4.
Il traghetto, l’unico che collegava l’isola alla terraferma con partenze settimanali, entrò nelle acque riparate della baia lasciandosi alle spalle una scia di spuma dorata e un viaggio interminabile. Un enorme masso ricoperto di ginestra e iris selvatici, sul quale si stagliava la facciata bianca del faro, salutò l’ingresso della nave in porto. Sul ponte, Elettra, tutta raggomitolata nella giacca, strinse le dita intorno al suo caffè bollente mentre gli occhi si riempivano della fiera bellezza isolana. Non appena sentì i motori spegnersi e il portellone di poppa aprirsi con cigolii e lamenti metallici, tirò un sospiro di sollievo. Scese lungo la passerella ancora barcollante, ma determinata più che mai a godere del panorama che la abbracciava: il piccolo porto turistico, una decina di posti barca delimitati da lunghe pedane, e quello dei pescatori, una passerella di legno scrostato ingombra di nasse e cassette lasciate ad arrostire al sole di giugno, dietro il quale si ergevano i fianchi prominenti di una collina vestita di erica, ginepro rosso e corbezzolo.
Sorrise; l’isola intera sembrava darle il suo benvenuto. Scostò dagli occhi una ciocca di capelli, la mano premuta sulla borsa in cui aveva riposto i pani. Fece un respiro profondo, il primo su quel lembo di terra strappato al mare; intorno a lei il caos del mercato, banchi di pesce e frutta fresca improvvisati con ombrelloni da mare e bancali. Dall’altra parte dei banchi stavano in fila, premendo contro i petti sporgenti buste di carta da cui spuntavano pomodori e pesche dalle sfumature aranciate, donne vestite con lugubri gonne di cotone nero alla caviglia e camicette della stessa tinta, i capelli come lunghi fili d’argento che raccolti in crocchie austere illuminavano i visi scaldati dal sole. Camminavano a testa bassa, soppesando in silenzio la frutta e la verdura esposte, mentre lo scambio di banconote suggellava una transazione muta, così come muti erano i loro occhi; nessuno dei presenti rivolgeva loro la parola, e nessuno quei volti fasciati nei colori del lutto sembravano vedere.
Una processione di fantasmi, pensò Elettra, ombre che sfidavano la fissità del sole muovendosi nella piccola folla che si allargava al loro passaggio riservando loro un trattamento da appestate. Che strano, rifletté soffermandosi a guardare le donne in nero perdersi nei vicoli del paese.
Tirò la zip per controllare i pani, che, contrariamente a quanto si aspettava, non sembravano aver risentito del viaggio; al contrario, sprigionavano ancora più intenso l’aroma d’anice di quando li aveva sfornati, piccole comete speziate a indicarle il sentiero della verità.
Prima ancora di cercare un alloggio in paese – era partita così in fretta che non aveva pensato nemmeno di prenotare una stanza in una pensione a buon mercato, la sola che potesse permettersi – stabilì che era un altro il posto in cui doveva andare.
Fermò nella piazza un’anziana e seguì incerta la direzione indicatale dalle sue mani nodose. Non la scalfì il posarsi di quegli occhi piccoli sulle sue spalle, l’incrinatura nella voce quando le aveva nominato il convento.
«Quello di Lea e di quelle sciagurate, dall’altro lato dell’isola?» le aveva chiesto la donna guardandola dall’alto in basso, ma Elettra aveva scosso la testa, incapace di decifrare il dialetto isolano.
«Il convento di Santa Elisabetta», aveva ripetuto lei, smarrita, poco prima che l’altra storcesse la bocca reprimendo con un pugno nel petto un colpo di tosse.
«Allora vai, e che Dio t’accompagni in quell’inferno», disse asciutta la donna voltandole le spalle e lasciandola spiazzata, sola nello slargo polveroso fra le case.
«Però, che accoglienza calorosa», sussurrò prima di mettersi in marcia, titubante, perdendosi nella boscaglia riarsa dal sole; aveva riso degli ammonimenti di Esther circa l’isola e le sue stranezze, ma iniziò a pensare che forse le premure dell’amica non erano poi così esagerate. Si avventurò per stradine sterrate e sentieri scoscesi cercando di ricordare quelle parole sdentate, certa di raggiungere il convento in meno di mezz’ora, ma, dopo un’ora di cammino durante il quale non incontrò un solo essere vivente che non fosse una lucertola o un cane randagio, si ritrovò a scrutare il paesaggio completamente senza fiato.
Del convento, però, nemmeno l’ombra. Si tamponò la fronte e si voltò indietro, cercando nelle proprie orme il momento in cui si era persa; non capiva dove avesse sbagliato, le strade si assomigliavano tutte. Ogni viottolo era una lingua di terra e sassi scavata nella vegetazione, uguale alle altre, e la stretta del sole cocente non aveva fatto che peggiorare la situazione.
“Eppure questo posto sembra il paradiso”, pensò mentre scorgeva il profilo di una costruzione sulla cima della collina oltre la curva: un palazzo antico in condizioni precarie, visto l’intonaco scrostato e i ciuffi di verde che spiccavano fra le tegole, forse proprio il convento che stava cercando. “Dev’essere quello”, pensò, e riprese il cammino.
Una volta raggiunta la sommità si girò a osservare il paesaggio apparso d’improvviso oltre la curva, un bacino di cobalto la cui bellezza le fece dimenticare ogni affanno; i riflessi del sole erano scintillii intensi al punto da far lacrimare gli occhi, ma il colore del mare nelle cale protette dalle rocce era uno spettacolo che sapeva di notte, profondo e scuro.
Di fronte a lei, possente, la ragione del nome mitologico dell’isola: un titano che, sdraiato su un fianco, riposava su un enorme giaciglio verdeggiante. Un gigante stanco, spina dorsale dell’intera isola e riflesso di due volti profondamente diversi: da un lato la zona portuale, pittoresca e animata, e dall’altro quella dove sorgeva il convento, più aspra e selvaggia, dove la natura diventava matrigna e la boscaglia era inaccessibile, capace di inghiottire nel suo ventre case abbandonate e alberi spezzati dall’inverno, con lunghi sentieri di strada bianca. Era in quella direzione che Elettra vide avventurarsi le donne in lutto, un manipolo di sagome nere che camminavano a testa bassa tenendo in bilico sulla testa dei canestri, in silenzio, inghiottite all’improvviso dal cuore sconosciuto e deserto di quel pugno di terra arida in cui non sembravano crescere altro che erbacce.
“Chissà cosa c’è laggiù”, si chiese Elettra. Sorrise a quel gigante stanco, spartiacque e guardiano di un’isola che profumava di mistero, e spinse il cancello semiaperto del convento.
La frescura del chiostro le restituì subito un po’ di energia. Era piacevole sentire l’aria fresca accarezzarle la schiena, così come assaporare quell’aura di quiete sospesa che aleggiava nel colonnato che circondava il cortile. Passeggiò lungo il porticato con il naso all’insù e inciampò più volte nelle lastre di marmo sbeccato del pavimento, mentre i pani sembrarono d’improvviso pulsare come un cuore vivo contro le pareti di stoffa.
Non ora, pensò Elettra dando un colpetto alla borsa: sapeva di sembrare folle, ma quegli ultimi giorni le avevano insegnato che spesso il confine fra razionale e irrazionale è una linea impalpabile.
Tese l’orecchio in cerca di un suono, un rumore che le assicurasse di non essere sola tra quelle pietre colorate di muschi, ma la voce del convento sembrava essere stata imprigionata dietro le porte che si affacciavano sul chiostro. Una soltanto era appena scostata, ma Elettra pur avvicinandosi non riuscì a carpire a quei corridoi nemmeno il frusciare di una tonaca.
Riluttante riprese a passeggiare lungo il colonnato, ma non appena posò lo sguardo in un angolo adornato da alberi di limone e ortensie in fiore, il cuore le sobbalzò nel petto.
Al centro della nicchia c’era lei, la Santa. Elettra lasciò cadere la borsa a terra, le labbra improvvisamente asciutte. Sentiva un calore intenso correrle sulla pelle come una carezza arrivata dopo una giornata faticosa. Strinse nel palmo la medaglietta di Edda, inspirando a fondo; era lei che stava cercando, la sua e la loro storia.
Premette il pugno chiuso contro il petto recitando a memoria una preghiera, e lentamente si avvicinò alla Santa, la mano tesa verso di lei.
«Tu», sussurrò, dolcemente. Nelle orecchie il suo monito a raggiungere in fretta l’isola e il convento, negli occhi l’immagine del biglietto di viaggio ritrovato per caso, quasi sua madre volesse nasconderne a lei e a sé stessa la vista.
«Posso aiutarla?»
Elettra trasalì, e di scatto abbassò la mano.
Indietreggiò, schiarendosi la voce, china a raccogliere la borsa. «Sì, credo… Cercavo la statua della Santa, a dire la verità», balbettò rimproverandosi di non sapersi dominare. Si ravviò i capelli, guardandosi intorno con l’aria di chi è stato sorpreso a rubare; le tremavano le gambe e il cuore sembrava esserle schizzato nelle tempie, talmente pulsavano forte. «Quando sono arrivata ho chiamato, ma non vedendo nessuno sono entrata. Non intendevo disturbare, mi dispiace», farfugliò agitando le mani. Per tutta risposta la donna scosse la testa e le sorrise con il sorriso più dolce che Elettra ricordava le fosse mai stato rivolto, ipnotico e magico, capace di infondere una pace del cuore immediata.
«Nessun disturbo, davvero; tutti possono rendere omaggio alla Santa, se lo desiderano», spiegò l’altra sfiorando la statua con la punta delle dita, lunghe e affusolate. Il tono della sua voce era basso, soffuso come la nebbia che alle prime ore del mattino si solleva dall’orizzonte incerto.
Elettra annuì, la borsa stretta a sé; era stata a un passo dal trasformare in realtà le parole di Eva, ma la imbarazzava dover condividere quel momento con una sconosciuta.
Eppure, pensò osservando il biondo-grano dei suoi lunghi capelli che, raccolti con due forcine appena sopra le orecchie, spiccavano sul semplice vestito turchese, c’era qualcosa che la attirava in quel viso; erano gli occhi, il sorriso aperto, rassicurante.
«Ho fatto molta strada per venire qui», insistette sperando di essere lasciata sola, ma l’altra si sporse verso di lei.
«Lo avevo immaginato, non ha un aspetto familiare», notò mentre Elettra l’ascoltava muta, attratta dal magnetismo del suo sguardo. «Precisamente viene da…?»
Lei si scosse, cercando una risposta. «In realtà non da molto lontano, ma raggiungere l’isola è stata un’avventura», rispose ripensando al viaggio. «Per un momento ho creduto che non sarei mai arrivata.»
«Tutti arriviamo dove è destino che si arrivi.»
Elettra ripeté sottovoce quelle parole, nel tentativo di memorizzarle; lei il suo destino lo stava costruendo, eppure non se ne era mai sentita padrona. La stessa decisione di partire era nata dalle parole di Eva, dal biglietto ritrovato in fondo a un cassetto; non era mai totalmente sua la responsabilità di ciò che faceva. «A ogni modo rimarrò qui solo qualche minuto, poi restituirò alle sorelle la pace del convento.»
Un lieve rossore intaccò il pallore delle guance della donna accanto a lei, che allargò le braccia a indicare l’intero edificio. «Qui non c’è nessuna monaca, può restare tutto il tempo che vuole.»
«Oh. Temo di aver fatto un po’ di confusione…»
«Io non sono una religiosa», rispose la donna scoprendo una fila di denti bianchissimi.
Elettra la osservò attentamente; non indossava il classico abito monacale, ma il suo passo leggero e gli abiti sobri l’avevano depistata. La squadrò da capo a piedi, negli occhi un rebus da decifrare.
«Lea Coureau, lieta di conoscerla», si presentò l’altra, precedendola, con la mano tesa verso di lei a spazzar via ogni dubbio.
Elettra la strinse cordialmente. «Elettra Cavani», rispose, mentre fra i pensieri prendeva forma la voce acuta della donna incontrata in paese e la sua espressione disgustata nel nominare Lea e il convento. Strinse forte la mano di Lea, soffermandosi a studiarla; quegli occhi dal taglio affilato e le labbra a cuore avevano qualcosa di sfuggente. Nel momento esatto in cui aveva incrociato il suo sguardo aveva percepito un che di irrisolto in lei, ma quel pensiero era evaporato prima ancora che potesse trasformarsi in parole.
Un rumore, il suono cristallino di un oggetto andato in pezzi, attirò il suo sguardo verso le finestre ai piani superiori; c’era qualcuno, lassù. Elettra vide distintamente una tenda chiudersi non appena sollevò la testa, e l’impronta di una mano sul vetro. Si voltò per chiedere spiegazioni a Lea, ma la donna era sparita dietro il colonnato che abbracciava il chiostro; in lontananza sentì l’eco dei suoi passi confondersi con suoni sconosciuti. Elettra archiviò con una scrollata di spalle l’inquietudine, pronta a fare la sua offerta alla Santa. Tirò con un gesto deciso la zip della borsa, e il chiostro si riempì all’istante dei profumi della cucina di Edda.
«Edda!»
Elettra si voltò di scatto.
L’aveva sentita distintamente, una voce aveva chiamato il nome di sua madre. In ginocchio ai piedi della Santa, sollevò di nuovo lo sguardo: tutte le finestre erano chiuse, le controllò una a una. “Sarò anche stremata ma non sono impazzita, dannazione”, si disse setacciando ogni millimetro della facciata, inutilmente. Tutto sembrava in ordine, immutato, aprendo la strada al sospetto strisciante di aver immaginato ogni cosa. Si asciugò la fronte, sfregandosi gli occhi. “Che sia solo suggestione?” si chiese osservando i pani avvolti nel lino bianco, mentre i pugni si serravano sulle cosce e la mente tornava alle parole di Eva, ai suoi moniti per quel viaggio. Non avrebbe mai avuto modo di scoprire la verità, se non si fosse messa in discussione. Fece un respiro profondo, gli occhi puntati al cielo, lì dove cercava sua madre. “E va bene, farò come volete voi. Come vuoi tu, di nuovo”, si corresse.
Depose i pani ai piedi della Santa e chinò la testa, nel petto la preghiera di una nuova speranza. Si concentrò sull’immagine di Edda, sul suo sorriso mai sbiadito. Si inginocchiò sul marmo sbeccato e, come le aveva suggerito Eva, pregò la Santa affinché Edda si risvegliasse dal coma, cercando di assorbire il silenzio che sentiva scendere a poco a poco dentro di sé. Di fronte a quella statua, in un vecchio convento dimenticato su una lingua di terra strappata al mare, per la prima volta si sentiva a suo agio, molto più vicina a Edda di quanto non lo fosse stata tenendole la mano nell’ultimo anno.
“Dev’essere quest’isola, il convento”, si giustificò, ma quando rialzandosi sentì di nuovo gli occhi blu polvere di Lea indugiare sulla sua schiena, ebbe la certezza che non si trattava solo di un condizionamento psicologico. «Tu l’hai sentito, poco fa?»
Lea si scostò una ciocca dal viso. «Sentito cosa?»
Elettra alzò la testa, l’indice puntato verso le finestre chiuse che affacciavano sul chiostro. “Già, e ora che le dico? Mi prenderà per pazza”, pensò. Strinse la presa sui manici della borsa al punto che le dita sbiancarono, e abbozzò un sorriso tirato. «Mi era sembrato di sentire una voce…»
«La magia del convento», rispose Lea senza scomporsi. «Sembra che qui il tempo non esista, che ci si possa sedere sul bordo del pozzo a guardare l’acqua e risvegliarsi dieci anni più tardi come niente fosse.» Si strinse nelle spalle, sfregandosi le braccia. «Spesso anch’io ho questa sensazione, ma purtroppo il tempo non si ferma mai. Corre sempre più veloce, portando via con sé lacrime e ricordi felici.»
Una scia di amarezza le arrochì la voce, del sorriso che dava luce al suo incarnato rimase solo una traccia opaca. Elettra annuì, mentre con la mano appoggiata alle colonne percepiva distintamente il respiro flebile della struttura; quel posto era vivo, lungo e dentro le sue pareti scorreva una linfa centenaria, la memoria delle cose.
«Cosa ti ha portato qui?» sussurrò Lea.
Elettra lanciò una breve occhiata alla donna e alla borsa vuota, trattenendo un brivido; la temperatura iniziava a scendere, da quando aveva messo piede al convento aveva completamente perso la nozione del tempo. «Lo dovevo a mia madre», rispose d’istinto.
Lea la guardò incuriosita. «È particolarmente devota a santa Elisabetta?»
«Sì, ma è più di questo. Ho la sensazione che mia madre sia in qualche modo legata a questo posto, solo che purtroppo non ho modo di accertarlo.»
«Come mai, tua madre ha problemi di memoria?» azzardò Lea abbassando la voce, partecipe del dolore che vedeva disegnarsi sul viso di Elettra.
Empatia. Un’altra parola scintillò nella mente di Elettra, incapace di deviare lo sguardo da Lea.
Le sorrise, riconoscente. L’idea di sfogarsi con qualcuno era una tentazione fortissima, e per rassicurarsi si ripeté che, se anche qualcosa fosse andato storto, tra meno di due settimane sarebbe tornata a casa e non avrebbe più rivisto quella donna. «Mia madre è in coma da un anno», bisbigliò, ed era quella la parte più difficile, da sempre; pensare che la donna che le aveva dato la vita non era più la persona che aveva combattuto e amato, era un colpo ogni volta più duro, malgrado tentasse di nasconderlo. «Un ictus; non credo che si risveglierà, i medici non sono ottimisti.»
Scosse la testa, arrabbiata e triste per una verità che non sapeva più fronteggiare, ma in quell’istante la mano di Lea strinse forte la sua facendole avvertire il conforto della sua presenza. Era solo un’estranea, eppure in quel momento Elettra sentì che non avrebbe voluto nessun altro accanto.
Le sorrise, riconoscente, e riprese a raccontare sino a quando il sorriso di Lea non la zittì.
«Non hai bisogno di cercare oltre. Puoi restare qui, se vuoi.»
«Ma io…»
«Sempre che tu non abbia già un alloggio, ovviamente.»
«No, non si tratta di questo», rispose Elettra, stringendosi nelle spalle. «È che non vorrei disturbare, tutto qui.»
«Nessun problema, non temere. Il convento è di mia proprietà ed è sconsacrato, le suore non ci sono più da anni, perciò come potrai immaginare ci sono più stanze di quante io riesca a occupare», le spiegò indicando con un cenno la struttura che si stringeva intorno al chiostro, mentre Elettra cercava di rimettere ordine nel caos della sua mente. Era stato liberatorio parlare senza pensare, senza contare le virgole, ma nonostante tutto continuava a sentirsi preda del dubbio, perennemente di fronte a un bivio.
«Resta qui, stanotte», le ripeté. «Sei sfinita, e ormai è tardi per tornare in paese; quando è buio il sentiero che scende al porto è pericoloso, ed è molto facile perdersi», aggiunse accennando al cielo striato di viola, mentre Elettra continuava a fissare Lea e la borsa vuota. In effetti la donna non aveva tutti i torti; le probabilità di perdersi con il buio aumentavano esponenzialmente. Adesso aveva bisogno di una doccia e lenzuola pulite: i dubbi e le paure potevano aspettare.
Lea si chinò a cercare il suo sguardo, captando i suoi pensieri. «Se è il prezzo che ti preoccupa, sappi che non ho intenzione di chiederti denaro, e se ti troverai bene con noi potrai rimanere tutto il tempo che vorrai. In cambio di qualche lavoretto in casa, s’intende», aggiunse sorridendo, ma Elettra aveva già smesso di ascoltarla, ferma alla frase precedente.
«Noi?» le fece eco.
«Esatto. Da qualche anno qui vivono altre due donne, Dominique e Nicole; si può dire che insieme formiamo una piccola comunità femminile. Siamo una famiglia.»
«Però», sussurrò, colpita.
«Allora, andiamo?» la spronò Lea. Un’offerta che Elettra non seppe rifiutare.
«Non so come ringraziarti», si arrese allargando le braccia. Posò la mano in quella fresca di Lea, seguendo ogni suo passo, ma durante la breve escursione per il convento non poté fare a meno di notare lo stato di abbandono in cui versava la struttura: il marmo dei pavimenti era roso dall’usura, il legno delle finestre bruciato dal sole e parzialmente nascosto dalla vegetazione che aveva invaso la facciata, e le stanze portavano impressa sulle pareti la traccia verdastra di un’umidità invadente, che sbriciolava l’intonaco in frammenti ammonticchiati lungo il perimetro delle sale.
L’odore di muffa, poi, pareva rincorrerle a ogni passo, ma Lea non sembrava prestarvi attenzione; continuava a camminare spedita per i corridoi, aprendo porte e cambiando direzione sino a far perdere l’orientamento a Elettra. Attraversarono un’ala in disuso e superarono una piccola cappella chiusa, sconsacrata, a quanto le disse Lea, e tuttavia considerata ancora un punto di riferimento dalle anziane del paese in cerca di conforto. Prima di salire una scala che conduceva al piano superiore, la donna le spiegò che lì si trovavano i vecchi alloggi delle monache. La visione delle pareti spoglie intervallate dalle imponenti cornici in noce delle porte le tolse il fiato; lei non era abituata a tanta austerità, e temeva di sentirsi in carcere fra quelle mura.
Lea si fermò davanti alla porta chiusa di una cella, che cedette sotto la pressione decisa della mano.
«Siamo arrivate», le disse appoggiandosi contro il battente per tenerlo aperto. «Tengo sempre una stanza pronta in caso di necessità, ma più tardi ti darò lenzuola pulite e un paio di coperte per la notte, se dovessi aver freddo. Come vedi non è il grand hotel, ma è decoroso», spiegò mentre Elettra faceva capolino per studiare l’interno; c’erano un tavolo con una sedia, un piccolo armadio e un letto appena sotto la finestra che si affacciava sul mare, con un grande crocifisso di legno a vegliare sui sogni. L’ambiente era scarno, ma sembrava pulito e abbastanza confortevole.
«Chissà se…» disse precipitandosi alla finestra in cerca dei punti di riferimento presi durante la giornata, ma rimase delusa nel non riuscire a ritrovarne nemmeno uno.
Un rumore di passi, e il respiro di Lea di nuovo fra i capelli.
«È naturale che tu non riesca a trovare il porto.» Tese il braccio a indicare la direzione opposta alla finestra, simulando con le mani la distanza fra il luogo in cui si trovavano e il molo d’attracco. «Il convento si affaccia sull’altro lato dell’isola, quello che immagino tu non abbia ancora visitato. Dal mio punto di vista è questa la parte migliore, la vera isola del Titano», aggiunse strizzando impercettibilmente gli occhi.
Elettra, però, sembrava delusa da quella notizia. «Perciò niente vista sul porto?»
«Già.»
Accarezzò le imposte impregnate di salsedine, lo sguardo rivolto alle sagome scure in mare.
«Vorrà dire che mi consolerò osservando le barche dei pescatori», ribatté, ma Lea non replicò. Appoggiò la spalla contro la porta, all’improvviso muta. Elettra, intanto, si guardava intorno incuriosita, cercando nell’arredo spoglio indizi delle vite che erano trascorse in quelle stanze. Posò la borsa sul tavolo e il piccolo bagaglio accanto alla porta. «Ho notato una cosa strana, oggi», riprese, catturando istantaneamente l’attenzione dell’altra.
«Che cosa?»
«Da quando ho lasciato la zona del porto non ho incontrato un solo uomo, solo donne vestite di nero incamminarsi lungo il sentiero verso il convento a testa bassa. Mi sembra quasi che esista una differenza sostanziale fra questa parte dell’isola e quella che si affaccia sul porto. In effetti non sembra correre buon sangue, come tra due fazioni rivali», precisò Elettra ripensando al tono sprezzante della donna cui aveva chiesto indicazioni per il convento.
«Già. Noi e loro siamo molto diversi, agli antipodi per tante ragioni.»
«Che intendi dire?»
Lea sbuffò. «Ad esempio qui non ci sono uomini, a differenza che in paese, come hai notato tu stessa.»
«Come mai?»
«Se ne sono andati da parecchio tempo.»
«Perché?» insistette.
«Una lunga storia che non piace a nessuno ricordare, ma che ha tracciato una crepa profonda fra la gente che vive sui fianchi opposti del Titano», tagliò corto Lea intrecciando le dita in una posa impaziente.
«Capisco», rispose Elettra, zittita dal tono dell’altra.
Lea, d’improvviso distante e rigida con le braccia ben strette lungo i fianchi, non sembrava aver gradito le sue puntualizzazioni sulla natura degli isolani. Sviò lo sguardo, cercando la fuga verso il panorama offerto dalla vista sul mare.
«Ho detto qualcosa di sbagliato? Se è così mi spiace, non era mia intenzione», azzardò infine Elettra per rompere il silenzio, ma l’altra scosse la testa e spazzò via con un sorriso tutte le nuvole dal suo volto.
«Non preoccuparti, non hai detto niente di sconveniente», la rassicurò. «Perché invece non andiamo a mettere qualcosa nello stomaco? Sto morendo di fame, e vorrei presentarti alle altre», aggiunse prendendola sottobraccio.