5.
La prima notte di Elettra sull’isola fu ammantata di silenzi e ululati di vento.
Si girò e rigirò decine di volte fra le lenzuola profumate di lavanda, ma senza chiudere occhio.
Almeno sino a quando, inaspettata, una voce spezzò quel silenzio.
«Edda!» sentì urlare. Di nuovo.
Immediatamente scattò a sedere, gli occhi sbarrati. «Allora non me lo sono inventato, avevo ragione!» sussurrò con la mano premuta sul petto inumidito dalla tensione, ricordando la voce di donna che aveva sentito quando era vicino alla statua della Santa. Scostò le coperte e si precipitò alla porta, ma una volta affacciatasi nel corridoio non vide che un lungo serpente buio snodarsi fra le pareti spoglie. In un altrove vicino, l’eco del rincorrersi di passi leggeri, e infine il volto di Lea rischiarato dalla fiamma opaca di una candela che faceva capolino dalle scale.
«L’hai sentita anche tu? Una voce che urlava un nome di donna, poco fa», la bloccò Elettra sulla soglia, ma l’altra, cerea, scosse la testa.
«No, assolutamente. Nicole e Dominique riposano nelle loro stanze, e io sono appena andata a chiudere le imposte al piano di sopra. Di sicuro è stato il vento a spaventarti.»
Elettra inarcò un sopracciglio. «Il vento?»
«Esatto.» Lea posò lo sguardo sulla fiamma, sulle labbra un sorriso gentile. «Sull’isola c’è una storia, sulle notti di vento come questa: si dice che il cielo disperda nell’aria la voce di chi amiamo, per farci sentire la sua vicinanza, e a me succede spesso di avvertirla. Ovviamente si tratta di un inganno, eppure sembra reale.»
Elettra accolse con un brivido le parole di Lea: qualcosa non tornava in tutta quella storia, ma il monito di Eva risuonò chiaro nella mente. “Non lasciarti condizionare dalla suggestione”, s’impose. Tornata nella sua cella, Elettra ebbe la sensazione che quelle mura le parlassero, sentiva i loro respiri fondersi ai battiti del cuore.
“Tutto quello che mi serve è solo un po’ di coraggio”, si ripeté mentre le parole di Eva tornavano vive alla mente, e con loro la speranza di ritrovare sua madre.
“Devo rimanere qui, voci o non voci”, stabilì, “io non mi lascio intimorire da qualche leggenda.”
Presa quella decisione, i muscoli lentamente si rilassarono, mentre le ombre sinistre svanivano dalla mente lasciando spazio al ricordo della serata appena trascorsa.
“Proprio una bella serata”, pensò ripercorrendo le sue prime ore al convento.
Era stato piacevole lasciarsi avvolgere dal chiacchiericcio intorno alla tavola, nutrirsi dei sorrisi che Lea scambiava tra una pietanza e l’altra con Nicole, la più giovane del gruppo, con la pelle diafana e tutta la dolcezza fragile di un fisico minuto. La voce morbida e i lineamenti delicati ne facevano una presenza diametralmente opposta a quella di Dominique, la più grande, seduta all’altro capo del tavolo con un’espressione accigliata. Lei, con la sua massa di capelli ramati e il fisico segnato dal lavoro nei campi, aveva finto di non vedere nemmeno la nuova arrivata, continuando a consumare in silenzio il suo pasto, mentre Nicole al contrario la tempestava di domande. Elettra, da parte sua, aveva provato a instaurare un dialogo con la donna, ma era stato impossibile. A ogni modo, non le importava. Circondata da Lea e Nicole, considerò secondaria l’accoglienza glaciale che le aveva riservato Dominique, così come il fatto che il pane fosse eccessivamente tostato, perché quello che aveva avuto in dono andava oltre il piacere del cibo. Dopo un anno di cene silenziose, Elettra aveva ricevuto il calore di una conversazione affiatata, si era sentita parte di una tavolata di donne diverse da lei sotto molti punti di vista, eppure più simili di quanto non immaginasse.
Ed era con Nicole, dopo cena, che Elettra si era fermata a chiacchierare. Dominique si era ritirata nella sua stanza non appena aveva finito il pasto, senza nemmeno sforzarsi di accennare un saluto.
«Lei è fatta così, ma non ce l’ha con te», l’aveva rassicurata Nicole posandole la mano sulla spalla per dissolvere il dispiacere della delusione: Dominique non si era nemmeno voltata a rispondere quando Elettra le aveva augurato la buonanotte. Poi la giovane aveva afferrato uno strofinaccio pulito gettandoselo sulla spalla. «Se vuoi andare a riposare vai pure, io nel frattempo onoro i miei compiti settimanali», aveva spiegato trascinandosi accanto un secchio d’acqua saponata.
«Quali compiti?» aveva chiesto Elettra.
«Le pulizie», aveva risposto l’altra. «Qui al convento cerchiamo di dividerci le faccende per renderci la vita più facile, e sembra funzionare. Ora però va’ a dormire, su!» aveva sussurrato mentre lei rimaneva ostinata al centro della sala; non voleva che quella serata si esaurisse così in fretta, non ancora.
«Non sono poi così stanca, ti do una mano», aveva detto afferrando una scopa e iniziando a spazzare; al fianco di Nicole aveva pulito l’intera sala, rimanendo poi in piedi sulla porta in attesa che il pavimento si asciugasse.
«Posso chiederti una cosa?» le domandò posando il mento sul manico della scopa.
«Certamente.»
Elettra inspirò, guardando negli occhi la sua nuova amica. «Venendo qui ho notato che questa parte dell’isola è quasi disabitata, fatta eccezione per il convento e un piccolo gruppo di donne vestite a lutto che ho incontrato lungo la strada, ma non mi è sembrato di vedere delle case. Per non parlare degli uomini: da queste parti non ce ne devono essere molti, sbaglio?»
Nicole abbassò la testa. «Purtroppo è così, gli uomini sull’isola sono pochissimi, ma su questo versante non ce ne sono più da quasi due anni.»
«Come mai?»
Nicole prese un respiro profondo. Il petto minuto si sollevò appena dalla larga tunica celeste che indossava, ma nel suo lento espandersi Elettra lesse una nota amara. «Si è trattato di una tragedia che ha investito l’isola due anni fa, una tempesta che mi ha strappato mio marito.»
«Mi dispiace, non volevo... Davvero, scusami», balbettò Elettra, mortificata per l’ombra di pianto che oscurava il sorriso di Nicole, ma lei per tutta risposta scosse la testa, sulle labbra l’immancabile sorriso.
«Non preoccuparti, non potevi saperlo. Ma è proprio in seguito a quella notte maledetta che ora vivo qui», disse carezzando con lo sguardo le pareti della sala. «Lea ha offerto un tetto a me e a Dominique; anche suo marito era in mare quella notte, quando abbiamo perso tutto e nessuno in paese voleva saperne di noi. Lei ci ha salvato.»
«Non capisco: se avete subito un grave lutto e avete addirittura perso la casa, perché il paese avrebbe dovuto emarginarvi?»
«Perché siamo vedove, e per gli abitanti dell’isola è inaccettabile che una donna sopravviva al proprio marito; la vedovanza qui è vista come un castigo non solo dell’anima, ma anche del corpo. Le persone evitano di parlarti, a meno che non si tratti di altre vedove, e quando cammini per la strada cambiano marciapiede, come se aver perso l’amore della propria vita fosse contagioso. Così le altre vedove hanno deciso di rinchiudersi nella loro solitudine nella parte più sperduta e dimenticata dell’isola. In più, il paese odia me e Dominique perché abbiamo scelto in qualche modo di continuare a vivere.» Si strinse nelle spalle. «Come se la morte di Fabien non fosse stata abbastanza devastante.»
Elettra si sentì vacillare; quella era una confessione cui non era ancora pronta, e la stupiva sapere che quel viso così giovane avesse già conosciuto e perso le gioie del matrimonio. «Eravate molto innamorati?»
Nicole tirò su con il naso. «Lui era la mia persona speciale. Più di un marito, un fratello e un amico insieme. Era tutto, e me lo hanno portato via.»
«Dio, deve essere stato tremendo», bisbigliò Elettra, «ma pensare che la gente del posto abbia emarginato te e Dominique per questo è assurdo!»
«Lo so; come avrai notato tu stessa, lei ha un carattere diverso dal mio, reagisce con durezza, con il silenzio e il lavoro al dolore, mentre io non riesco ad arrendermi alla cattiveria delle persone e mi dispero; per questo ringrazio il cielo per aver posto Lea sul mio cammino. Lei è diversa dagli altri; ha vissuto da emarginata sin dall’infanzia, poveretta, pagando la sua condizione di orfana con il disprezzo e la diffidenza dell’intera isola.»
«Com’è possibile? Essere orfani non può essere una colpa!» esclamò Elettra, scioccata.
«Qui lo è, invece, perché tutti appartengono a qualcuno, sin da quando nascono: prima sono proprietà dei genitori, e se sono donne, una volta sposate, dei mariti, perciò nessuno le ha perdonato le sue origini. Nel corso degli anni ha dovuto sopportare angherie e pettegolezzi di ogni genere sul conto suo e dei suoi genitori; c’è chi dice addirittura che sia la figlia di una monaca, perciò capisce cosa voglia dire non essere accettati, e per questo ci ha ospitato nella sua casa.»
«Il convento è davvero tutto suo?»
«Sì, certamente. Tu, piuttosto, come sei arrivata qui? Voglio dire, non è un luogo segnato sulle guide che vendono in paese», disse.
«Si tratta di una lunga storia», tagliò corto Elettra. Per quanto Nicole fosse affabile, la conosceva da meno di tre ore, e non aveva alcuna intenzione di raccontarle di sua madre. Trovava già abbastanza singolare averlo fatto con Lea, ma in quel caso si era trattato di qualcosa di diverso, un’empatia immediata. Si schiarì la voce, determinata a riprendere le redini della conversazione. «Però, è singolare che un’orfana disponga di una cifra sufficiente ad acquistare un palazzo intero», notò mentre Nicole rientrava in cucina e iniziava a sistemare le sedie intorno a tavolo.
«Lei comprò il convento direttamente dalla curia alla metà del suo valore, pagandolo con i lasciti delle monache che l’avevano cresciuta.»
«Mi sembra che abbia fatto un ottimo affare, anche se deve essere stato un investimento impegnativo», commentò Elettra con il naso verso i soffitti macchiati di muffa e le ragnatele che proliferavano in ogni angolo. Le condizioni del palazzo erano critiche, eppure invidiava Lea; per salvare la panetteria le sarebbe bastato un colpo di fortuna simile, anche la metà del denaro che immaginava essere costato il convento, ma il destino le aveva voltato le spalle. Cercò di liberarsi di quei pensieri, ma, quando provò a cambiare argomento e chiese a Nicole quale fosse il prezzo di una notte nel convento, quella la fissò interdetta.
«Il prezzo?» aveva ribattuto spalancando i suoi grandi occhi da cerbiatta. «Non capisco.»
«Vuoi dirmi che veramente Lea non chiede un centesimo per pernottare qui?»
«Certo. Nessuna di noi ha mai dato un soldo in cambio della sua ospitalità.»
Questa volta fu Elettra a balbettare parole confuse; trovava quasi comico avere scovato una donna con un senso degli affari persino peggiore del suo. «Questo posto è enorme; come pensa di mantenerlo se non si fa pagare l’alloggio?»
Nicole iniziò ad arrotolare lo strofinaccio intorno al polso, lo sguardo sfuggente. «Sinora ce la siamo cavata con piccoli scambi con i prodotti della terra e qualcosa fatto da noi, qualche lavoretto da poco, ma Lea si è sempre rifiutata di chiedere del denaro per alloggiare qui. Sostiene che se lo facesse si sentirebbe uno sciacallo», ribadì sottovoce, come se parlare di denaro fosse sconveniente.
“È proprio questo il guaio”, pensò Elettra girandosi a guardare le chiazze bagnate sul pavimento; se Lea avesse continuato a concedere ospitalità in cambio solo di un piccolo aiuto con le faccende domestiche, avrebbe fatto la sua stessa fine nella metà del tempo.
Su invito di Lea, Elettra non lasciò il convento il giorno seguente, trattenuta dalla irriverente scia di anice che serpeggiava per le stanze dell’intero convento.
Non riusciva a spiegarlo, ma c’era qualcosa di magnetico in quella piccola comunità femminile; all’improvviso l’intonaco scrostato dai muri non era più un dato allarmante, e la scarsa pressione dell’acqua e le tegole mancanti del tetto erano diventati particolari trascurabili. Impiegava ogni giorno il doppio del tempo per fare un bagno o lavare il bucato, ma niente poteva competere con la veduta della baia, con il giallo accecante dei limoni che crescevano in terrazzo, con l’odore dei panni lasciati ad asciugare al sole. E poi doveva scoprire il legame tra sua madre e quel luogo, un legame che sentiva farsi sempre più stretto.
“Stare qui mi farà bene”, si ripeteva la sera riponendo il suo biglietto di ritorno tra i documenti, così come era certa giovassero al suo umore le piccole gentilezze che Lea le riservava ogni giorno, fra cui una tazza di latte di capra appena munto con un uovo sbattuto.
«Non aiuto abbastanza per essere viziata in questo modo», le fece notare una mattina mentre l’altra mescolava energicamente il tuorlo con lo zucchero. Teneva la tazza premuta sotto il seno proprio come faceva Edda, una consuetudine che travalicava i confini della geografia e del sangue, avvicinandola ancora di più a quella creatura misteriosa. Se Elettra chiudeva gli occhi mentre Lea montava gli ingredienti, le pareva di sentire ogni singolo granello di zucchero stridere fra l’acciaio del cucchiaino e la ceramica per poi fondersi con la pastosità del tuorlo in un composto rigonfio, morbido e vellutato. L’incontro con il caffè e il latte bollente, poi, era un autentico coup de théâtre; il tuorlo e lo zucchero si aprivano accogliendoli in un abbraccio cremoso.
La voce che aveva sentito la prima notte si era quietata, confermandosi dunque frutto di una suggestione. Faticava a crederlo, ma ogni volta che ne accennava a Lea o a Nicole queste si stringevano nelle spalle, dichiarando con un sorriso sconsolato: «Io non ho sentito nulla», una frase che si era sentita ripetere spesso, in quei primi giorni.
Glielo dicevano tutte quante, ma non le importava, anzi: più fingevano che tutto fosse normale, più Elettra sentiva il bisogno di scoprire le ragioni di tale atteggiamento. C’era una storia intrappolata fra quelle mura silenziose che la notte si animavano di voci, nei bisbigli di Lea e delle altre che a volte si interrompevano quando lei entrava in una stanza. Non si trattava di ostilità, non era questo ciò che aveva avvertito, quanto piuttosto il bisogno di proteggere i segreti del convento. Un mistero su cui Elettra intendeva iniziare a raccogliere qualche indizio.
Era proprio per risolvere quel rebus che lei aveva deciso di restare, a qualunque costo; non poteva andar via, non così. Del resto parevano essere la Santa e il convento stesso a chiederglielo, indicandole il sentiero verso la verità, una strada che lei era intenzionata a percorrere sino all’ultimo centimetro.
«Per smaltire tutti questi zuccheri dovrò tirare a lucido l’intero convento», scherzò assaporando il gusto dolceamaro del caffellatte mentre Lea ritirava le tazze vuote.
Era stanca di essere confinata a mansioni da casalinga. Decise di andare verso l’orto adiacente al palazzo, un appezzamento parzialmente coltivato da Dominique. Le si affiancò nel lavoro sotto il suo sguardo vigile, nella speranza di strapparle qualche parola... Inutilmente, però, dal momento che l’altra si teneva alla distanza minima necessaria per impedire il nascere di una qualsiasi conversazione.
«Lea o Nicole ogni tanto ti aiutano nell’orto?» le chiese alla fine facendosi ombra con la mano.
Dominique piantò la zappa accanto a un cespuglio e sputò a terra, affondandole nella carne un paio d’occhi diffidenti; il suo sguardo affilato risaltava sulla pelle scurita dalle lunghe giornate sotto il sole, eppure nel suo volto lentigginoso, nella linea piatta delle labbra immancabilmente serrate, Elettra non lesse alcun calore. Dominique non era come Nicole: non c’era traccia di dolcezza né di candore in lei, ma soltanto l’impronta di una rabbia sconfinata, profonda e scura, riflesso di un lutto non ostentato con le lunghe gonne che aveva visto spuntare sui sentieri impervi dell’isola, quanto imprigionato fra le pieghe nell’anima.
Elettra aveva avuto un’idea per fare entrare qualche soldo nelle tasche di Lea e voleva provare a proporgliela nonostante la sua reticenza. «Pensavo che potremmo chiedere a qualcuno in paese o nelle isole vicine se è disposto a barattare qualche ora del proprio tempo con parte del raccolto, viste le riparazioni urgenti da eseguire. Del resto la frutta e la verdura abbondano.» Si voltò brevemente a indicare gli alberi punteggiati di pesche e prugne mature e le verdure che crescevano lungo i filari. Elettra ci stava provando, voleva davvero rendersi utile, ma le labbra di Dominique rimasero sigillate e immobili di fronte al suo entusiasmo. «Mi sembra una buona soluzione, non trovi?» insistette nel tentativo di strapparle una risposta, ma ciò che ottenne fu solo un’alzata di spalle.
«Come vuoi», si arrese infine, massaggiandosi la schiena dolorante. Nel pomeriggio si ripromise di dedicarsi a mansioni meno impegnative. Non appena si distrasse, Dominique la lasciò da sola con i suoi pensieri.
«Incredibile», borbottò sottovoce, con i pugni premuti sui fianchi. Osservò con attenzione il profilo della donna, e stimò che a dispetto di un’energia impressionante dovesse avere almeno dieci anni più di lei. Una vita, quella sull’isola, che aveva finito per segnarla dentro e fuori. Dolore, solitudine; era questo ciò che Elettra leggeva nel viso della donna, nelle mani callose e in quei silenzi solidi, macigni che Dominique aveva frapposto fra lei e il resto del mondo.
“Questa storia delle vedove è assurda”, pensò Elettra a pranzo, rimestando con il cucchiaio nel brodo incolore in cui galleggiavano pezzi di cipolla. Nicole ce la metteva tutta, ma era un disastro ai fornelli.
«Volete dell’altra minestra?» chiese la giovane affondando il mestolo nel brodo, ma Lea ed Elettra scossero la testa scambiandosi un’occhiata complice.
«Per rendere la gestione del convento più snella, tempo fa abbiamo deciso di dividere le pulizie e la preparazione dei pasti in turni di un mese, e ora è quello di Nicole», le spiegò Lea in attesa del pasticcio di patate che l’amica stava raccogliendo a cucchiaiate dalla teglia. Non appena Elettra lo vide sfaldarsi nel piatto accanto, però, arricciò il naso; le patate erano poco cotte, il formaggio non si era sciolto e la besciamella era un latticello salato che si espandeva in pozze giallastre punteggiate di noce moscata.
«Potrei occuparmi io, della cucina», propose appoggiando la forchetta sul piatto. «Ancora non so per quanto mi tratterrò, ma fino a quel momento vorrei rendermi utile. Purtroppo non sono d’aiuto con i lavori manuali e non so granché di orticultura, ma in cucina me la cavo; fino a poco tempo fa gestivo una panetteria, quindi il minimo che possa fare per sdebitarmi è cucinare per voi. Senza contare che ne sarei onorata», aggiunse portandosi una mano sul petto. Cucinare per Lea e le altre le avrebbe comunque lasciato il tempo necessario per le sue ricerche: dopo i primi giorni di adattamento si sentiva pronta a iniziare a cercare indizi che spiegassero le profezie di Eva, il perché Edda avesse comprato quel biglietto. Ma osservando i visi delle altre capì che trascorrere del tempo con loro, a prescindere da Edda e dai suoi segreti, era quello di cui aveva bisogno; dopo il fallimento della panetteria per lei era importante sentirsi utile, e smetterla per qualche giorno di pensare ai suoi problemi. Lea intrecciò le dita sul piatto mentre Elettra rigirava il tovagliolo fra le dita, nervosa; detestava trovarsi sotto esame, eppure niente la faceva sentire più viva dell’adrenalina in attesa del verdetto. Era stato così anche quando faceva la giornalista e sottoponeva al redattore i suoi articoli.
«Allora?» chiese picchiettando con la punta della scarpa contro la gamba del tavolo.
Lea posò i suoi grandi occhi in quelli di lei, che con il collo teso cercava di carpirle la risposta che desiderava sentire. «Credo sia una buona idea, ma comincerai domani», rispose sollevando l’indice per stroncare subito la protesta che vide prendere forma sulle sue guance arrossate. «Per oggi hai fatto anche troppo», terminò sollevando la forchetta per affondarla nella corazza di patate semicrude, fermandosi solo quando sentì la mano di Elettra sfiorarle il braccio.
«Grazie», sussurrò lei, felice come non ricordava di esserlo più stata da tempo. Troppo tempo.
Finì il pranzo alla svelta, e una volta sola s’immerse nella dispensa; stava annotando su un quaderno le quantità degli ingredienti disponibili, quando, presa dalla credenza la scatola di acciaio con le stecche di cannella, notò sul fondo un barattolino impolverato. Allungò la mano per tirarlo fuori, ma non appena posò lo sguardo sulla superficie panciuta sulla quale era stata incollata l’etichetta sentì un tuffo al cuore: sul vetro, dietro la striscia sottile di scotch a protezione della carta ingiallita, c’era una grafia che le sembrava di conoscere. Deglutì.
Le mani iniziarono a tremarle, mentre il battito del suo cuore accelerò furiosamente.
«Non è possibile», sussurrò, «non può essere vero.»
Ma lo era, gli occhi non mentivano: quella grafia d’altri tempi, con le curve e il tratto elegante, assomigliava a quella di Edda. Il barattolo conteneva primule candite ed Elettra si chiese cosa potesse mai avere a che fare con sua madre, se quella era davvero la sua scrittura.
Ma più fissava la carta ingiallita, più sentiva crescere dentro di lei la convinzione che quella fosse proprio la grafia di Edda. Doveva essere la sua. Sospirò, il palmo ad abbracciare il vetro impolverato.
«Mio Dio, Eva aveva ragione, come anche Lea: questo posto è magico», balbettò con il barattolo premuto contro il petto ripercorrendo tutte le emozioni vissute dal momento in cui aveva varcato il cancello d’ingresso del convento, spesso intense al punto di farla dubitare del suo raziocinio. Sin da allora, dal primo incontro con Lea, Elettra aveva sentito un’energia insolita circondarla; vibrava nel calore dell’abbraccio di quelle mura, in quello della Santa e nelle ombre che il convento celava fra pesanti tendaggi e bruschi silenzi.
Un silenzio, tuttavia, più eloquente di qualsiasi parola.
La verità era lì, immediata; era nel barattolo che stringeva incredula, nella conferma di una sensazione che aveva sentito attraversarla sin dal primo incontro con quelle mura.
Posò la mano contro la parete, che docile si lasciò accarezzare. «Mia madre forse è stata veramente qui», sussurrò euforica e spaventata al contempo. Finalmente un indizio.
Strinse forte la presa sul coperchio, ma resistette alla tentazione di ruotarlo e immergersi nel mondo di sua madre, come quando era bambina e Edda si divertiva a farle indovinare i nomi delle spezie dal loro profumo.
«Se questo è il convento in cui ha vissuto mia madre, qui troverò le risposte che mi sono state negate da lei e promesse da Eva. Qui ritroverò mia madre, lo sento», ribadì fissando le pentole in rame che pendevano dal supporto in legno sulla sua testa.
Edda aveva sempre parlato con lei attraverso il cibo, e nel cibo l’avrebbe ritrovata anche quella volta. Per farlo, però, Elettra aveva bisogno di sentire quel posto come lo avrebbe percepito lei. Perché Edda forse era stata lì, il barattolo che ora aveva nascosto nella borsa poteva esserne una prova, perciò da lì avrebbe cominciato a riannodare i fili del loro passato; dall’isola, riempiendo anima e polmoni dei suoi profumi, di odori che un tempo Edda aveva respirato, per respirarli a sua volta, molti anni dopo, e tuffarsi in un tempo nuovo: quello di sua madre.
«A noi due, mamma», disse mentre il cancello arrugginito del convento alle sue spalle mugolava sui cardini.
L’aria del primo pomeriggio era immobile, ma non le importava; quelle ore, le più calde, conferivano ai paesaggi un calore e un profumo unici, caratterizzati da una pigrizia tutta isolana. Irrompendo nella quiete del pomeriggio, Elettra sentiva di potersi specchiare nella metà più autentica dell’isola, quella che da subito aveva stretto un legame con lei. Quella selvaggia, dimenticata.
“La terra delle vedove”, pensò scrutando i sentieri terrosi in cerca di sagome nere.
Imboccò il sentiero opposto a quello che scendeva in paese, diretta verso i viottoli segnati dal lento incedere dei sandali consumati delle donne che lì vivevano nascoste agli occhi della comunità, con il cuore in fermento. In quella parte dell’isola c’erano soltanto alte scogliere calcaree e lo scheletro ligneo di vecchi imbarcaderi tra le rocce.
Elettra vide poche case di legno nascoste nella pineta, ma lungo il tragitto non incontrò nemmeno una persona. «Un luogo spettrale in cui vivere», sussurrò osservando le voragini aperte nei tetti tormentati dal maltempo, ritratto decadente di un villaggio che le sembrò essere stato abbandonato nel giro di una notte.
Poi si voltò verso il mare, e lì vide lui, il primo uomo incontrato su quella faccia dell’isola. Nella foschia afosa del pomeriggio scorse la sagoma candida della sua camicia che si stagliava sullo sfondo infinito. Se ne stava seduto su uno scoglio, in attesa che qualche pesce abboccasse all’amo, con un blocco da disegno sulle gambe e una borraccia di fianco.
Un artista, pensò Elettra osservandolo tendere il pugno chiuso per prendere le misure del paesaggio che stava trasferendo sulla carta, stupita nel vederlo tracciare veloce un groviglio di linee a carboncino. “È anche un bel tipo”, aggiunse tra sé e sé osservando le ampie spalle e le braccia ben tornite sotto le maniche arrotolate, mentre divertita strappava un ramoscello di mirto. Annusò il profumo intenso sprigionato dalle foglie al sole e, quando sollevò lo sguardo per posarlo di nuovo sullo sconosciuto, i loro occhi si incontrarono. Aveva occhi scuri come nocciole tostate e una peluria bionda a impolverargli il viso dai tratti ben marcati. Durò un istante appena, e subito Elettra indietreggiò cercando riparo nella vegetazione. Lui l’aveva vista, sapeva quello che stava facendo: spiare un uomo era un comportamento da adolescente, ne era consapevole, eppure non era riuscita a resistere alla tentazione. Imbarazzata, fece dietrofront.
Raggiunto il convento, intravide Dominique passeggiare nell’erba alta reggendo un paio di cassette di legno: gli alveari. Non indossava alcuna protezione dalle api, e fischiettava una canzone che spesso Elettra aveva sentito cantare anche a sua madre. Ne ricordava vagamente le parole. Non appena si fece largo fra le sterpaglie, l’altra si girò repentinamente. Le ginocchia flesse erano pronte a scattare, mentre gli occhi la fissavano diffidenti.
Si scambiarono uno sguardo, uno soltanto, e in quel momento a Elettra sembrò di scorgere l’ombra di una lacrima.