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La festa per il ventiduesimo compleanno di Paola si svolse la sera alle nove in una saletta appartata del ristorante dell’hotel Luna. In cambio di una grossa somma di contante passata sottobanco dal commendator Baglioni Garlaschi allo chef, ci furono evitate le restrizioni imposte dal tesseramento, sia per quanto riguardava le varie portate previste dal menu, sia per il dessert, comprendente oltre alla torta con le relative candeline autentico caffè e vari liquori.

Paola quella sera era splendida, vaporosa di parrucchiere, truccata con discrezione. Indossava un abito di lamè azzurro appena uscito da una boutique di Riva degli Schiavoni e arricchito da un collier di perle nonché dal famoso orologio Baume & Mercier che le avevo riportato da Roma. Ma un velo di tristezza le offuscava il volto. Il tradimento sanguinario di quella che riteneva un’amica la lasciava incredula, sbigottita.

«Avevo tanta fiducia in Milena!» disse in tono amaro quando ebbi riferito a lei e al padre le conclusioni della mia pericolosa indagine.

«Dove l’hanno portata, all’hotel Giudecca?» chiese con un brivido.

«Sì, e sarà molto difficile che possa eludere la massima pena… È l’omicidio di Carmela Correos, privo di qualsiasi attenuante, che graverà in modo determinante sulla sua sorte.»

Subentrò un pesante silenzio.

«Vi eravate conosciute a un concerto, se non ricordo male?» domandai rivolto a Paola.

«Sì, al Circolo degli amici della musica. Milena era una frequentatrice abituale e mi piacque subito. Sembrava così franca, così sincera». Sospirò.

«E invece ha tentato di farti incriminare come assassina di tuo marito» osservò duro il commendatore. Paola non disse niente. Ci trasferimmo nella saletta del ristorante dove i camerieri in livrea iniziarono a servirci la cena.

L’altoparlante della radio, a basso volume, trasmetteva una canzone di Nisa e Redi, cantata da Tina Allori.

 

Notte e dì,

soli, soli,

con le mani nelle tue mani

fino all’alba dell’indomani…

 

La cena si svolse in un’atmosfera di falsa allegria tra un susseguirsi di antipasti, risotti e pesce di ogni genere. Il tutto innaffiato di vini pregiati, che andavano dal Barolo Riserva 1939 al Tokai dell’anno precedente. Quando si arrivò al taglio della torta, eravamo già abbastanza ebbri. Il colpo di grazia a Paola lo dette lo champagne, e a me i tre bicchierini di Fernet. Ci accomiatammo piuttosto tardi, Baglioni Garlaschi mi fissò un appuntamento per le dieci del mattino seguente: avremmo con calma risolto il nostro rapporto professionale, e deciso l’ora della partenza.

Appena rimasi solo, salii in camera e telefonai a Elena. Tramite Cammarata, potevo usufruire della linea telefonica riservata al suo ufficio, e dopo un’attesa di pochi minuti riuscii a ottenere la linea con Roma, che poi tra pause e passaggi vari venne dirottata su Zagarolo. Elena era di cattivo umore, ma contrariamente alle mie aspettative si mostrò molto addolcita, quasi avesse intenzione di farsi perdonare il bruciante telegramma.

«Com’è andata la cena con il farmacista?» le chiesi dopo i primi convenevoli fingendo indifferenza.

«Un disastro» rispose incupita.

«Perché, non si è comportato bene?» azzardai.

«No, tutt’altro.» Fece una pausa impacciata e riprese: «Sai, voleva che gli dessi un consiglio, per questo mi aveva invitato. È innamorato».

«Di te?»

«No» sospirò. «Di un corista della Filarmonica. Un ragazzo di ventidue anni che sembra un cherubino del Beato Angelico.»

Mi trattenni a stento dall’esplodere in una risata liberatoria. Fu Elena invece che rise a lungo divertita.

«Quando torni? Non vedo l’ora…» mi chiese con un sottofondo di nostalgia.

«Forse domani» dissi. «Aspettami.»

In quel momento il rombo di un tuono, seguito da un secco boato fece cadere la linea e fui costretto a desistere dalla telefonata. Di lì a poco, si scatenò il temporale. Intensi scrosci d’acqua si riversarono su Venezia, lampi e fulmini presero ad alternarsi sempre più frequenti illuminando a tratti la stanza. Una sarabanda che assomigliava a un bombardamento aereo. Ero in pigiama e corsi a chiudere le tende della finestra. In quel momento, qualcuno bussò alla porta con insistenza.

«Bruno! Bruno, mi apra la prego!» I colpi alla porta non smettevano e corsi ad aprire. Mi trovai di fronte Paola, in camicia da notte e scarmigliata. Tremava tutta, mi si gettò addosso d’impeto, mentre il violento schianto di un fulmine faceva tremare i vetri della finestra.

«Ho paura!» gemette stringendosi a me. «Mi faccia rimanere qui con lei, la prego, non ho il coraggio di stare in camera mia da sola!»

Fu interrotta dall’esplosione vicinissima di un fulmine. Reagì con un sobbalzo.

«Su, venga… Non abbia paura, si calmi!» cercai di rinfrancarla.

Era notevolmente ubriaca, perché appena richiusi la porta avanzò barcollando verso il letto e vi si lasciò cadere levando in aria i piedi per liberarsi delle scarpine da notte.

«C’è ancora dello champagne con le bollicine?» balbettò con un piccolo singulto, e intanto mi guardava maliziosa, con un seno scoperto e una ciocca di capelli biondi che le ricadeva sensuale in mezzo agli occhi.

«No, ho solo dell’acqua minerale» dissi. «E ha bevuto abbastanza. Avanti, si sdrai sotto le coperte e faccia la brava. Tra poco il temporale passerà, e potrà tornare in camera sua a dormire.» Le lanciai un’occhiata e mi recai nel cucinotto a prendere l’acqua minerale. I fulmini seguitavano a squarciare il buio della notte e la pioggia a scrosciare con intensità raddoppiata.

Quando mi avvicinai e deposi la bottiglia, rimasi allibito. Paola giaceva distesa sul letto completamente nuda. Mi guardava con gli occhi ardenti di desiderio, e uno strano sorriso aleggiava sulle sue labbra turgide.

«Avanti, si copra» dissi avvicinandomi per porgerle la camicia da notte raccolta da terra.

«Sì, dopo» sussurrò protendendo entrambe le braccia verso di me. Persi la testa, e mi lasciai attirare sul letto. Sentivo che era una pazzia, ma risposi con foga al suo abbraccio e non mi ritrassi che all’alba, quando ormai il temporale era lontano e lei dormiva un sonno appagato.

 

Erano le nove, e Paola non si era ancora svegliata. Dopo una rapida doccia e una rasatura affrettata scesi a incontrare il padre nel bar dell’albergo. Il portiere di turno mi chiamò per consegnarmi un plico appena recapitato a mio nome. Lo aprii incuriosito. Era un libro, La storia di San Michele di Axel Munthe. Nella prima pagina vi era una dedica: Grazie. Spero di incontrarla un giorno a Capri, e che piova a dirotto. F.B.

Sorrisi tra me e mi chiesi, perplesso, se la contessa avesse avuto sentore anche del temporale di questa notte infuocata. Quello che era successo con Paola, tutto sommato, era stato un altro incidente sul lavoro. Che non avrebbe avuto ripercussione su Elena. Il detto «occhio non vede, cuore non duole» era sempre valido.

 

Ci separammo, con Paola e il padre, al termine della mattinata. Nel ringraziarmi per tutto quello che avevo fatto per lei, la ragazza mi abbracciò con un sorriso indecifrabile, simile a quello della Gioconda.

«È stato bellissimo» sussurrò.

«Noi ci trasferiamo in Svizzera, a Bellinzona» mi spiegò Baglioni Garlaschi prima di salire sull’idrotaxi che li avrebbe condotti al parcheggio nei pressi di piazzale Roma dove aveva lasciato la macchina. «Possiedo una casa là, e mia moglie vi si è già trasferita. Aspetteremo gli eventi lontano da questa maledetta guerra che sta mandando in rovina il nostro Paese.»

Il commendatore mi mise in mano un assegno.

«Per sopravvivere un annetto» disse cordiale. «Suppongo che partirà oggi stesso per Roma.»

Scossi la testa, rabbuiato. «Impossibile. Cammarata ha appena saputo da Guido Leto che i tedeschi stanno per emanare un ordine di arresto nei miei confronti.»

«Su che basi?» chiese incredulo.

«Sostengono che ho avuto dei contatti clandestini con uno dei sabotatori del Luce.»

«E allora perché non viene con noi a Bellinzona? Là sarà al sicuro!» propose il costruttore. Compresi che Paola, anche senza dir niente, approvava con uno sguardo supplice l’invito del padre.

«Grazie» replicai deciso. «Montagna per montagna, resto in Italia.»

Rimasi a lungo a guardare l’idrotaxi che si allontanava sul Canal Grande, lasciando dietro di sé una lunga scia di schiuma.

Poi rientrai in albergo e raccolsi in fretta la mia roba con la quale riempii una grossa sacca di tela da marinaio, che avevo acquistato in un mercatino in previsione del peggio. Ci misi anche La storia di San Michele con la dedica della contessa Barbarigo.

Dopo un rapido saluto a Cammarata e al suo vice, che conoscevano dalla sera prima la mia destinazione, mi avviai a piedi al sestiere Castello. Il ciabattino Balduccio, a quanto avevo saputo in una locanda, aveva il deschetto in Corte Nuova, una calle corta e stretta a ridosso di un canale torbido. Era una zona di povera gente e di piccoli malfattori che avrebbe reso orgoglioso il grande Evaristo Moretti. Balduccio era un vecchio sdentato, portava occhialetti da miope e fumava un mezzo toscano puzzolente. Gli spiegai chi ero e che cosa volevo da lui.

«Uhm… La vostra faccia mi convince mica mio bel sior, avete i connotati da polisiotto!»

«Non lo sono più!» dissi con fermezza. «Fidatevi di me… Ho scarpe buone» aggiunsi scherzando. Il ciabattino allargò le braccia in segno di resa.

«E va bene. Andate a bervi un quartino in qualche mescita e tornate appena cala il sole!»

Quando fu buio, Balduccio mi accompagnò a un imbarcadero nei pressi della Darsena Grande e mi aiutò a salire su una piccola imbarcazione a motore in attesa tra i salici della riva. «Questo è per lo Spagnolo!» disse al giovane barbuto in tuta mimetica che stava al timone. Il giovane si limitò ad annuire e in cinque minuti prendemmo il largo. Non ero solo. Con me, sul natante, c’era un tizio che aveva tutta l’aria di un prigioniero alleato evaso da un campo. Mi offrì una sigaretta, e me l’accese, era una Navy Cut britannica. Dopo un’oretta di navigazione al buio, accostammo alla riva in un’ansa isolata della Laguna. Là fui accolto da Corrado Verneri, che comandava il Raggruppamento Errico Malatesta della 201ma Brigata partigiana.

Ci stringemmo la mano in silenzio. Cominciava la mia nuova pericolosa avventura.