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Dopo neppure dieci minuti di attesa nell’anticamera gelida del secondo piano della Questura, in via di San Vitale, il commendator Baglioni Garlaschi e io fummo introdotti da un anziano inserviente catarroso al cospetto del mio ex collega Vito Patanè, assurto, con l’avvento al potere dei neofascisti, al ruolo di vicequestore aggiunto.

Erano trascorsi ormai molti mesi da quando ci eravamo visti l’ultima volta, mi pare fosse il marzo del 1943, la mattina in cui procedemmo in circostanze drammatiche all’arresto dell’assassino dei tarocchi a Trastevere. Ne era passata di acqua sotto i ponti, ma Patanè era rimasto il solito cafone siculo, anzi, in un certo qual modo era peggiorato. Infatti oltre ai calzini a scacchi bicolore ostentava la camicia nera. È proprio un assioma: il lupo perde il pelo ma non il vizio. E il vizio di Patanè era quello di essere qualcosa di più che un cretino: un cretino fascista.

«Prego, si accomodi, commendatore» farfugliò il birbante offrendo una sedia all’imprenditore e ignorando deliberatamente la mia presenza. La stanza era satura dell’odore nauseabondo di sigaro e di secrezione ascellare. In un angolo, il neo ispettore Bonetti Domenico fingeva di esaminare un fascicolo, ma in realtà tentava di risolvere con scarso successo un cruciverba de «La Settimana Enigmistica».

«Si è procurato quanto le avevo chiesto, dottor Patanè?» esordì in tono autoritario Baglioni Garlaschi, togliendosi i guanti di pelle con gesti misurati.

«Certo, commendatore… Anche se non è stata un’impresa facile.»

Mi rivolse uno sguardo tra il sardonico e il protettivo e proseguì: «Il qui presente dottor Astolfi Bruno è persona non gradita alle autorità del nuovo Stato Repubblicano. Tuttavia…».

«Tuttavia?» tagliò corto il costruttore.

«Tuttavia ho garantito per lui, in considerazione del fatto che siamo stati colleghi nel periodo anteguerra e che una volta dimesso dai ruoli del ministero l’Astolfi si è dedicato alla professione investigativa privata senza svolgere attività politica antinazionale, evitando con encomiabile diligenza di creare problemi alle forze dell’ordine…»

Patanè mi fissò come per leggermi in faccia una qualche espressione di approvazione e riconoscenza.

Io rimasi imperturbabile e continuai a seguire le evoluzioni di una mosca che volava impazzita a zig zag sbattendo ripetutamente nei vetri sporchi della finestra.

«In definitiva?» chiese brusco Baglioni Garlaschi.

«In definitiva ho ottenuto dall’Ispettorato Generale di Pubblica Sicurezza, in deroga alle disposizioni vigenti, una licenza provvisoria di investigatore privato a nome Bruno Astolfi.»

Il bieco Patanè estrasse da un cassetto una busta contenente alcuni documenti e la passò a Baglioni Garlaschi che si mise a controllarli con attenzione.

«Non c’è il porto d’armi» osservò contrariato il costruttore.

Patanè abbozzò un sorrisetto ebete. «Il porto d’armi lo danno solo agli iscritti al Partito fascista repubblicano… Ma possiamo ottenerlo in ventiquattr’ore, se Astolfi è d’accordo.»

Si volse maligno verso di me. «Vuoi iscriverti?»

Scossi la testa. «Non mi serve il porto d’armi. Me la cavo anche senza, sono un ex pugile» dissi in tono strafottente.

Patanè si trattenne dal gettarmi un portacenere in faccia e si rivolse di nuovo al Baglioni Garlaschi: «Come vede, commendatore, ho unito una lettera di presentazione per il capo della Mobile di Venezia, dottor Diego Cammarata, affinché faciliti il compito del camerata Astolfi».

Trasalii nell’udire quel nome. «Diego Cammarata, lo stesso che era nostro collega in Accademia e che chiamavamo il Seminarista?»

«Sì, lui… Che passò direttamente dal Seminario di Bergamo all’Accademia di polizia di Orvieto… Trattalo con rispetto, ti sarà utile!» concluse alzandosi in piedi per congedarci.

Baglioni Garlaschi mi passò la busta con i documenti e indirizzò un ringraziamento frettoloso al nefasto Patanè, che nell’accompagnarci alla porta trovò il modo di sussurrare mellifluo: «Mi ricordi all’Eccellenza Barracu, quando lo vede».

Il costruttore ricambiò con un’occhiata di disprezzo e mi precedette nel corridoio senza degnarlo di una risposta.

Mentre mi riaccompagnava in macchina a Zagarolo, Baglioni Garlaschi riassunse i termini del nostro accordo. «Partirà questa sera con il rapido delle 23… Rapido per modo di dire, dati i tempi. Comunque in mattinata dovrebbe essere a Venezia. Le ho prenotato una stanza all’hotel Luna, è un cinque stelle frequentato dalla gente del cinema e ha il vantaggio di trovarsi in pieno centro, subito dietro San Marco. Quello che le raccomando, Astolfi, è di svolgere un’indagine discreta su Lino Plisman, e se come credo dovesse venire a conoscenza di qualche fatto sconveniente, veda con la dovuta discrezione di aprire gli occhi a mia figlia, ma anche di rassicurarla. Le dica che io le sarò sempre vicino, come del resto sua madre.»

«Stia tranquillo, commendatore, farò del mio meglio.»

L’Isotta Fraschini si fermò con una lunga frenata. Eravamo arrivati sul piazzale della ex cascina dove abitavo. Dai vetri accostati del piano terra, Elena ci stava tenendo d’occhio con aria pensierosa, ma il mio accompagnatore non fece mostra di essersene accorto.

Nonostante il pacco con caffè e cioccolata, non era riuscito a ottenere la sua approvazione, e credo che l’avesse bene intuito.

Rimanemmo per alcuni istanti in silenzio, impacciati.

«Un’ultima cosa» disse Baglioni Garlaschi mentre scendevo dall’auto «per le spese correnti, ho provveduto ad accreditarle una certa somma alla filiale 2 del Banco Veneto di Ca’ Rezzonico. Il saldo al suo ritorno.»

Ci stringemmo la mano. La sera stessa, il suo autista sarebbe tornato a prendermi per condurmi alla stazione.