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La giornata si annunciava incerta, con nubi cumuliformi e un forte vento di bora. Venezia appariva come la sera prima, una splendida costellazione di gemme incastonate nella corona d’isole della laguna. Ma al commendator Baglioni Garlaschi, romano da sette generazioni, doveva apparire una specie di Gomorra che stava trascinando sua figlia alla rovina. Sul vaporetto diretto a Rialto, dove aveva lo studio l’avvocato Zonin, era salita, oltre a noi due, Milena De Magistri, che al padre dell’amica avrebbe fatto da guida negli oscuri meandri della Serenissima. Durante il tragitto scambiammo solo poche parole. Il costruttore ribadì con acrimonia che non ne voleva sapere dei funerali del genero. Al limite se ne sarebbero occupati i suoi parenti di Merano. Non sollevai obiezioni, oltretutto non ero interessato al problema dei morti, bensì a quello dei vivi. Quando il vaporetto fece sosta alla banchina di Rialto, restammo d’accordo che ci saremmo rivisti la sera e io proseguii per i Giardini di Sant’Elena, cioè per il Cinevillaggio.

Nello spazio antistante i padiglioni della Biennale, alcuni dei quali adattati a teatri di posa, c’era il solito viavai di sfaccendati e comparse in attesa di una chiamata da parte di qualche aiuto-regista. L’altoparlante di una radio, fissato in bella vista alla sommità di un traliccio, stava trasmettendo il notiziario quotidiano della Deutsche Wochenschau, i cinegiornali nazisti. Un capannello di persone, per lo più operai di scena e impiegati del Luce, ascoltavano in silenzio la voce roboante dello speaker.

“… Gli scontri sul versante bielorusso del fronte, ad est del fiume Dnestr sono stati molto aspri. Le armate del Reich hanno inflitto pesanti perdite al nemico, che ha lasciato sul terreno oltre trenta carri armati e una grande quantità di materiale bellico. Nello scacchiere italiano, sulla linea fortificata di Cassino, continuano le operazioni di sgombero di ciò che resta della sacra abbazia, barbaramente rasa al suolo dal recente bombardamento dell’aviazione anglo-americana. Il Governo del Reich e quello della Repubblica Sociale Italiana hanno denunciato al mondo la vergognosa violazione delle norme internazionali che impongono il rispetto dei luoghi sacri e del patrimonio artistico dell’umanità…”

Una sequela di frasi di disapprovazione si levò dagli ascoltatori, la distruzione dell’abbazia di Montecassino da parte degli Alleati veniva sfruttata con successo dalla propaganda tedesca.

«Quelli sono una massa di negri maledetti» osservò acida una ragazza in uniforme di ausiliaria della GNR. «Vedrete che prima o poi butteranno giù anche il Duomo di Milano!»

Tirai diritto in direzione della sede della Cines, sul piazzale antistante il bar avevo intravisto Fernando Cerchio, il regista de La buona fortuna, in compagnia dell’Eccellenza Venturini che sfogliava nervoso il copione del film. Accanto a loro, notai due giovani sceneggiatori: Francesco Pasinetti, veneziano, che conoscevo di vista, e Glauco Pellegrini, un senese alto e allampanato, che fungeva anche da aiuto-regista. Mi avvicinai al gruppo e rimasi in attesa senza che alcuno facesse caso a me.

Venturini prese a strappare con gesti nervosi diverse pagine del copione. Nel silenzio dei collaboratori, le accartocciò e le buttò via. Poi si rivolse trionfante a Cerchio. «Visto, Nando? Il problema è risolto. Niente sostituzione di Plisman con un altro attore. Ho eliminato le sue scene e via!»

«Ma così il film viene più corto» obiettò educatamente Pasinetti. Venturini si strinse nelle spalle. «E voi allungate i dialoghi agli altri personaggi, e così fate metraggio!» Si stropicciò soddisfatto le mani e concluse: «Qui non è questione di film lunghi o corti, ma di film belli, vibranti, che ridiano vigore alla cinematografia fascista!».

Sollevò il braccio destro nel saluto rituale e i presenti risposero scattando sull’attenti. Appena Venturini si fu allontanato nella sua Lancia blu di servizio, gli autori del film entrarono nel bar parlottando tra loro.

«Comincia subito le modifiche, Glauco, poi le rivediamo insieme!» ordinò autoritario Cerchio al suo collaboratore senese.

Intanto che Cerchio e Pasinetti sorseggiavano un vermouth appoggiati al bancone, Glauco Pellegrini andò a sedersi a un tavolo e iniziò a buttare giù con la stilografica degli appunti sul copione. Ogni tanto abbozzava a bassa voce qualche battuta di dialogo e si affrettava a scriverla a bordo pagina.

Mi accostai a lui con aria compunta.

«Mi scusi, dottore…»

Mi guardò storto. «Non sono dottore, sono flautista diplomato al conservatorio.»

«Fa lo stesso» dissi sorridendo e mi sedetti senza tanti complimenti al suo tavolo.

«Ma lei chi è, scusi?» chiese burbero. «Qualche giorno fa l’ho vista confabulare in scena con Maurizio D’Ancora e con…»

«… con Lino Plisman, sì, l’attore che è morto.»

Aggrottò la fronte. «Vuol dire l’attore che è stato assassinato» precisò guardingo.

Gli spiegai in modo succinto chi fossi e il motivo della mia presenza a Venezia, senza tralasciare la parte relativa all’arresto di Paola Baglioni Garlaschi.

Pellegrini mi ascoltò interessato e scosse la testa. «Ho l’impressione che la polizia stia facendo un buco nell’acqua» disse. «Non credo che sia stata la moglie a uccidere Plisman… L’ho incontrata un paio di volte, e non la ritengo capace di un gesto estremo. È solo una sventata figlia di papà, non ha niente di passionale.»

Puntò su di me l’indice della mano destra e asserì convinto: «Questo è un delitto passionale, creda a uno che se ne intende di omicidi tra coniugi».

«Perché, lei ha ucciso sua moglie?» mi venne spontaneo di chiedere.

«No, io per fortuna sono scapolo… ma ho letto una casistica impressionante su questo argomento. Dalla contessa Tarnowska, detta la circe russa, alla nobildonna Giulia Trigona, a Jena Capena, la famosa contorsionista del circo Medrano che per gelosia evirò il marito lasciandolo morire dissanguato.»

Non mi sentii di contraddirlo e passai a porre la domanda che m’interessava.

«Che tipo era Lino Plisman, al di là delle apparenze?»

Ci pensò su qualche istante. «Difficile catalogarlo. Come uomo, era un presuntuoso… come attore, un mediocre.»

«Aveva dei nemici, secondo lei?»

Scosse la testa. «Non mi risulta, semmai dei cattivi amici.»

«In che senso?»

«Nel senso di gente equivoca, di scarsa reputazione» precisò. «Uno di costoro è Filippo Bardi Stracca, un piccolo editore di pubblicazioni porno… Noto per essere un organizzatore di coprifuochi

Rimasi un attimo sconcertato. «Mi scusi… Cosa sono i coprifuochi

Si strinse nelle spalle.

«Secondo Stanislao Murinas, un giornalista che qualche volta li ha frequentati, si tratta di festini sibaritici in uso tra i ricchi borghesi, alcune famiglie aristocratiche e importanti gerarchi fascisti. Dieci, venti persone, a volte anche molte di più, si riuniscono per ricevimenti e cene in case abbienti o nei principeschi palazzi del Canal Grande. I trattenimenti pantagruelici hanno inizio alle undici di notte, ora del vero coprifuoco. Dopo aver mangiato, si gioca, si balla, si fiuta cocaina e si fa all’amore, fino alla cessazione del coprifuoco, alle 6 del mattino.»

«Ma è pazzesco!» mi venne fatto di osservare. «Per loro non vale il razionamento?»

Una smorfia di sdegno contrasse il volto del mio interlocutore.

«Mentre la povera gente fa la fame e stringe la cinghia, tra codesti personaggi moralmente indegni ci si sollazza. C’è abbondanza di tutto. Dagli antipasti a base di ostriche e caviale, alle pernici arrosto, ai più raffinati formaggi francesi. E non mancano certo montagne di torte e semifreddi abbinati a liquori di ogni genere e marca. Un’abbondanza di cibi rivoltante, uno spreco inimmaginabile e assurdo.»

Per oltre un minuto restai in silenzio, incapace di proferire parola.

«Stento a crederci» dissi poi turbato.

«Davvero?» Pellegrini mi fissava con un’espressione di amaro sarcasmo. «Può constatarlo di persona, non è difficile.»

Scossi la testa. «Non ho la patente di moralista, solo quella d’investigatore privato.»

«Appunto. Se vuole saperne di più su Plisman,» riprese il cineasta «interroghi il suo sodale Bardi Stracca.»

«Perché no» dissi.

«C’è un coprifuoco, domani sera, a casa del marchese Gian Andrea De Narderel, sul Canal Grande. In onore dell’attrice Doris Duranti. Filippo Bardi Stracca ci sarà senz’altro. Perché non ci fa una scappata?»

Feci un cenno affermativo, ringraziai e uscii pensieroso dal bar.

Fuori colsi al volo i commenti di un piccolo assembramento di comparse, che riunite attorno a un capogruppo erano in attesa delle eventuali convocazioni per il giorno dopo.

«Che dici, Oreste, riprenderanno a girare domani?» chiese angustiata una giovane donna smunta all’omone atticciato che stava spuntando dei nomi da un ordine del giorno spiegazzato.

«Speriamo. L’aiuto-regista ha detto che stanno decidendo adesso. Tra poco mi faranno sapere qualcosa.»

«Ci mancava che quella screanzata uccidesse il marito proprio adesso che si aveva qualche giornata di lavoro assicurata!» brontolò un vecchio che indossava una palandrana e una tuba da gentiluomo d’altri tempi. «Cristo santo! Non poteva aspettare lunedì?»

«Pare che gli abbia sparato due colpi di pistola al cuore e, zac!, lo abbia steso morto stecchito» commentò una matrona eccitata.

«Deve averlo fatto perché quel Plisman le metteva le corna» osservò l’anziano con la tuba.

«Ma che corna e corna!» sbottò il capogruppo. «Sapete che vi dico? Quella putea si becca l’ergastolo, ma intanto noi abbiamo perso tre giornate di lavoro sul film!»

Questa era l’atmosfera che si respirava al Cinevillaggio quel giorno. Mentre mi avviavo al vaporetto, tremai per la sorte che attendeva Paola Baglioni Garlaschi.