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L’Istituto di Pena Femminile della Giudecca, un vetusto edificio ricavato da un antico convento delle Clarisse, anche se ristrutturato di recente e dotato di docce comuni, appariva per quello che era, una squallida prigione dove la femminilità delle recluse veniva umiliata e sottoposta alle peggiori vessazioni. Vitto scadente, in quantità inferiore a quella già scarsa prevista dal razionamento, insufficienza dei servizi igienici, celle anguste e poco areate. Potevo immaginare lo stato d’animo di Paola Baglioni Garlaschi, che aveva trascorso tutta una vita tra gli agi e il lusso del quartiere Parioli. Appena scesi dal vaporetto, rimuginando queste considerazioni, mi imbattei nel commendatore che stava uscendo dal colloquio con la figlia insieme all’avvocato Zonin e a Milena De Magistri. Era piuttosto abbattuto, il costruttore romano, e scosse la testa sconsolato nell’atto di porgermi la mano.

«Purtroppo le hanno negato la libertà provvisoria» sospirò.

«Il giudice istruttore Cersosimo ha dato parere negativo» aggiunse l’avvocato Zonin. «Ma non è il caso di scoraggiarsi, ricorreremo in Cassazione!»

«Ci sono novità, ha scoperto qualcosa?» mi domandò con sollecitudine Milena.

«No» risposi, «ma ho una traccia, per questo ho pregato il dottor Cammarata di farmi avere il permesso di un colloquio urgente con Paola.»

Baglioni Garlaschi aggrottò le sopracciglia. «Cosa può dirle mia figlia che già non sappia?»

«Due sere fa è stato commesso un secondo omicidio, qualcuno ha assassinato un editore di pubblicazioni erotiche, certo Bardi Stracca… Pare che fosse amico di Lino Plisman. Probabilmente Paola lo conosceva e può darmi delle informazioni utili…»

«Di fama lo conoscono tutti a Venezia» osservò Milena. «Secondo la voce pubblica era una spia, un informatore dei tedeschi.»

«Pensa che il suo omicidio possa essere collegato in qualche modo a quello di Plisman?» chiese l’avvocato Zonin interdetto.

«No lo so… È quanto cerco di scoprire» troncai brusco.

Rimanemmo d’accordo con Baglioni Garlaschi che ci saremmo visti in albergo ed entrai spedito all’interno del carcere, mentre i tre s’imbarcavano sul vaporetto.

Dopo aver mostrato al corpo di guardia i miei documenti e l’autorizzazione del Tribunale, percorsi un lungo corridoio sul quale si allineavano le varie celle. Mi accompagnava una suora di mezz’età che fungeva da secondino. A Paola Baglioni Garlaschi era stata riservata la cella migliore, dotata di un giaciglio decente, di un lavabo e di un water con scarico di acqua, nascosto dietro un paravento. Mi accolse con un sorriso malinconico, che celava uno stato di profonda depressione.

 

«Benvenuto al grand hotel Giudecca» disse mentre la suora ci lasciava soli accostando la porta. Sedemmo su due sgabelli davanti a un tavolo di metallo, il tutto era ancorato al suolo, onde evitare che le recluse potessero farne uso a scopo aggressivo.

«A quanto vedo, la trattano piuttosto bene» dissi offrendole una sigaretta. Mentre aspirava una boccata di fumo, mi spiegò che erano i soldi e le relazioni del padre a renderle meno dura la detenzione.

«Vedesse come sono trattate le altre… È già tanto se non crepano d’inedia» osservò in tono amaro. «Se ripenso alla vita privilegiata che ho condotto finora, mi vergogno di me!» aggiunse con foga. Ma si capiva che oltre a sentirsi in colpa per la sua condizione di privilegio, era affranta, sfiduciata, quasi temesse da un momento all’altro un evolversi in peggio delle accuse che ne avevano determinato la reclusione.

Non persi tempo in commenti inutili. Non ero venuto per risollevarle il morale, ma per ottenere informazioni una volta tanto veritiere.

«Perché ha mentito, Paola?» chiesi gelido.

Il suo bel volto si contrasse, ma non disse niente e con un gesto nervoso spense la sigaretta.

«Risulta per certo che lei non è mai entrata al caffè Florian dopo il concerto al teatro della Fenice. Ne ho avuto conferma dall’attore Mino Doro, che non ha voluto aggravare la sua posizione rivelando di averla intravista fuori, mentre si allontanava in fretta verso il Canal Grande.»

Abbassò lo sguardo e dopo un lungo silenzio scosse la testa rassegnata.

«Ho commesso una grossa stupidaggine a cercare di procurarmi un alibi, ma se avessi detto la verità, nessuno mi avrebbe creduto.»

«E qual è la verità?» incalzai.

Si strinse nelle spalle. «Volevo dare un taglio netto alla mia vita. Lasciare Plisman e ritornare a Roma dai miei… Mi angosciavo nel timore che mio marito non accettasse la separazione… Quella sera sentivo il bisogno di restar sola con me stessa, di riflettere, di prendere una decisione definitiva… Vagai per Venezia a lungo, senza una meta precisa. Tornai a casa con la ferma intenzione di parlare a Lino, di dirgli che l’indomani lo avrei lasciato.» Paola fece una pausa e si passò una mano sulla fronte come volesse scacciare dalla mente un incubo. «Quando arrivai a casa, allo scadere del coprifuoco, lo trovai che giaceva a terra morto in una pozza di sangue. E persi la testa.»

La guardai negli occhi, le sue pupille cobalto tradivano un profondo disagio interiore.

«Come le è venuto in mente di coinvolgere gli avventori del Florian?» chiesi addolcito.

Fece una spallucciata. «Li avevo intravisti attraverso i vetri, sperai che qualcuno di loro, magari in buona fede, potesse ammettere di avermi notato.»

«È stata ingenua, si è risolto tutto a suo danno. Ma non è il caso di prendersela troppo. Ora so quello che avvenne realmente quella sera, e attuerò una strategia adeguata» dissi tanto per incoraggiarla. Ma non avevo in mente nessuna strategia.

«Non riesco a credere che abbiano trovato la mia pistola nascosta nel bidone della spazzatura» riprese Paola sforzandosi di dominare l’ansia. «Chi può avercela messa?»

«Mi sembra evidente, l’assassino.»

«Certo! In modo di far ricadere la colpa su di me.»

Tacqui, non sapevo cosa dire perché condividevo la sua più che ovvia deduzione.

«Ha fatto qualche progresso nell’indagine?»

«Credo di sì» ammisi mostrando ottimismo. Poi entrai subito in argomento. «Conosce un certo Filippo Bardi Stracca, di professione editore?»

Ci pensò su un momento, poi fece un gesto affermativo.

«Sì, ho avuto modo di incontrarlo in un paio di occasioni.»

«Dove?»

Si strinse nelle spalle. «A un ricevimento e anche a una cena, mi pare… Stracca faceva parte di un gruppo che si riuniva quasi ogni sera per giocare a poker con Lino.»

«Chi altri ne faceva parte oltre a suo marito e Stracca?» incalzai. Mi guardò perplessa, evidentemente non capiva il motivo di tanto interesse. «Il produttore cinematografico Gastone Corvo, il marchese De Narderel, e il finanziere Alberto Grenier, marito della contessa Fosca Barbarigo.»

Non potei nascondere un moto di stupore. «Intende dire il Grenier che…»

«… che si è tolto la vita nel carcere di Santa Maria Maggiore circa tre settimane fa.» concluse Paola. «Proprio lui.»

La mia mente prese a elaborare la notizia a velocità vertiginosa. Ecco la traccia! Cinque amici legati al poker, di cui tre passati a miglior vita! Uno si è suicidato la notte prima di essere fucilato dai tedeschi, due sono rimasti vittime di un assassino senza volto. Il teorema era tutt’altro che facile da risolvere: si fondava su un’equazione con valori algebrici Grenier, Plisman, Stracca quali X, e Corvo e De Narderel quali Y. Mi restavano le due Y da quantificare per risolvere l’equazione.

«A cosa sta pensando?»

Paola mi riscosse dalle mie elucubrazioni. Abbozzai un sorriso confortevole.

«Quanto mi ha detto poco fa colloca i fatti in una nuova prospettiva… Lei probabilmente non sa che anche Bardi Stracca è stato ucciso» dissi.

Ebbe un soprassalto. «Davvero? Quando?»

«Due sere fa… Nella sede della sua casa editrice alle Fondamenta di San Lorenzo.»

Rimase alcuni istanti sconcertata, quasi non credesse a quanto avevo detto.

Finalmente valutò il significato della notizia. «E… Chi è stato a ucciderlo?»

«Lo stesso che ha ucciso suo marito. Un assassino senza nome e senza volto. Ma lo sarà ancora per poco. Glielo prometto, Paola.» Quando lasciai il carcere, il sole stava tramontando con riflessi dorati sulla chiesa della Salute. Lontano, udii risuonare la sirena di un vaporetto e subito dopo lo stridere di uno sciame di cormorani che volavano a pelo d’acqua in cerca di preda. Provai un brivido di freddo, o forse di paura. Anch’io in quel momento mi sentivo una preda.