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Dopo avere espletato le formalità di rito nel corpo di guardia del carcere, fui sbattuto privo delle stringhe e della cintura dei pantaloni in una cella fetida del primo raggio. Screiber era stato accondiscendente e mi aveva lasciato il pacchetto delle Macedonia Extra, che ne conteneva ancora due, il che significava che dopo un paio d’ore le avrei esaurite e sarebbe iniziato il mio tormento per carenza di nicotina nel sangue. Tuttavia mi sforzai di far buon viso a cattivo gioco. Detti un’occhiata alla cella, un umido antro di due metri per tre, fornito di regolare branda, bugliolo, sgabello, nonché della saltuaria presenza di topi e scarafaggi.

Contavo di rimanere in quell’hotel il minor tempo possibile: ero certo che il commendator Baglioni Garlaschi, non appena messo al corrente del mio arresto, sarebbe ricorso in mio favore a una delle sue amicizie altolocate.

«Domani è un altro giorno!» dissi tra me mentre mi accingevo a sistemarmi sul pagliericcio. Era una frase che avevo mutuato dalla protagonista eccentrica di un romanzo americano che aveva segnato tempo addietro un successo editoriale planetario, mi pare si chiamasse Rossana o Rossella.

Scarafaggi e topi a parte, il soggiorno fu abbastanza sopportabile, se si esclude lo schifo della zuppa servita alle sei del pomeriggio con un tozzo di pane muffito.

Ah, quanto avrei pagato per una bottiglia di Fernet! Ma mi dovetti accontentare di una razione di acqua vagamente odorosa di fogna. Stentavo ad addormentarmi, con il pensiero fisso a quella donna, Carmela, che con molte probabilità era implicata in tutti gli omicidi e indirettamente nel suicidio di Grenier. Chi poteva essere? E come potevo arrivare a identificarla? Mi rivoltavo agitato nella branda, rimuginando un’ipotesi dopo l’altra; quando alla fine sprofondai nel sonno, dalla finestrella a bocca di lupo penetrava il chiarore lattiginoso dell’alba.

Durante l’ora d’aria nel cortile, a metà della mattinata, venni avvicinato da un detenuto dall’aria complice, un certo Vanin. Il loquace furfante mi offrì una sigaretta Tre Stelle e mentre fumavamo dichiarò di essere vittima innocente di certi nemici politici.

«Comunista?» azzardai.

«No, ricettatore.» E spiegò di essere dentro per il suddetto reato.

Su cui sembrava avere un’idea tutta sua.

«Ricettazione che significa? Se qualcuno si offre di vendermi un quadro del Canaletto, che faccio, rifiuto? Oppure chiedo il permesso al pretore? Compro, pago e rivendo, regolare!» Mi scrutò con sguardo di faina. «Ci trovi qualcosa di irregolare, tu?»

«No, io no» dissi. «Ma il pretore sì.»

Mi si fece più vicino con aria di rivelarmi un segreto e ammise che sapeva chi fossi, da dove venivo, e per chi lavoravo.

«Per la moglie di Lino Plisman, quell’attore cinematografico che passava per essere un dio del poker ed era invece un gran pirla. Voglio darti una dritta» aggiunse poi offrendomi un’altra sigaretta. «Tra Plisman e il marchese De Narderel ci fu una violenta lite al Florian, qualche sera prima che venisse ucciso, per una questione di un cabriolet di trentamila lire che Plisman avrebbe rifilato al marchese.»

Un cabriolet, nel linguaggio della premiata ditta Alfredo Zecca detto Er Menzogna, significava un assegno a vuoto.

Non mostrai di dare eccessiva importanza alla soffiata, che poteva benissimo essere frutto di fantasia o tutt’al più di un pettegolezzo di Radio carcere.

Vanin sembrò deluso del mio scarso interesse, e prima che terminasse l’ora d’aria cambiò argomento.

«Complimenti per l’azione del Luce» disse con espressione di congiurato antifascista. «Siete stati grandi! Non bisogna dargli tregua a quei porci!»

Mi resi immediatamente conto di avere a che fare con un agente provocatore messomi alle costole dai tedeschi e lo guardai con accentuato stupore.

«Io non c’entro niente con quelli che hanno messo la bomba. Ero lì per caso… Io faccio l’investigatore privato, non l’aiuto bombarolo.»

Gettai il mozzicone di sigaretta e conclusi: «Sono come te, vittima di un errore giudiziario!».

Rientrai in cella e verso sera – avevano appena servito la schifosa zuppa di rape – il secondino aprì la porta con un gran rumore di catenacci e mi condusse in direzione.

Vi trovai, oltre al direttore Giovanni Brass, il commendator Baglioni Garlaschi e una mia vecchia conoscenza, il dottor Guido Leto, ex potentissimo capo dell’Ovra e attualmente alla testa della polizia politica di Salò.

Dopo le dovute riguardose espressioni nei confronti del superiore gerarchico, il direttore ci lasciò soli e Baglioni Garlaschi, mentre Leto assisteva sornione, mi mise rapidamente al corrente di quanto era avvenuto.

«Appena saputo del suo arresto, mi sono precipitato in macchina a Valdagno, dove risiede l’Eccellenza Leto… Siamo vecchi amici, ex compagni di liceo rimasti sempre in contatto a Roma.» Fece una pausa e riprese. «L’ho pregato di intervenire in suo favore, gli ho spiegato che lei non si occupa di politica, che è al mio servizio e sta svolgendo un’indagine per scagionare mia figlia Paola dall’accusa di avere ucciso il marito.»

«Che cosa ci faceva, Astolfi, ai giardini di Sant’Elena, due sere fa?» chiese brusco il vice capo della polizia politica fissandomi diritto negli occhi.

«Mi ero recato all’appuntamento con un produttore della Cines, Gastone Corvo, che poteva darmi delle informazioni utili per la mia inchiesta. Ma prima che lui potesse parlare, qualcuno ci ha sparato attraverso la porta-finestra che dà nel giardino. Io sono rimasto ferito di striscio a una spalla e Corvo ci ha lasciato la pelle. Subito dopo, ho udito una forte esplosione all’esterno. Sono uscito e ho visto che il padiglione del Luce stava bruciando.»

«E che cosa ha fatto?» chiese in tono neutro Leto.

«Sono scappato, che altro potevo fare?» risposi d’impulso.

«Non ha incontrato nessuno di sua conoscenza?» insisté in tono volutamente allusivo, in modo da trasmettermi un chiaro messaggio: che era perfettamente al corrente di quanto avvenuto nel buio dei giardini.

«No, nessuno.»

«Bene,» riprese Guido Leto cambiando tono «come procede la sua investigazione? Ha dei sospetti sull’autore degli omicidi?»

«Sono sulle tracce di una certa Carmela, che ritengo legata in qualche modo ai tre amici del poker eliminati nel giro di alcune settimane.»

Il cinico Talleyrand di Salò fece un cenno di assenso. «Prosegua l’indagine… Ma eviti assolutamente d’immischiarsi in politica e di avere contatti con elementi ostili ai tedeschi. Ho garantito per lei con il colonnello Hoffmann e il maggiore Screiber. Se sgarra, in futuro non potrò più trarla dai guai.» Fece una pausa e aggiunse: «A buon intenditor poche parole!».

«Grazie, dottor Leto.» Poi azzardai: «Per caso avrebbe una Nazionale?».

Sorrise e mi porse un pacchetto intero. «Lo tenga pure, ma si ricordi che il troppo fumo fa male.»

«Ma il poco fa peggio» ribattei sfacciato.

Fuori dal carcere, mentre saliva sulla grossa Lancia di servizio che lo avrebbe ricondotto a Valdagno, scambiò un abbraccio con Baglioni Garlaschi e mi rivolse un’ultima raccomandazione.

«Attento soprattutto a non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato!»