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Il pomeriggio stesso Paola Baglioni Garlaschi venne rilasciata e la incontrai nella hall del Luna in compagnia del padre e dell’amica Milena De Magistri. Era fresca di parrucchiere, elegante, vivace come ai vecchi tempi. Mi venne incontro radiosa, stringendomi in un abbraccio.

«Grazie, Bruno… Se non fosse per lei, sarei ancora ospite dell’hotel Giudecca!»

«Non ringrazi me, ringrazi il suo avvocato» mi schermii imbarazzato. Percepivo l’intenso effluvio di lavanda Paglieri che emanava il suo giovane corpo rigenerato dal salone di bellezza dell’hotel e ne fui oltremodo turbato.

«Non faccia il modesto! Devo la libertà a lei, che ha scoperto il nesso tra i tre omicidi, scagionandomi da quell’accusa infamante.» Il commendatore intervenne spiegando che l’avvocato Zonin, in base alle mie scoperte e alle garanzie offerte dal dottor Guido Leto, aveva ottenuto la libertà provvisoria per Paola, che tuttavia non poteva lasciare Venezia finché il caso non fosse definitivamente chiuso.

Festeggiammo il giorno dopo con un lauto pranzo di guerra alla locanda di Maria Montagner, ma Baglioni Garlaschi non era del tutto rassicurato e volle sapere se vi erano novità nell’indagine. Non mi volli sbilanciare, mi limitai a dire che ritenevo di essere sulla buona strada, che ero sulle tracce di una certa Carmela, sicuramente implicata nei delitti. Paola m’incitò a far presto, la residenza forzata a Venezia cominciava a pesarle. Milena De Magistri, quando ci accomiatammo, mi porse la mano. «Parto domani per Brescia, devo fare da interprete a un incontro di alti papaveri, uno strazio!» disse con un sospiro.

«Quanto si tratterrà?» chiesi per pura cortesia.

«Presumo una settimana, forse più.»

«Sarà una lagna, senza di te!» commentò rattristata Paola. «Sola e sperduta tra tanti buzzurri» aggiunse in approssimativo romanesco. Tornammo in albergo con una gondola e restammo intesi che ci saremmo rivisti il giorno seguente, domenica.

Ero sulle spine, durante il pranzo non avevo fatto altro che guardare l’orologio. Avevo un programma importante per quella sera, da cui poteva dipendere persino la soluzione del caso.

Alle sette in punto, sbarcai dal vaporetto alla fermata del Canal Grande prospiciente il palazzo Barbarigo.

All’ingresso del foyer, consegnai il mio biglietto da visita al solito valletto e chiesi di essere ricevuto dalla contessa.

Dopo un’attesa inaspettatamente breve, fui introdotto da un maggiordomo ossequioso nel salotto verde, dove venni accolto con un sorriso cortese dalla padrona di casa. Era come al solito molto bella, indossava un caftano dai bordi dorati, di pura foggia nordafricana. E dei grandi orecchini di antico argento con intarsiati i segni zodiacali arabi.

«Salve, Astolfi! Mi stavo chiedendo giorni fa, durante un tè in casa De Narderel, quando avrei avuto il piacere di un’altra sua visita.»

«Ho colto la prima occasione, contessa» dissi guardingo.

«Per farmi delle domande imbarazzanti come al buon Gian Andrea?» replicò maliziosa.

«Molto più imbarazzanti, se mi consente» risposi senza infingimenti.

Dopo avermi invitato a sedere accanto a lei su un gigantesco sofà, mi chiese se avevo impegni per la cena. Alla mia risposta negativa, chiamò il maggiordomo e ordinò di apparecchiare per due nella veranda coperta.

Nel frattempo ci fu servito dello champagne Pommery 1938, corredato da alcune tartine alla maionese. Per una mezz’ora, fino all’annuncio sacrale del maggiordomo che la cena era servita, fummo impegnati in una conversazione banale ed elusiva, che spaziava dal bel tempo alle prossime festività pasquali. Ci trasferimmo nella veranda coperta che dava sul Canal Grande, e dall’ampia vetrata ammirai un panorama mozzafiato: Venezia appariva come una costellazione di perle incastonate nella Laguna fino oltre Torcello e Murano.

«Bella vista, vero?» sorrise la contessa mentre prendevamo posto alla lunga tavola, uno di fronte all’altra. Era ormai calata la sera, i ceri dei candelabri d’argento rischiaravano l’ambiente creando riflessi di porpora sui tendaggi cremisi.

Venne servito da un silenzioso valletto un consommé di brodo di tartaruga, cui seguirono delle pernici arrosto farcite di crema di castagne, dei funghi porcini al gratin e un contorno di punte di asparagi di serra. Dopo il dessert, il valletto depose sul tavolo il cestello di acciaio con lo champagne ghiacciato, e a un cenno della padrona di casa si eclissò con discrezione.

Fosca Barbarigo mi osservava in modo strano. «So che lei è un tombeur de femmes, mi hanno riferito che ha avuto una storia con la Ferida qualche anno fa, e di recente un flirt con Doris Duranti!» disse.

Sorrisi. «Spero non dia credito ai pettegolezzi, contessa, ho avuto con entrambe rapporti esclusivamente professionali.»

«E non ha mai ceduto al loro fascino?» insisté.

«Confesso di essere attratto dall’avvenenza femminile, e dallo charme di cui madre natura ha dotato molte signore. Ma non cedo facilmente agli impulsi» risposi senza sbilanciarmi troppo.

Rise di gusto. «Parla come Casanova nelle Mémoires. E per questo sono convinta che allorché si presentasse l’occasione, cederebbe come ogni altro maschio virile agli impulsi dei sensi.»

Ritenni conveniente astenermi da ogni commento. Ma la Barbarigo non cessò di punzecchiarmi.

«Stia attento, Bruno, la Duranti gode di un’altissima protezione e può essere pericolosa…» proferì allusiva.

«Non quanto lei» risposi galante. «E inoltre mi risulta che la Duranti abbia lasciato Venezia tre giorni fa per trasferirsi definitivamente a Milano.»

Non insisté oltre, bevve d’un fiato il calice di champagne che mi affrettai a riempirle.

«Posso farle una domanda indiscreta, sempre a proposito del sesso debole?» azzardai, passando all’argomento che mi aveva indotto a farle visita.

«Certo, a patto che non sia troppo indiscreta.»

«Ha mai sentito nominare da suo marito una certa Carmela?»

Esitò qualche secondo a rispondere, come se cercasse di apparire convincente.

«No, non ho mai sentito quel nome.» E dopo una pausa studiata, riprese in tono sommesso: «Posso farle una confidenza?».

«Sì, conti sulla mia discrezione.»

Mi guardò con disinvoltura negli occhi. «Con mio marito si evitava di parlare delle nostre esperienze extraconiugali, in un certo senso lecite, dal momento che non avevamo figli ed eravamo indipendenti l’uno dall’altra.»

«Ma qualche volta il nome di un’amica o di un amico sarà stato fatto tra voi, magari casualmente?» insistei.

«Qualche volta… Ma non sono mai riuscita a conoscere l’identità dell’ultima amante di Alberto. Può darsi benissimo che avesse quel brutto nome da fantesca siciliana…»

Stavo per rilanciare, allorché fummo interrotti dal suono lancinante di una sirena di allarme. Nel giro di pochi secondi si udirono delle esplosioni abbastanza vicine, che fecero tremare i vetri della veranda. Balzammo entrambi in piedi agitati.

«Ci siamo! Stanno bombardando Venezia!» esclamò impaurita Fosca Barbarigo.

«Impossibile! Venezia non è una città qualsiasi, è un’opera d’arte… Gli inglesi non sono così scemi da mettersi tutto il mondo contro!»

Ci accostammo al tratto di veranda aperta e scrutammo fuori. All’orizzonte, nel tratto di terraferma occupato dagli stabilimenti industriali di Porto Marghera, si levavano dense colonne di fumo. Bagliori di fuoco, esplosioni, sciabolate luminose dei fari della contraerea creavano uno spettacolo infernale nel buio della notte. La contessa tremava tutta e si strinse a me a cercare protezione.

«Mio Dio, è terribile!» sussurrò scossa dal susseguirsi delle deflagrazioni. Percepivo il suo ansito e la sua emozione, le cinsi la vita d’istinto, sentii il suo corpo aderire al mio. Poi la paura si mutò in eccitazione, in desiderio ineludibile che travolse entrambi. Ci avvinghiammo in un abbraccio frenetico e scivolammo sul tappeto. «Sì… Sì!» sussurrò la contessa mentre la liberavo del caftano. Sotto era nuda…

Quando il bombardamento ebbe fine e ci fummo ricomposti, restammo a lungo distesi in un silenzio complice, fumando a turno una Macedonia Extra.

Senza un gesto, o una parola inutile.

Mi venne in mente di essermi trovato nella stessa situazione quattro anni prima con Elena, e identico era stato il risultato. I bombardamenti aerei, veri o simulati, hanno questo di positivo: inducono a far l’amore.

Trascorsi l’intera notte, fino alla fine del coprifuoco, nel talamo della contessa, che era appartenuto a un doge. Quando sorse il sole, alle sei e mezza del mattino, la lasciai addormentata e feci ritorno in albergo dove trovai un messaggio telefonico trascritto su un foglio di carta dal maître. Era del signor Della Vedova, il proprietario della tabaccheria, che mi pregava di passare da lui con urgenza, per delle informazioni che mi riguardavano.

Non persi tempo: appena ebbi consumato una parca colazione al bar uscii sulla darsena e salii al volo sul primo vaporetto in direzione della Scuola Grande di San Rocco, dove aveva sede la tabaccheria Della Vedova. Arrivai in un batter d’occhio.

Era abbastanza presto, ma rimasi sgradevolmente colpito dal fatto che il negozio fosse ancora chiuso, con le imposte della vetrina serrate, mentre le altre botteghe intorno erano già in piena attività. Detti un’occhiata all’orologio: segnava le 9.45. Sul momento ipotizzai che i due coniugi fossero andati in qualche bar vicino per fare colazione, ma quando scoccarono le dieci e si udirono i rintocchi di una chiesa vicina, cominciai a insospettirmi. Mi avvicinai al negozio e afferrai la maniglia della porta, per assicurarmi che fosse chiusa a chiave. La porta cedette all’istante alla mia pressione e si aprì quel tanto da mettermi in allarme. La spalancai e irruppi nella tabaccheria con il cuore in tumulto. L’interno era semibuio: corsi ad aprire le ante delle finestre presentendo il peggio. Il negozio si presentava in perfetto ordine, ma un leggero cigolio, e dei gemiti soffocati provenivano dal retrobottega. Mi fiondai oltre la tenda che separava i due ambienti e mi bloccai esterrefatto. Il signor Della Vedova era legato e imbavagliato al suolo, mi guardava con occhi supplici dimenandosi qual tanto che poteva. Accanto a lui, su una sedia, era strettamente legata la moglie, con la camicetta stracciata che le pendeva sul grembo lasciando scoperto il seno turgido e pesante. Anche lei non poteva proferire parola, un fazzoletto strettamente legato tra i denti le consentiva appena di respirare. Mi affrettai a liberare entrambi.

«Un bicchiere d’acqua per favore…» balbettò la donna respirando aria a pieni polmoni. Si ricompose in fretta e bevve avidamente l’acqua che le porgevo. Mi chinai sul marito, che boccheggiava sprofondato su di un vecchio sofà. Era pallido come un morto, ma non tradiva paura, semmai una grande rabbia per il sopruso subito.

«Chi vi ha aggredito?» chiesi ansioso.

«Non lo so, era ancora buio, era appena suonata la sirena di fine coprifuoco… Quando sono entrato nel negozio, prima che potessi accendere la luce, un’ombra è apparsa alle mie spalle e mi ha colpito in testa con un bastone…» balbettò l’uomo portandosi una mano sul cranio e ritirandola insanguinata. «Ho perso i sensi, non ricordo altro.»

La moglie interloquì con voce flebile.

«Io… Io sono arrivata con la cuccuma del caffè cinque minuti dopo e… Ho sentito un gran botto alla base del cranio. Sono scivolata giù, svenuta.»

Dopo che i due si furono ristorati con un bicchiere di cognac, procedemmo a un esame del negozio. Solo una parte era stata messa a soqquadro, dappertutto giacevano a terra fatture, cataloghi, tratte, corrispondenza ed elenchi di clienti, tutto il resto era in ordine, non era stato rubato niente, la parte amministrativa, e solo quella, interessava al misterioso aggressore.

«Credo di capire che cosa volesse quel mascalzone…» disse stralunato il tabaccaio dopo essersi ripreso dallo stato di confusione mentale. «Vede, ieri sera nel rimettere in ordine certe vecchie fatture in giacenza ho trovato quella relativa al bocchino che interessava tanto a lei. Per questo le ho telefonato.»

«Non mi dica che quel delinquente se l’è portata via!» esclamai deluso.

Il signor Della Vedova sorrise debolmente. «No, di certo… Perché supponendo che la fattura fosse in certo qual modo un documento importante, l’ho messa via… Dove nessuno l’avrebbe trovata!»

Si spostò trionfante verso una stampa incorniciata sulla parete che raffigurava il bersagliere Enrico Toti nell’atto di tirare la famosa stampella sul nemico austriaco. Da dietro la cornice, recuperò il pezzo di carta. Me lo porse e mi affrettai a leggerlo. Il bocchino era stato venduto otto mesi prima, assieme a un accendino di argento, a un cliente ignoto per un totale di trecentosettantadue lire e cinquanta. L’acquirente aveva pregato di farli recapitare alla propria abitazione sita al piano terra di calle de l’Arco n.12/a, sestiere Castello. Mi parve una traccia utile, che non dovevo lasciare inesplorata.

Ringraziai il signor Della Vedova e la gentile consorte, e li lasciai, entrambi accasciati ma fieri, a rimettere in ordine il loro negozio.

Feci immediatamente ritorno in albergo. Salito in camera, dopo una lunga doccia mi feci la barba con il rasoio di sicurezza Gillette che risaliva ai bei tempi de La corona di ferro e accesi la prima sigaretta della giornata.

Ero nervoso, scontento di me: il pensiero del grave torto fatto a Elena non mi dava tregua. Stentavo a trovare una sia pur minima giustificazione al mio comportamento. Era stato un colpo di testa improvviso, la resa avventata a una Circe attraente ma della cui lealtà era più che lecito dubitare. Sperai che Elena non si facesse viva, che magari avesse accettato l’invito a cena del farmacista, ristabilendo in tal modo una parità nel tradimento. Ma mi resi conto all’istante della meschinità di quel pensiero, che aggiungeva offesa all’offesa per la mia compagna. In quel momento squillò il telefono e sobbalzai. Risposi dopo cinque squilli, augurandomi che non fosse Elena.

«Pronto? Sei scomparso… Che fine hai fatto?»

Era la voce stentorea di Cammarata. Tirai un sospiro di sollievo. Inventai lì per lì una scusa, una cena di lavoro con il commendatore.

Ma Cammarata non era ottuso come il suo mentore Patanè.

«Non sapevo che la Barbarigo oltre che contessa fosse anche commendatore!» ghignò sarcastico.

Lasciai cadere il discorso e lo misi al corrente della fattura ricevuta dal proprietario della tabaccheria.

«Ho bisogno urgente di sapere a chi è intestato l’appartamento di piano terra al n.12/a di calle de l’Arco. Vedi di darti da fare, mi serve subito!» dissi perentorio.

«Proverò al Catasto, conosco un ex carabiniere addetto all’archivio» mugugnò scontento. «Ti richiamo tra mezz’ora.»

Ebbi appena il tempo di bere un surrogato di caffè corretto al Fernet, e di ascoltare un mini notiziario di Radio Tevere, che il telefono squillò di nuovo.

«Dunque…» scandì Cammarata come se leggesse una sentenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato «L’intestatario del fondo di cui al n.12/a di calle de l’Arco è tale Leonardo Denza. Come sai, si tratta dello stesso Denza ex socio di Alberto Grenier e un tempo, a quanto si dice, amico del cuore della moglie.»

«Cristo!» esclamai. «Questo lo coinvolge in prima persona nei delitti.»

«Non è detto, può darsi che il fondo sia stato messo a disposizione di un amico, magari Grenier, o che il Denza lo abbia affittato a qualcun altro» replicò con buon senso l’ex seminarista.

Lo ringraziai e misi fine alla comunicazione. Non mi restava che appurare senza indugio l’identità del tizio che si era fatto recapitare il bocchino e l’accendino a quell’indirizzo. O era l’assassino, oppure all’assassino era strettamente legato.