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Elena era sempre stata un ragazza ostinata e perseverante: alle 11:20 del giorno dopo, quando un sole primaverile prossimo allo zenit illuminava Venezia e io mi trovavo ancora vestito sul letto immerso in un sonno profondo, eccezionalmente senza incubi, riuscì a ottenere la comunicazione telefonica alla quale, preso alla sprovvista, purtroppo non riuscii a sottrarmi.

«Ti ho chiamato tre volte, era appena giorno, ma non rispondevi… Dove diavolo sei stato tutta la notte? E con chi, se è lecito?» strillò fuori di sé con voce stridula.

Provavo un terribile mal di testa, e avevo ancora dolore alle ginocchia.

«Calmati, ti prego!» balbettai stordito.

«Calmati un corno! Dov’eri?» insisté spietata.

Ripresi rapidamente il controllo di me. «Ascoltami, Elena… Ho trascorso l’intera notte lavorando… Non ero con una donna, posso giurartelo!»

Ebbi fortuna o probabilmente il tono sincero della mia voce dovette convincerla, perché si rabbonì immediatamente. «Se tu me lo giuri ti credo,» disse «ma guarda che se sgarri vado diritta a cena con il farmacista, pensa che ieri mi ha mandato delle gardenie e una bottiglia di Ferro-China Bisleri.»

«Ottimo, il Ferro-China Bisleri, corrobora il fisico e preserva dall’anemia» commentai. E aggiunsi maligno: «Ancora non ci sei stata a cena?».

«Scemo!» disse ridendo.

«Guarda che se sgarri tu io vado diritto a cena con la Doris Duranti!» ripresi cinico.

«Non credo» rispose sicura «ho letto su “Film” che non è più a Venezia, sta lavorando in teatro a Milano.»

L’atmosfera si era rasserenata. Mi chiese notizie dell’inchiesta, la rassicurai che ero a buon punto e sarei rientrato a Roma entro breve tempo. Quando riagganciai la cornetta, trassi un lungo sospiro di sollievo. Non ero molto fiero di me, lo ammetto. Mi vergognavo della mia ipocrisia e del tradimento che Elena non meritava. Ma finii con l’assolvermi. In fondo, la calda notte con la contessa Barbarigo non era un tradimento, ma un incidente sul lavoro.

 

Feci un salto in Questura per conferire con l’ex seminarista, che avendo mangiato la foglia ovviamente mi aspettava al varco.

«Cos’hai scoperto, prima della deflagrazione che per poco non ti faceva a brandelli?» chiese mentre si rimpinzava di arachidi nell’ufficio saturo come al solito di aria stantia. Gli tolsi dalle mani il bicchiere di prosecco e versai il resto del vino sul portacenere stracolmo di nocciole. Mi guardò storto. «Che bella bravata… Era la mia colazione!» grugnì.

«Stai ingrassando, Cammarata, e le arachidi sono un condensato di lipidi, potrebbe venirti un accidente!»

Si strinse nelle spalle rassegnato. «Se è per questo, ne ho già avuti due.»

«Bravo!» Afferrai il portacenere e lo rovesciai nel cestino.

«Chi ti dice che ieri sera fossi là, al n.12/a di calle de l’Arco?» ripresi facendo il finto tonto.

La faccia di Cammarata si contrasse in un sogghigno. «Non sarò un genio come il collega Patanè, ma fino a capire le tue mosse ci arrivo.»

Lo misi al corrente della mia brutta avventura, che oltretutto si era risolta in un completo fallimento.

«Non solo non c’erano indizi sull’identità di Carmela in quella garçonnière, ma neppure tracce che di recente vi fosse passata una donna.»

«E le testimonianze del portiere e del cameriere del bar?» osservò perplesso l’ex seminarista.

Mi strinsi nelle spalle. «L’hanno vista entrambi da lontano, di sera… Da come hanno descritto il tipo, potrebbe anche essere un uomo che faceva in modo di venire scambiato per una donna. Pastrano, cappello femminile a larghe falde, grossi occhiali scuri.»

«Già, ma allora siamo al punto di prima» osservò scoraggiato.

«Aspetta a dirlo, lasciami muovere la Torre rimasta finora ai margini della scacchiera. Chissà che non riesca a dare scacco alla Regina.»

L’ex seminarista mi guardò scettico. «E chi sarebbe questa Torre?»

«La vedova di Gastone Corvo» dissi.

Scrollò il capo, niente affatto convinto. «Ci avevo pensato anch’io, ma non me la sono sentita di chiedere a una signora appena rimasta vedova chiarimenti sulla presumibile amante del marito. Su colei che forse lo ha ucciso, e della quale di sicuro ignorava l’esistenza.»

«Io al punto in cui siamo arrivati me la sento» troncai secco.

In quel momento l’ispettore D’Avanzo, che apparentemente disinteressato sedeva al suo tavolo leggendo «Il Gazzettino», ebbe un trasalimento. «Porca vacca!» esclamò. «Guardate qua!» Si alzò e ci porse eccitato il giornale. Nella pagina interna faceva bella mostra la reclame di un locale notturno, La Perla. Accanto alla silhouette di una ragazza in abito da sera, si leggeva in grassetto: RIPRENDE QUESTA SERA LO SPETTACOLO DELLA BELLISSIMA ARTISTA SPAGNOLA CARMELA, INTERROTTO PER ALCUNE SETTIMANE A CAUSA DELL’INDISPONIBILITÀ DELL’ORCHESTRA. DALLE ORE 20 ALLE 22:45.

Per qualche istante rimasi senza parole.

«Credi che sia lei?» chiese concitato Cammarata.

«Lo spero!» risposi secco.

 

Alle 20 in punto ero già davanti all’ingresso de La Perla, un tabarin di terz’ordine in calle Cavalli, dalle parti di Palazzo Grimani.

Sotto l’insegna luccicante dell’entrata, spiccava la locandina con la foto di una procace bruna in guêpière e il nome scritto in grossi caratteri: CARMELA, LA ESTRELLA DE VALENCIA. Accanto, vi erano foto più piccole di orchestrali e ballerine in costume quasi evitico.

Avevo indossato giacca scura con papillon, ero insomma travestito da consumato viveur quando entrai e venni scortato da un inserviente ossequioso a uno dei tavoli vicino al proscenio, dove un’orchestrina di quattro elementi con un cantante anonimo stava eseguendo un celebre tango argentino, Caminito.

 

Desde que se fué triste vivo yo,

Caminito amigo yo tambien me voy!

 

Il pubblico era formato per lo più da anziani habitué e da comitive di turisti di passaggio, oltre che dai soliti buzzurri arricchiti con il mercato nero e in cerca di avventure galanti con le entraîneuses. Sulla pedana, alcune coppie esperte di tango ballavano allacciate ostentando figure e variazioni alla Gardel in un’atmosfera di erotismo artificioso.

 

Desde que se fué nunca más volvió,

seguiré sus pasos, caminito, adiós!

 

Mi ero appena ambientato, che l’orchestra terminò la canzone e fece il suo ingresso sul palco, introdotta da un presentatore in smoking, l’affascinante Carmela, la estrella de Valencia. Era un tipo appariscente, dal corpo flessuoso, i capelli corvini e le labbra dipinte di un rosso vivo. Indossava un abito nero molto attillato, con un’ampia scollatura sul seno.

Dopo che il presentatore si fu ritirato, Carmela gettò una rosa verso il pubblico e iniziò a cantare, in spagnolo, un motivo in voga della metà degli anni Trenta.

 

Una mañana de mayo

cogí mi caballo y me fui a pasear

tuve que cruzar la ría

de Villagarcía

que es puerto de mar…

 

Scrissi rapidamente qualche parola su un mio biglietto da visita e lo porsi al cameriere assieme a una banconota, pregando di consegnarlo alla signorina Carmela, non appena avesse terminato il suo numero.

 

Yo te daré

te daré niña hermosa,

te daré una cosa,

una cosa que yo solo sé: ¡café!

 

Una salva di applausi esplose alla fine della canzone.

«Guapa! Guapisima!» gridò entusiasta un giovanotto in uniforme di ufficiale dell’Aeronautica.

Carmela scese ancheggiando dal palco e attraversò la sala soffermandosi per qualche secondo ai tavoli dei clienti. Io avevo ordinato dello champagne, che poi era dello scadente spumante con etichetta falsa, e quando giunse al mio tavolo la invitai a sedersi e le porsi una coppa, che lei rifiutò con grazia. Aveva in mano il mio biglietto d’invito.

«Accetto volentieri di bere una copita con usted,» disse sorridendo in italo-spagnolo «ma più tardi. Ahora vado a cambiarme d’abito per il ballo andaluso, il mio pezzo forte». Prima di allontanarsi, mi sfiorò il viso con una rapida carezza. Accesi una sigaretta e mi rilassai. Il ruolo del corteggiatore era solo provvisorio, un preludio necessario alla fase successiva e sgradevole dell’interrogatorio.

L’orchestra iniziò dopo alcuni minuti a provare la musica del balletto. Entrarono di lì a poco quattro ragazze piuttosto discinte, erano le entraîneuses che si erano rapidamente trasformate in protagoniste del balletto. Un rullo di tamburi della batteria segnalò l’inizio del numero clou della serata e le luci in sala si attenuarono lasciando il locale nella penombra.

Si attendeva l’arrivo di Carmela, che tardava. I clienti erano impazienti e poiché l’attesa si prolungava iniziarono a bisbigliare e a battere le mani.

Notai un furtivo andare e venire di camerieri da una parte all’altra del locale. Le ballerine, sconcertate, scambiavano occhiate con gli orchestrali. Finalmente il presentatore si diresse a passi rapidi oltre la porta che immetteva al corridoio dei camerini. Mi irrigidii, colto da un cupo presentimento. Trascorse giusto una decina di secondi, poi echeggiò un urlo d’orrore, seguito dagli strilli acuti delle ragazze che erano corse via dal palco. Intuendo che qualcosa di grave poteva essere avvenuto, mi fiondai verso la porta che immetteva ai servizi. Davanti a un camerino in fondo al corridoio, il presentatore gridava a ballerine e orchestrali di tirarsi indietro. Mi feci largo a spintoni e scostai bruscamente il tizio sulla soglia. Appena entrato nella stanza, scorsi con raccapriccio il corpo inerte di Carmela rovesciato all’indietro sulla sedia del trucco, davanti alla specchiera. Aveva un laccio di cuoio stretto al collo, la lingua pendeva violacea dalla bocca semiaperta, gli occhi erano sbarrati nello stupore della morte.

«Non faccia entrare nessuno! E chiami la polizia, si sbrighi!» gridai.

Mi guardai attorno, sul lato opposto del camerino vi era l’uscita di sicurezza. La porta in ferro era aperta, e lasciava entrare l’aria fredda. Corsi fuori d’impeto e mi trovai in un vicolo stretto, semibuio, solo una lampadina schermata di blu rischiarava appena un breve tratto di marciapiede. Non vi era traccia dell’assassino. Chiunque fosse, aveva avuto tutto il tempo di allontanarsi indisturbato, prima che il presentatore scoprisse il cadavere di Carmela.

Tornai sui miei passi sconvolto. Neppure prestavo orecchio ai gemiti e alle frasi mozze delle ballerine, ai commenti eccitati degli habitué, alla voce autoritaria dell’ufficiale di Aeronautica che ordinava ai clienti di restare ai loro tavoli in attesa dell’arrivo della forza pubblica. Mi rendevo conto che la povera Carmela, estrella de Valencia, probabilmente aveva perso la vita per colpa mia. L’assassino sconosciuto cui davo la caccia l’aveva eliminata prima che potessi interrogarla e porre fine a questa assurda catena di omicidi. Mi accesi una sigaretta e rimasi fuori nel vicolo buio a fumare, in attesa che arrivasse Cammarata con i suoi scagnozzi.