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Il cinema Splendor, ubicato nello spazioso campiello prospiciente la Galleria dell’Accademia, al sestiere Dorsoduro, era un locale di seconda visione frequentato da un pubblico popolare. Vi arrivai con un lungo tragitto a piedi. Sfoggiavo un completo di flanella grigia modello anteguerra, che avevo acquistato di seconda mano al mercatino di Riva degli Schiavoni. E una camicia rosa pesca con cravatta verde ancora immune da macchie di mostarda. Ci tenevo a fare bella figura con questa ragazza di nome Frida, per questo avevo proceduto a un adeguato restauro dal barbiere dell’albergo, concedendomi pure una frizione alla lavanda Borsari di Parma per la modica somma di lire sessanta, taglio di capelli e rasatura compresi.
Mi soffermai davanti al bar adiacente l’ingresso del cinema, che programmava il successo tedesco Arrivederci Francesca. Accesi una sigaretta e controllai l’ora: mancavano otto minuti alle cinque, ero in leggero anticipo. Osservai impaziente le locandine esposte nella vetrina, tutti film di imminente programmazione. Resurrezione, con la Duranti e Claudio Gora, Il corvo, una pellicola francese con Pierre Fresnay, diretta da un certo Henri-Georges Clouzot, mai sentito nominare. E (non) dulcis in fundo, il famigerato Süss l’ebreo.
Alle cinque in punto, varcai la soglia del bar. C’erano pochi clienti seduti ai tavoli, qualche pensionato, coppie di studenti con i libri di scuola e militi della GNR in compagnia di domestiche dall’aria piuttosto disponibile.
Individuai quasi subito il tavolo d’angolo cui sedeva una giovane donna dai capelli di un biondo acceso, arricciati coi ferri secondo la moda. Portava degli occhiali da sole scuri ed esibiva tra le mani una copia del settimanale illustrato «Signal». Certo di non sbagliarmi, mi avvicinai al tavolo con il mio pacchetto bene in vista.
«Signorina Frida, mi permette di sedere accanto a lei?» chiesi con un goffo inchino e un sorriso che voleva essere seducente come quello di Amedeo Nazzari nel film Cavalleria.
«Prego, si accomodi» farfugliò la ragazza e si tolse gli occhiali facendosi rossa in faccia per l’emozione.
Per qualche minuto ci fu un silenzio imbarazzante, rotto solo dai cicalecci dei militari con le domestiche in libera uscita.
«Gradisce una tazza di karkadè?» azzardai con un secondo sorriso, questa volta nello stile appassionato di Leonardo Cortese in Una romantica avventura.
«Grazie… Preferirei un’aranciata, Beccaro possibilmente. È meno gassata…»
Per darsi un tono, prese ad armeggiare con gli occhiali da sole e notai che la sua espressione vigile non era scevra da un’ombra di sensualità trattenuta.
«Lei è tedesca, signorina Frida?» chiesi dopo aver fatto le ordinazioni a un cameriere strabico.
«Niente affatto! Italiana di Ortisei, vicino Bolzano. Di cognome fo Holzner. Dopo la separazione dei miei genitori ho vissuto con mia madre a Livorno e per mantenermi agli studi ho fatto un po’ di tutto, la commessa da Upim, la pedicure, e anche la comparsa in qualche film. Siccome ho il diploma di stenodattilografa e scrivo perfettamente in tedesco, ho trovato un impiego qui a Venezia, al Comando Regionale dei Servizi di Sicurezza del Reich.»
«Ed è… fidanzata con l’ispettore D’Avanzo?» sondai.
Scosse il capo, quasi offesa. «Guardi si sbaglia… Sono stata compagna di scuola di sua sorella Tea, semplice amicizia.»
«Non volevo essere indiscreto, mi scusi.»
Accennò un sorriso e mi fissò in modo strano. «Non ho ancora trovato l’anima gemella.»
«La troverà, lei è una signorina seria e attraente» dissi con l’intenzione di farmela amica.
«Seria sì, attraente non so… Lascio a lei giudicare» rispose come se aspettasse da me una valutazione rassicurante.
A trarmi d’impaccio arrivarono le ordinazioni, aranciata Beccaro per lei, un vermouth Cinzano per me. Ne bevvi un sorso e allungai verso Frida il pacchetto con il flacone di profumo.
«Questo è per lei» dissi.
«E questo per lei» sussurrò passandomi svelta la rivista di propaganda nazista «Signal». Aprii il settimanale quel tanto che bastava per intravedere tra le pagine una serie di cartelle dattiloscritte. Lo ripiegai in fretta.
«Grazie» dissi a bassa voce.
Si protese verso di me con aria da congiurata. «L’ho battuto io stessa a macchina.»
«Non se ne accorgeranno?» chiesi preoccupato.
«Ne avevo fatte sei copie, anziché cinque come di consueto… Una l’ho tenuta per me, ben nascosta.»
La guardai ammirato. Frida era fisicamente una ragazza come tante, ma non difettava né di astuzia né d’intelligenza.
Stavo per esprimerle il mio apprezzamento, quando fui interrotto dall’entrata imprevista di una ronda tedesca.
Mi voltai di scatto e scorsi tre soldati delle SS, armati di mitragliette, che preceduti da un sergente si disposero a semicerchio nel bar.
«Tutti fermi, schnell!» grugnì il sergente. «Poco fa c’è stato vile attentato con camerata ferito. Dobbiamo fare perquisizione!»
I tedeschi iniziarono a perquisire il barista e la cassiera, mentre i clienti si scambiavano occhiate timorose in attesa del proprio turno. La signorina Frida, dopo alcuni istanti di smarrimento, ebbe un’idea grandiosa. Estrasse dalla borsetta il portacipria e il rossetto. Mi porse il portacipria aperto e sussurrò a bassa voce. «Tenga lo specchio puntato sul mio viso e resti calmo!»
Feci un segno di assenso. Con i gomiti che premevano sulla rivista «Signal» tenevo fermo lo specchietto con entrambe le mani. Frida prese con naturalezza a passarsi il rossetto sulle labbra, specchiandosi civettuola nel portacipria.
Il sergente, un colosso dall’aspetto del boia, si diresse verso di noi proferendo alcuni secchi ordini in tedesco. Frida non si curò di obbedire, seguitò tranquilla a passarsi il rossetto sulle labbra, mentre le mie mani occupate a reggere lo specchietto erano mosse da un lieve tremito.
Il nazista ci studiò per diversi secondi, incerto sul da farsi. La tensione era salita a livelli insostenibili, ero certo che avrebbe scoperto il dossier da un momento all’altro. Stava già allungando la mano sul tavolo, quando con grande presenza di spirito Frida pronunciò delle frasi in tedesco, in tono cortese ma fermo.
Il sergente si fermò, fece per ribattere qualcosa, poi scorse la rivista «Signal» e si aprì in un sorriso. «Gut, Kamarad!» esclamò battendomi una mano sulla spalla. E rivolto a Frida, si portò la mano al berretto in segno di saluto. «Auf wiedersehen, fräulein!»
Uscì portando via a spintoni un pensionato privo di documenti.
Non appena rimanemmo soli, tirai un sospiro di sollievo e mi asciugai il sudore freddo dalla fronte con un fazzoletto.
«Ma che cosa gli ha detto a quel maiale?» chiesi poi incuriosito.
Scoppiò a ridere. «Che non è bello disturbare una ragazza mentre amoreggia con il suo fidanzato!»
Risi a mia volta, scaricando tutta la tensione accumulata.
Frida Holzner si alzò, e ripose nella borsetta i suoi oggetti assieme al pacchetto con il profumo.
«Buona fortuna!» disse stringendomi la mano a lungo. «E sia prudente, mi raccomando!» aggiunse mentre si avviava rapida fuori del bar.
Cinque minuti dopo, fui raggiunto da Cammarata, che entrò trafelato seguito dal bravo D’Avanzo.
«Come è andata?» chiese stranito il mio ex collega di Accademia.
«Abbiamo visto uscire una ronda di quei dannati mangia crauti.»
«Tutto bene, ho il dossier» lo rassicurai mostrando la rivista.
«Visto?» commentò trionfante D’Avanzo. «Sono così bravo che se fossimo a Parigi mi assumerebbe il commissario Maigret!»
«Ma siamo a Venezia, e qui il Maigret sono io, per cui taci o ti rimando a cercare funghi a Ortisei!»
«Su, non perdiamo tempo, andiamo!» dissi frenetico.
«Dove?» chiese il collega e ammiratore di Patanè.
«Al cinema, no? Ci sono degli ottimi cessi» troncai precedendoli nel vestibolo dello Splendor attiguo al bar.
Comprammo tre biglietti ed entrammo, in tempo per assistere al finale di una scena romantica che mostrava un giovane aviatore della Luftwaffe camminare allacciato a una bionda vichinga sulla riva di un fiume maestoso. Nel buio, ci spostammo rapidi nelle toilette degli uomini. Entrai con l’ex seminarista in una cabina di decenza, mentre D’Avanzo rimaneva fuori a fare da palo.
Sfogliammo eccitati la copia del dossier Grenier, che constava di cinque cartelle dattiloscritte, corredate di alcuni allegati e di testimonianze verbalizzate.
La trama illegale che faceva capo all’imprenditore Alberto Grenier era piuttosto complicata. Il Grenier, oltre al contrabbando di filati di seta in Svizzera, nel gennaio aveva esportato illecitamente valuta contante per più di dieci milioni di lire in una banca di Lugano, la Cassa di Risparmio Ticinese, ricevendo in cambio dei certificati di credito dello stesso istituto per un equivalente valore in franchi svizzeri. I servizi segreti tedeschi avevano appurato in seguito che si trattava di una transazione fasulla. Una vera e propria truffa ai danni del Grenier. I certificati di credito, infatti, si erano rivelati falsi e il denaro esportato in Svizzera non era mai stato versato alla Cassa di Risparmio Ticinese, ma era sparito nel nulla. Un impiegato della suddetta banca, certo Balser, coinvolto in prima persona nell’operazione truffaldina, si era fortunosamente sottratto all’arresto, e nella fuga precipitosa da Lugano era stato investito da una macchina. Era deceduto in ospedale, senza fare il nome degli altri complici. Il direttore della Banca Commerciale di Venezia, dove Grenier aveva depositato i certificati svizzeri, dopo un attento esame degli stessi decretò che si trattava di carta straccia. Grenier era stato coinvolto nell’operazione svizzera da qualcuno, ma non ebbe il tempo di rivalersi su chi lo aveva truffato. La polizia tedesca infatti, messa al corrente da una denuncia anonima, procedette all’arresto e all’incriminazione di Alberto Grenier per i reati di esportazione illegale di valuta e sabotaggio finanziario allo sforzo bellico del Reich.
Il resto è noto. Condannato a morte senza possibilità di appello da un Tribunale di Guerra, il Grenier si era tolto la vita la notte prima dell’esecuzione impiccandosi alle sbarre della sua cella.
Quando ebbi finito di leggere il dattiloscritto rimasi per alcuni minuti sottosopra, poi a poco a poco mi si chiarirono le idee. Gli altri quattro amici del poker, Plisman, Bardi Stracca, Corvo e De Narderel erano con tutta probabilità coinvolti nell’affare, come si evinceva anche da alcune frasi criptiche contenute nelle lettere del porno editore.
«E adesso vengono fatti fuori uno per uno» osservò scombussolato Cammarata.
«Ma quale sarebbe il motivo?»
Non avevo dubbi. «Quello di appropriarsi dei soldi o quello di vendicare il povero Grenier, se come penso sono stati loro gli artefici della truffa in combutta con il bancario elvetico.»
L’ex seminarista non appariva convinto. «Ma questo è da escludere. I milioni di Grenier non possono essere finiti nelle loro mani» osservò scettico. «Plisman era indebitato fino al collo, Bardi Stracca collezionava cambiali da onorare, De Narderel vive di prestiti ed è costretto a vendere gli arredi del suo palazzo nobiliare.»
«Con il vento che tira, sarebbe pericoloso mostrarsi d’improvviso pieni di soldi, non credi?» ribattei ostinato.
«Può darsi che anche i quattro siano rimasti vittime della truffa. È un’ipotesi plausibile» insisté piccato Cammarata.
«Non credo» ribattei. «Per me i casi sono due, o vengono fatti fuori perché si rifiutano di spartire i milioni con qualcuno che li ricatta, o più verosimilmente da una persona che intende vendicare il povero Grenier.»
«Questo ci riporterebbe alla moglie, la contessa Fosca Barbarigo» dedusse il commissario.
«O a un’amante segreta di Grenier, di nome Carmela, fermamente decisa a fare giustizia sui responsabili morali del suo suicidio» conclusi.
A quel punto qualcuno bussò impaziente alla porta. «Sbrigarsi!» Ci affrettammo a uscire. Il tizio in attesa, un ometto calvo, fegatoso e debole di vescica, sgranò gli occhi nel vedere uscire dalla cabina di decenza due uomini, anziché uno.
«Vergogna!» disse disgustato. «Anche nei cessi dei cinema ve la fate… Non avete alcun pudore?»
«Ci scusi,» dissi con un sorriso impudente allontanandomi insieme all’ex seminarista «ma purtroppo i vespasiani in strada sono tutti occupati.»
Il tizio ci incenerì con uno sguardo degno del Savonarola. Fuori, per poco non prendevamo a pugni l’incauto D’Avanzo, che stanco di fare il palo era andato a bere una gazzosa al bar.