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La mattina dopo, seguendo il mio istinto, mi recai al Teatro 1 della Cines, nei giardini della Biennale, dove si stava girando il film Fatto di cronaca, interpretato dalla coppia Osvaldo Valenti-Luisa Ferida e diretto dal regista Piero Ballerini, un esponente di medio livello della categoria che a Venezia stava cercando la sua grande occasione. Il produttore era Gastone Corvo, contavo di trovarlo lì e di metterlo sotto torchio.
Nel teatro era stato ricostruito un appartamento borghese nel quale si svolgeva il clou della vicenda, un melodramma ambientato ai giorni nostri e imperniato sulla crisi di una coppia di coniugi. Con un lieto fine ingenuo e piuttosto puerile, a detta dell’operatore Carlo Nebiolo, che proveniva dal Centro Sperimentale e si era fatto una buona fama collaborando tre anni prima al mitico Piccolo mondo antico di Mario Soldati. Quando entrai, Nebiolo stava aggiustando le luci su Luisa Ferida, che si preparava a girare una scena con la matura Anna Capodaglio. Nello scorgere la diva, fui sconvolto da una forte emozione. Avevo lavorato per lei, nella primavera del 1940, salvandola da un misterioso individuo che voleva ammazzarla. Ero stato conquistato dalla sua bellezza sensuale e dalla sua forte personalità, e anche lei aveva mostrato una certa predilezione per me. Un giorno, rimasti soli nel suo camerino di Cinecittà, per poco non avevamo perso la testa, nonostante Luisa fosse molto legata al suo uomo, l’attore Osvaldo Valenti.
L’attrice era alle prese con la parrucchiera che le stava aggiustando i voluminosi capelli, ma non appena si accorse di me mi corse incontro eccitata e mi gettò le braccia al collo.
«Bruno! Che bella sorpresa! Sono così felice di vederla! Quanti anni sono trascorsi da La corona di ferro?»
«Quattro, un’eternità.»
«Come passa il tempo» sospirò. «E cosa ci fa qui a Venezia? È venuto per me?» chiese con civetteria.
«Magari» risposi ricambiando le sue effusioni.
In realtà mi sforzavo di nascondere la mia delusione. Era cambiata in peggio, la Ferida, il suo bel volto immalinconito era segnato da borse sotto gli occhi e gonfiori appena dissimulati dal cerone. La sua bellezza appariva leggermente sfiorita, la sua espressione si era fatta spenta, priva dell’antico ardore.
«Mi trova sciupata?» chiese ansiosa.
«Ma no, sempre bellissima!» mentii di impulso.
«Sa, è il trucco» si giustificò. «Si tratta di un personaggio dimesso, a suo modo infelice…»
Fummo interrotti dalla voce stentorea del regista. «Luisa, siamo pronti per girare.»
Ballerini era un uomo di aspetto modesto, dal volto scavato e lo sguardo febbrile tipico degli ammalati di TBC. Per ripararsi dal freddo, indossava un pesante paltò di cammello a doppio petto con la cintura stretta in vita, e un Borsalino calzato a sghimbescio che lo faceva apparire più un piazzista di polizze assicurative che un regista cinematografico. Ordinò il silenzio e dopo che fu battuto il ciak pronunciò la fatidica parola: «Azione!». Tra la Ferida e la Capodaglio iniziò un diverbio ostinato fatto di reciproci rimproveri, finché furono interrotte dall’aiuto-regista fuori scena che suonò alla porta strillando: «Telegramma!».
«Stop! Ottima, stampa!» disse perentorio il regista che si preoccupava di risparmiare la poca pellicola a disposizione, più che della recitazione delle due attrici.
«Adesso giriamo l’inquadratura del postino che entra a consegnare il telegramma» spiegò Ballerini a Nebiolo.
«Dov’è il postino?» chiese poi al direttore di produzione Franchini che assisteva nervoso alle riprese.
Franchini allargò le braccia imbarazzato. «L’attore Casteggi oggi non si è presentato… Abita a Mestre e c’è stato un rastrellamento.»
«E allora… Chi fa il postino?» domandò scoraggiato il regista.
«Lui!» esclamò perentoria la Ferida indicando nella mia direzione. «Ha già lavorato per me a Cinecittà, è bravissimo!»
Così, malgrado le mie fievoli rimostranze dovetti adattarmi a fare il postino. Mi fecero indossare uno spolverino grigio con tanto di berretto a visiera e mi misero in mano la borsa a tracolla con il logo delle Poste Italiane.
Dopo una serie di prove per le luci e i movimenti della macchina da presa, finalmente batterono il ciak. Entrai nell’appartamento e nel consegnare il telegramma alla Capodaglio pronunciai la fatidica battuta: «Firmi qui». Quando Ballerini dette lo stop, fui subissato da una salva di applausi. Sarei sprofondato per la vergogna!
All’ora di pausa, pranzai in compagnia dell’attrice a un tavolo appartato della mensa dello studio.
«Osvaldo è a Milano» mi spiegò Luisa mentre prendevamo il surrogato di caffè. «È andato a conferire con il principe Borghese, si è messo in testa che non è più il momento di fare il cinema, ma di fare la guerra.» Scosse la testa per nulla convinta.
«Medita di trasferirsi con me a Milano e di arruolarsi nella Xa Mas.»
«Ma è una pazzia!» sbottai. «La guerra è persa, ormai è questione di qualche mese e la Germania sarà annientata. Perché condividere la sorte dei fascisti?»
L’attrice abbassò lo sguardo e tacque.
«Voi due siete bravi attori, patrimonio del cinema italiano» continuai. «Dovete eclissarvi, non compromettervi esibendo uniformi e frequentando individui pericolosi. Già avete commesso un grosso errore venendo a Venezia.»
«Sì, è stato un errore, lo riconosco» rispose la Ferida d’un fiato. «Ma oramai è tardi, non sono più in grado di oppormi a Osvaldo.» Si sforzò di dominare l’emozione. «Sa, dopo che ho perso il mio bambino, Kim – aveva appena una settimana – sono caduta in una profonda depressione. Solo Osvaldo mi tiene su, ma confesso di essergli in un certo qual modo succube…»
Mi afferrò una mano tra le sue come per ristabilire un contatto intimo.
«Ricorda che bei tempi quelli de La corona di ferro? Nonostante il pazzo che voleva uccidermi, vivevo un’esperienza elettrizzante, ero piena di gioia, di slanci emotivi, di illusioni…»
Dopo una lunga pausa, gli occhi lucidi di lacrime, aggiunse: «Il mondo ci sta crollando addosso, Bruno».
«È ancora in tempo a salvarsi, Luisa. Pianti tutto e torni a Roma. Lei deve ricominciare da capo… Parta con me, appena termino la mia indagine.»
«Quando?» chiese contagiata dalla mia esaltazione.
«Tra un paio di settimane, al massimo.»
«Potrei, le riprese del film finiscono sabato.»
«Prometta che non andrà a Milano» incalzai.
Annuì. «Glielo prometto, Bruno.»
Ma io non credevo alla sua promessa: ad averla resa inerte e rassegnata era l’uso di cocaina e il tormento per la mancata maternità. Avvertii un leggero tremito nelle sue mani, mentre portava alle labbra il bicchiere di Fernet. Lo mandò giù d’un fiato.
Dopo aver pagato il conto, mi accomiatai da lei abbracciandola.
«Mi chiami all’hotel Luna, anche di notte, se si decide.» Accennò un debole sorriso e si avviò verso il suo camerino. Quando la vidi sparire oltre la porta, non potevo neppure immaginare che le restava un solo anno di vita e che non l’avrei mai più rivista.
Mi fermai un momento in produzione a chiedere di Gastone Corvo.
«È andato alla Ferrania, a Milano, a rifornirsi di pellicola» mi disse Franchini. «Sarà di ritorno nel tardo pomeriggio. Se passa nel suo ufficio, dall’altro lato dei giardini vicino ai padiglioni del Luce, lo trova di sicuro.»