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Nella notte misteriosa se un tintinnar

viene, o bimba,

il tuo sonno a conturbar,

è una donna che dà l’addio alla sua virtù, bada bimba,

l’onor che va non ritorna più!

 

La gloriosa compagnia di operette La Lombardiana, mal ridotta dal razionamento dei generi alimentari, dalla penuria di spettatori paganti, dallo scarso impegno di cantanti stonati e di ballerine dai seni cascanti, si esibiva quella domenica di febbraio 1944 al teatro comunale di Zagarolo ne Il Paese dei Campanelli, celebre successo degli anni Venti di Carlo Lombardo e Virgilio Ranzato.

Alla rappresentazione dell’operetta – una pièce imperniata sulle corna dei mariti di un paesino olandese contraddistinto da un eccessivo numero di zoccoletti, nel senso di calzature tipiche del posto, e di zoccolette, nel senso di donne di dubbia reputazione – assistevo insieme a Elena, la mia ex cognata ormai mia compagna di vita da quattro anni colmi di passione ma alquanto conflittuali.

Alle 23 precise, ora di inizio del coprifuoco, con un crescendo musicale dell’orchestrina e un penoso sculettare del corpo di ballo, Il Paese dei Campanelli terminò, tra pochi applausi e qualche fischio. Zagarolo, più che un paese di campanelli, era un paese di pecorari e di sfollati romani per lo più arricchiti con il mercato nero.

Anch’io facevo parte degli sfollati, ma purtroppo appartenevo alla minoranza che con il mercato nero si era molto impoverita.

All’inizio dell’autunno precedente mi ero deciso a chiudere definitivamente la mia agenzia di investigazioni a Roma, in via Piemonte 22, nel quartiere Pinciano. Sulla porta era rimasta ben visibile, anche se un poco appannata, la vecchia targa di ottone con il logo “Investigazioni Bruno Astolfi” inciso in corsivo.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre e le convulse vicende dei giorni immediatamente successivi, gli occupanti tedeschi e i risorti fascisti della Repubblica Sociale Italiana avevano instaurato un regime di terrore nella capitale, già vessata da lunghi mesi di fame, di privazioni e di bombardamenti aerei. Il fronte si era stabilizzato a Cassino, lungo le montagne sovrastanti la valle del Liri, e i poveri romani attendevano sfiduciati che gli eserciti alleati si decidessero a sfondare le fortificazioni tedesche della Linea Gustav e a liberare la città eterna.

Per ordine tassativo dei nuovi padroni, erano state ritirate le licenze relative all’attività di investigazione privata. Si preferivano i delatori e le spie, evidentemente. In più, era stato fatto divieto assoluto, pena la morte, di detenere armi da fuoco di qualsiasi genere, salvo un permesso speciale delle autorità germaniche. Non mi restò che fare i bagagli e raggiungere Elena, sfollata da diverso tempo a Zagarolo con la figlia Anna e la zia, che possedeva un cascinale con orto ai margini del paese.

Trascorsero lunghi mesi di inedia, di inattività forzata, nell’attesa di una liberazione che tardava a venire e si dimostrava sempre più aleatoria. Anche lo sbarco di un forte contingente anglo-americano sulle spiagge di Anzio e Nettuno, a gennaio, si era rivelato un grosso insuccesso: gli inesperti marines erano rimasti impantanati nelle ex paludi Pontine e rischiavano di essere ributtati in mare dalle divisioni tedesche del tenace feldmaresciallo Albert Kesselring.

Contrariamente al solito, andammo a dormire molto tardi, quella domenica sera, quasi a mezzanotte. L’operetta era stata un intermezzo penoso. E io stentavo a celare il mio pessimo umore: ero rimasto a corto di sigarette Macedonia Extra e quanto a Fernet, il mio liquore preferito, me ne era avanzato sì e no un quarto di bottiglia. Inoltre soffiava da giorni la tramontana e faceva freddo, un freddo boia che i pochi ceppi nel camino non riuscivano ad attenuare se non per qualche ora.

Io ed Elena, che tutti a Zagarolo ritenevano erroneamente la mia legittima consorte, ci eravamo sistemati in un soppalco del vasto stanzone al piano terra della ex cascina, mentre Anna, la ragazzina che Elena aveva avuto dal mio defunto fratello Luigi, dormiva con la zia nell’unica camera da letto del piano rialzato.

«Dai, Bruno, non fare quella faccia… Abbiamo visto di peggio!» scherzò Elena mentre mi versava, facendo attenzione a non sprecarne neppure una goccia, un sorso di liquore. «Dopo tutto, la cantante quanto a voce non era granché, ma almeno aveva delle belle gambe!»

«Già, era la migliore delle zoccolette.»

Scossi la testa, bevvi d’un fiato il Fernet, e accesi la radio Marelli a cinque valvole che mi ero portato appresso da via Piemonte. Stavano trasmettendo il notiziario della notte. Dopo le solite balle relative alle operazioni militari sui vari fronti, una notizia di cronaca attirò la mia attenzione.

“… Nel carcere di Venezia, è morto suicida la scorsa notte il finanziere Alberto Grenier, persona piuttosto nota negli ambienti della Borsa. Il Grenier, che era stato sentenziato a morte dall’Alto Comando Germanico per esportazione illegale di valuta e sabotaggio, si è impiccato alle sbarre della cella eludendo la sorveglianza dei secondini. È stata disposta l’autopsia ed è in corso un’inchiesta per l’accertamento di eventuali responsabilità.”

Elena ebbe un moto di stupore e aggrottò la fronte, intristita.

«Grenier? Sono stata compagna di liceo di sua sorella Livia. Poveretta, morì di leucemia prima di terminare il secondo anno di Lettere.»

«Una famiglia sfortunata» sbadigliai mentre spegnevo la radio. Non potevo certo prevedere che quel suicidio, nelle settimane successive, mi avrebbe provocato un sacco di guai.

 

A svegliarmi, la mattina seguente, non fu il canto del gallo, che era finito in pentola la vigilia di Natale, ma il frastuono di un’autocolonna militare seguito da alcune raffiche di mitra e grida rauche in tedesco. Preceduto da una camionetta delle SS, un convoglio dell’Organizzazione Todt stava occupando la piazza principale del paese per fare incetta di manovalanza da destinare alle opere di fortificazione sul fronte di Cassino. Seguii teso quanto accadeva da una finestrella occultata nel sottotetto; quando mezz’ora dopo i tedeschi se ne furono andati e Zagarolo fu ripiombata nella quiete consueta, ebbi un’accesa discussione con Elena. Avevo già manifestato la mia intenzione di fare una scappata a Roma. Ero senza un soldo, pieno di debiti, la mia Lancia Ardea giaceva priva di pneumatici in un garage di via Boncompagni, e prima o poi sarebbe stata sequestrata da qualche banda fascista. Inoltre, avevo urgente bisogno di sigarette e di qualche bottiglia di Fernet.

«Ma tu sei pazzo!» reagì Elena appena le comunicai che facevo un salto in città. «Hai dimenticato i tuoi precedenti con quel sovversivo, Verneri, a cui avevi dato rifugio nel tuo ufficio? Ti salvasti dall’Ovra chissà come, ma sei rimasto nella lista dei nemici del Fascio. Se ti beccano, finisci diritto in Germania!»

Nella foga, la mia compagna faceva risaltare al massimo la sua naturale bellezza mediterranea, rigenerata dalla vita all’aria aperta e dalla serenità acquisita dall’avermi sempre vicino, non più esposto alle tentazioni del mondo del cinema. La sicurezza di sé, scevra di antichi dubbi, le traspariva nello sguardo carico di sensualità consapevole e non più dissimulata.

Ma adesso sembrava una furia, decisa a non mollare di un centimetro il terreno guadagnato a caro prezzo negli ultimi mesi.

Protesi le mani avanti come a bloccare sul nascere il suo attacco frontale.

«Non esagerare, cara… Devo solo sistemare un paio di incombenze in sospeso e recuperare un credito dal mio amico Evaristo Moretti, il falsario, quello delle tessere alimentari… In un giorno vado e torno.»

Elena ebbe un gesto di stizza.

«Mettiti il cappotto, almeno» disse cupa e uscì sbattendo la porta. Sapeva che ero caparbio e che non mi avrebbe dissuaso dalla mia decisione. Si allontanò in bicicletta senza voltarsi indietro, pedalava con rabbia verso la modesta merceria che gestiva provvisoriamente in corso Garibaldi.

Mezz’ora dopo, ottenni un passaggio sul furgone di un ortolano che nel giro di un’ora mi scaricava a Roma, nei paraggi di piazzale della Radio. Da lì, con un tram affollato di gente scalcagnata e intirizzita dal freddo, raggiunsi Porta Portese. Non era ancora mezzogiorno di lunedì 21 febbraio 1944. Nel suo bugigattolo di rigattiere, ormai semivuoto come le bancarelle del mercato circostante, scorsi infreddolito e maleodorante di cattiva grappa il mio antico sodale Evaristo Moretti, pregiudicato per reati di falso e ricettazione, ma politicamente affidabile.

«Ecco il pacco, dottore» disse saltando come sempre i convenevoli. Mi porse uno zaino sbrindellato contenente venti pacchetti di Macedonia Extra e due bottiglie di Fernet Branca. «Fatevele durare, le sigarette… La prossima volta può darsi che mi trovate a Regina Coeli!»

«Quando mai, a Regina Coeli oggigiorno ci mettono i comunisti, mica le canaglie!»

«Appunto» annuì serio guardandomi fisso con i suoi occhi cisposi.

Accennai un sorriso, afferrai lo zaino e gli misi in mano una banconota da cinquecento lire.

«Comprati un cappotto nuovo!» dissi mentre mi affrettavo verso la fermata del tram.

Roma mi fece un effetto deprimente. Appariva come una città fantasma: le strade erano semivuote, oltre ai pochi mezzi pubblici transitavano solo camionette tedesche o macchine requisite dalla milizia fascista, che ora si chiamava pomposamente Guardia Nazionale Repubblicana. I volti dei rari passanti erano torvi e sospettosi, la gente in fila davanti ai forni taceva rassegnata e sgomenta. Erano spariti i carabinieri, i suonatori ambulanti, i venditori di caldarroste e le donne incinte. Sì, perché i pochi mariti ancora in libertà avevano troppi pensieri e acciacchi per ingravidare le mogli.

Feci un salto a via Piemonte per ritirare la posta. Il portiere si era arruolato tra i fascisti repubblicani ma la signora Elide, la moglie, che a differenza del marito spione era una brava persona, mi salutò come al solito con effusione.

«Dottore, giusto lei… Ieri è venuto a cercarla il commendatore… Gli ho detto che con la signora Elena siete sfollati a Zagarolo, ma che non sapevo l’indirizzo. Ho fatto bene?»

«Benissimo, Elide… Se il commendatore dovesse rifarsi vivo, gli dica che sono disoccupato e non posso pagare l’affitto.»

La donna allargò le braccia sconsolata, senza fare commenti.

Prima delle sei di sera, ero di ritorno a Zagarolo. E qui mi attendeva una sorpresa. Posteggiata davanti alla ex cascina scorsi una fiammante Isotta Fraschini berlina color antracite. Un autista in spolverino grigio sostava in piedi vicino alla macchina e si portò educatamente la mano alla visiera del berretto quando gli passai davanti. Non tardai a comprendere chi fosse il misterioso visitatore: dalla porta socchiusa dell’edificio si sprigionava un fragrante profumo di caffè: era caffè-caffè, per intenderci, quello di prima della guerra, di cui mi aveva già fatto omaggio, quasi un anno prima, il commendator Giuseppe Baglioni Garlaschi, facoltoso imprenditore della capitale e proprietario dell’edificio di via Piemonte dove avevo il mio domicilio e la sede dell’agenzia investigativa.

Era seduto al tavolo di cucina, il facoltoso imprenditore in questione, con indosso un elegante paltò di cammello firmato Caraceni e un foulard di cachemire color tortora distrattamente adornato da una spilla d’oro. Elena gli stava servendo compita una tazzina di caffè fumante. Ne porse una anche a me, indicando eccitata con gli occhi un pacco appoggiato sul tavolo, all’interno del quale s’intravedevano, oltre a vari sacchetti di caffè, anche confezioni di zucchero e di cioccolato svizzero.

«Il commendatore è sempre così gentile!» cinguettò sorridente e nel chinarsi a porgergli la tazzina lo sfiorò appena con il seno erto.

«Spero che scuserà la mia intrusione, dottor Astolfi, ma purtroppo…» borbottò il Baglioni Garlaschi con voce atona, e anziché finire la frase si strinse nelle spalle e tacque.

Ricambiai con un sorriso svagato e una stretta di mano.

«È un piacere rivederla, commendatore, anche se le circostanze non sono quelle che vorrei» dissi serio. E aggiunsi: «Spero che sua moglie e sua figlia Paola stiano bene».

Tardò a rispondermi: attese imbarazzato che Elena si ritirasse discreta nell’altra stanza lasciandoci soli.

«È la terza volta che mi rivolgo a lei a causa di mia figlia!» sospirò estraendo un astuccio di pelle dalla tasca del paltò firmato Caraceni.

«Purtroppo Paola è la solita sventata» aggiunse deponendo l’oggetto sul tavolo. «Si è sposata contro la mia volontà sette mesi fa, non potei oppormi, ormai era divenuta maggiorenne… E sa con chi?»

Scossi la testa, basito dalla sorpresa.

«Con un certo Lino Plisman, di professione attore del cinema… Lo conosce?»

Feci cenno di no. «Mai sentito nominare.»

«Neppure io, prima che mia figlia me lo imponesse come genero. È un perdigiorno… Uno che interpreta personaggi minori, quando capita. Ma non mi fu possibile impedire queste nozze incaute, ho dovuto rassegnarmi. E così mia moglie.»

Subentrò un lungo silenzio.

«Dove si trova adesso Paola?» chiesi.

«A Venezia. Ha seguito là il marito che sta facendo del cinema nel cosiddetto Cinevillaggio. Lei ne sa niente?»

Mi strinsi nelle spalle. «Quel tanto che ho letto sui giornali. Dal giorno che Cinecittà è stata occupata dalle fanterie tedesche l’attività delle produzioni di film praticamente è cessata, e i cinematografari, o meglio, una parte piuttosto esigua di essi, si sono trasferiti al Nord, a Venezia, dove stanno ricostruendo un surrogato di Cinecittà, detto appunto Cinevillaggio.»

«Ma i grandi nomi dello schermo come De Sica, Nazzari, Alida Valli, Blasetti, Camerini sono rimasti a Roma!» scandì Baglioni Garlaschi infervorato.

Annuii distogliendo lo sguardo.

«Sì, sono partiti solo quelli che hanno aderito alla Repubblica di Mussolini, per fede fascista o per bisogno» precisai poi con un sospiro. «Tutta gente di seconda fila, attratta da lauti compensi e da opinabili illusioni di gloria.»

Il costruttore aprì l’astuccio di pelle e ne trasse un orologio Baume & Mercier da donna in oro massiccio tempestato di brillantini. Me lo porse.

«È il mio regalo di nozze.» Mostrò la dedica incisa sulla cassa: A PAOLA DA PAPÀ.

«Mi costò la bella somma di settantamila lire… è un pezzo unico, da collezione.»

Dopo una lunga pausa, riprese con tono amareggiato: «Ho dovuto ricomprarlo tre giorni fa da un ricettatore di Mestre, un pregiudicato coinvolto in loschi traffici».

Si alzò in piedi e dopo aver riposto il gioiello nella custodia, mi rivolse un’occhiata supplice.

«Le chiedo il favore di riportarlo a Paola, a Venezia. Con questa missiva, che dovrà consegnarle all’insaputa del marito… Se la sente?»

Rimasi senza parole per un buon minuto. Si percepiva, nel silenzio della campagna, solo il lontano abbaiare di un cane.

Mi passò il foglio protocollo spiegazzato che mi affrettai a leggere.

“Ricevo dal commendator Giuseppe Baglioni Garlaschi la somma di lire quarantamila per il riscatto di un orologio da donna in oro e brillanti, marca Baume & Mercier, vinto in una partita a poker lo scorso mese di gennaio 1944 all’hotel Danieli di Venezia. In fede, Guglielmo Seghezzi.”

Fece un gesto brusco, come a significare di tenermi il foglio.

«Sono pronto a pagarle quindicimila lire per il suo disturbo, Astolfi, spese escluse. E in più le abbuono l’affitto arretrato di via Piemonte. In fondo, la sua missione richiederà in tutto tre o quattro giorni.»

Dalla porta semiaperta di comunicazione con il soggiorno intravidi Elena che mi faceva disperati segni di no con la mano. Il che m’indusse ad accettare, probabilmente per non sentirmi più ostaggio di una donna.

«D’accordo» dissi. E subito dopo obiettai: «Ma io non ho più la licenza!».

«A questo si può rimediare. Si fidi di me, ho buone aderenze in alto loco.»