo chiaro in mente cosa fare. Una notte rimasi ad aspettare che andasse a dormire, e uscii armata di torcia e qualche vecchio cacciavite. Camminai lungo la scogliera fino al molo dei pescatori, giù lungo il sentiero che si interrompe al pino ritorto, e una volta trovata la sua barca manomisi il motore. Tirai qualche filo a caso, in quel momento non avevo altro nella testa se non la voglia di vendicarmi; lui doveva pagare per i dolori che mi trascinavo dietro senza sosta, che mi svegliavano nel cuore della notte togliendomi il fiato. Volevo vendetta per il sangue che mi aveva fatto versare, nient’altro. Nella mia fantasia immaginavo spesso Claude e Sylvie affogare insieme e godevo nell’immaginarli annaspare in preda al panico, ma il giorno dopo solo lui prese la barca. Disse che andava a pescare per vendere qualche cassa di pesce al mercato e fare un po’ di soldi, ma era per pagare i capricci di Sylvie, lo sapevo. Però non dissi una parola», continuò con una lucidità che a Elettra gelò il sangue. «Lo salutai come al solito e portai avanti la routine domestica fino a quando nel pomeriggio non iniziò a tirare quel brutto vento, e a grandinare. Allora mi chiusi in casa, e quando la sera Nicole venne a dirmi quello che era successo, la seguii al caffè. Fu lì che seppi che Claude era morto insieme agli altri, onesti padri di famiglia cui lui non avrebbe potuto nemmeno pulire le scarpe. Quella sera al bar c’era anche Sylvie, non me lo posso scordare», aggiunse con un mezzo sorriso. «Arrivò con il marito, gli occhi gonfi di pianto. Si diceva affranta per la tragedia che aveva colpito l’isola, ma io sapevo che era venuta per controllare che non dessi in escandescenze. È sempre stata una donnetta da quattro soldi, ma in quel momento non sapevo che farmene dei suoi squallidi segreti; la sola cosa che mi preoccupava era il pensiero di aver impedito al mio uomo di salvarsi. Non sapevo nemmeno io che danni avessi provocato al motore, se ne avevo provocati, ma non potevo parlarne a nessuno senza destare sospetti, e soprattutto senza che Sylvie lo venisse a sapere. Per questo non dissi niente, non potevo.»
Elettra la fissò senza capire, ma quando la vide alzarsi l’afferrò per il braccio. Gli occhi di Dominique erano squarci di una notte cupa, di un nero che lasciava senza respiro.
«Perché mi hai raccontato questa storia?» le domandò con il pugno premuto sul petto, come a volerne cavare la colpa che le aveva fatto meritare quel dono sinistro.
Dominique la guardò per una manciata di secondi che a Elettra sembrarono infiniti e le rivolse un sorriso amaro, di chi ha una lunga storia alle spalle. «Perché la paura del passato, del cambiamento, non deve bloccarti. Dopo la tempesta non avevo idea di come tirare avanti senza Claude, senza più metà della mia casa, ed ero talmente ossessionata dall’accaduto che cominciai a vedere ovunque le tracce di quello che credevo di aver fatto. Claude era dappertutto, ovunque andassi sentivo la sua voce. Per un po’ cercai di resistere sforzandomi di rimanere lucida, ma dopo un paio di settimane iniziai a vederlo anche in pieno giorno, fra la gente, convinta che volesse farmi impazzire. Io però non volevo lasciarlo vincere ancora, perciò mi barricai per mesi in quello che restava della mia casa, fino a quando non incontrai Lea», aggiunse con un’ombra di sollievo nella voce, che finalmente parve rilassarsi. «Ero venuta al monastero perché volevo stare per i fatti miei, lontano dalla gente, e lei mi ha aperto le porte del chiostro. Mi ha invitato a sedermi accanto alla statua della Santa e… sembra assurdo, lo so, ma dopo mezz’ora le avevo raccontato ogni cosa. Le dissi tutto, di Claude e Sylvie e di quello che avevo fatto, ma nonostante questo lei non mi ha giudicato né mi ha intimato di andarmene, al contrario: mi ha invitato a trasferirmi al convento per condividere con lei la mia solitudine. Capisci quello che ti sto dicendo?»
S’interruppe e si girò verso Elettra, rimasta ad ascoltarla a bocca aperta. «Proprio la persona che meno aveva a che spartire con me mi ha offerto un tetto sulla testa e la possibilità di ricominciare», ripeté, ancora meravigliata.
Il sole aveva raggiunto il punto più alto nel cielo, disegnando ombre minuscole ai piedi di Elettra e Dominique. Gli insetti che avevano affollato l’aria rovente nei mesi precedenti erano scomparsi, dispersi dal maestrale che soffiava sul mare. Di quell’estate restava solo una lieve ombreggiatura sulla pelle, e un calore inestinguibile che sarebbe durato in eterno. Elettra non l’avrebbe mai dimenticata; in quell’angolo di mondo aveva trovato molto più di quello che si aspettava.
«So di non poter cancellare quello che ho fatto, e non cerco perdono. È per questo che preferisco vivere al convento e non in paese; non m’interessano le chiacchiere della gente e non sopporto le loro occhiate, perché io quella notte ho fatto una scelta. Dopo tante sofferenze oggi ne sono consapevole, e mi sforzo di conviverci perché so che devo farlo. E la vita è andare avanti, Elettra, anche per te. Non farti intimorire dalla paura e vivi. Prendi una strada e seguila senza guardarti indietro, ma pensaci bene prima di scegliere.»
Una nuvola di terra si sollevò dalla scogliera, spargendosi come sale nell’aria. Elettra abbassò lo sguardo e si sfregò gli occhi feriti dai minuscoli granelli, ma quando rialzò la testa Dominique era già a molti metri da lei.
Le sue parole però, quelle no, non se n’erano andate.
Guelfi
500 g di farina di mandorle
300 g di zucchero
1 cucchiaio di miele millefiori
1 bacca di vaniglia (semi)
½ bicchiere di acqua di fiori d’arancio o acquavite
In un pentolino versare lo zucchero, il miele, i semi di vaniglia e l’acqua di fiori d’arancio; porre sul fuoco sino a quando lo zucchero non si sarà sciolto completamente. A quel punto unire la farina a pioggia mescolando energicamente e spegnere il fuoco.
Versare il composto in un piatto e lasciarlo intiepidire.
Quando sarà lavorabile, inumidire le mani con acqua di fiori d’arancio e formare delle palline grandi come una noce, poi lasciarle asciugare per due giorni al riparo dalla luce e dal calore, coperte con un panno.
Avvolgere i guelfi in carta colorata a mo’ di caramelle.