Rosengarten

Fu lo zio Beppe, come noi chiamavamo un cugino del babbo, a iniziarci allo sci.

Veniva a prenderci la domenica, con gli sci sul tetto della macchina, quando era ancora notte e ci portava all’Abetone.

«Dovete imparare prima di venire con me» ci diceva affidandoci al maestro nel campo scuola. Passava a riprenderci nel pomeriggio, tutto allegro: «Che sciate, bambine!».

Durò un paio di inverni, il tempo di imparare a scendere dalla Selletta a spazzaneve. Poi zio Beppe sparì. Letteralmente. Si dissolse nel nulla.

«Lo zio non ci porta più a sciare?» chiedevo.

«Non può, si è trasferito a Modena» rispondeva la mamma evasiva.

Non me ne capacitavo: perduti in un colpo solo uno zio e il divertimento domenicale.

Alla fine Micaela scoprì cosa era successo e me lo raccontò: «Inutile che aspetti lo zio, quello non torna più. Sua moglie l’ha buttato fuori di casa a calci nel culo».

«Perché?»

«Aveva l’amante. Ci lasciava al maestro e andava con lei a fare le cosacce. La mamma ha detto: “Vergogna, usare due bambine come copertura”.»

Potevo rassegnarmi alla perdita di uno zio, finto zio, per giunta, e fedifrago, ma lo sci mi era entrato nelle vene.

Mia sorella risolse il problema poco dopo grazie all’amica Letizia i cui genitori, a differenza dei nostri, amavano la montagna. Andava a dormire da lei il sabato sera e tornava la domenica con gli scarponi in mano e l’odore di neve nei capelli. Io restai al palo. Quando rientrava, allegra e ciarliera, mi rifugiavo in camera mia, piena di invidia e di rancore.

Finalmente il babbo trovò una società sportiva che organizzava corsi di sci per bambini. Ogni domenica mattina mi accompagnava in piazza Beccaria e mi lasciava davanti al negozio La Baita, dove mi attendeva un pullman rigurgitante di ragazzetti eccitati.

Né Micaela né io abbiamo mai smesso di andare sulla neve; la passione per lo sci è stata una delle poche cose che abbiamo condiviso.

«Facciamo una settimana bianca insieme?» propose lei. Era il gennaio del ’79, finite da poco le feste di Natale. Affittammo un appartamento a Nova Levante, sulle Dolomiti, il più economico che trovammo.

Mi presi la libertà di invitare anche Sergio.

«Mi piacerebbe» aveva risposto «ma forse fanno il concorso.»

Se quel concorso fosse stato confermato, Sergio sarebbe andato a Roma. Non ci avrebbe raggiunte in montagna, non ci saremmo scolati quattro bottiglie di vino e non saremmo andati a letto alticci. Se la tormenta fosse arrivata a valle, la seggiovia non sarebbe partita e noi non avremmo raggiunto la cima.

Invece il concorso fu rimandato, la tormenta si fermò ad alta quota e la seggiovia funzionò regolarmente.

Mentre litigo con mia sorella le immagini di quel giorno mi passano in ordine sparso nella memoria. È lì, a quel 17 gennaio che voglio portare la discussione. A quel nodo irrisolto che ha imbrigliato le nostre vite e fatto di noi definitivamente due nemiche.

«Sei un’egoista, un’incosciente» le grido. «Come hai potuto…»

«Padre, ho peccato. Quanti atti di dolore devo recitare?»

«Il tuo sarcasmo mi fa vomitare.»

«Il tuo perbenismo ipocrita fa vomitare me! In quei due anni…»

«Gli anni del collegio?» la interrompo sarcastica. Desidero ferirla.

«Galera. Si chiama galera! Fosse stato per te ci sarei potuta crepare là dentro, sei sparita, come se non esistessi.»

«Che pretendevi? Che ti perdonassi?»

«Ho pagato. Con la giustizia ho saldato il conto.»

«Non con me.»

«Già, a te non basta, vero? Per te, Agnese, sono ancora colpevole, lo sarò sempre, perché il tuo rigore ottuso non ammette errori, perché la tua stupida rispettabilità viene prima di tutto!»

«Non è questo!» Sento che gli occhi contro la mia volontà si riempiono di lacrime, la voce incrinata come vetro mentre aggiungo: «Sergio è morto». Ed è come se questa ammissione, così a lungo blindata nei recessi più oscuri della mia coscienza, deflagri in un’esplosione gigantesca.

Certe volte le parole hanno una forza che ci sfugge. Una semplice frase, soggetto predicato, un’ovvietà, se vogliamo. Eppure quelle tre parole si portano via tutto. Le urla, gli insulti, le recriminazioni si svuotano e rotolano via come sacchetti di plastica trascinati dal vento.

Micaela si blocca, il volto contratto in una smorfia. Forse trentacinque anni di fughe aggiustamenti menzogne non sono bastati neanche a lei per tacitare la coscienza.

Si afferra una ciocca, la arrotola intorno all’indice: «Che senso ha tormentarci ancora? Sai quanto tempo è passato?».

Certo che lo so. Un tempo lunghissimo, il tempo di una vita. Il tempo di cambiare città, trovare un buon lavoro, mettere su famiglia. Il tempo di far nascere due figlie, vederle crescere, arrabattarmi tra gli impegni, gli appuntamenti, l’asilo, le vacanze, le prime delusioni d’amore. Il tempo di invecchiare accanto a un uomo che rispetto e col quale ho condiviso tutto. Quasi tutto.

Eppure, malgrado tanta dovizia di esperienze di affetti, in questa notte di pioggia non posso evitare di chiedermi come sarebbe stata la mia vita se quel giorno le cose fossero andate diversamente.

I primi due giorni di vacanza passarono tranquilli. Ci eravamo sfinite sulle piste esplorando buona parte del comprensorio. Pensavo a Sergio, naturalmente, e alla mezza promessa che gli avevo strappato. Se viene vuol dire che gli interesso davvero, mi dicevo in bilico tra la speranza e il timore di una delusione. Se stasera il Rosengarten si colora, allora viene.

Il tempo era stato magnifico. La temperatura era di parecchi gradi sotto lo zero ma non si era vista una nuvola e al tramonto il Catinaccio ci aveva regalato lo spettacolo dell’“enrosadira”, tingendosi di giallo, rosso fuoco, viola, prima di scomparire nel buio della notte. Poi, alla fine del secondo giorno, il clima era cambiato repentinamente, come avviene in montagna. Il Latemar si era incappucciato, il cielo era trascolorato in grigio cupo e mentre scendevamo lungo l’ultima pista la nube della tormenta ci stava alle calcagna. Quella sera il Catinaccio si era dissolto nelle tenebre senza il trionfo dei suoi colori.

Il terzo giorno al risveglio ci accolse un paesaggio opaco, liquefatto nella nebbia. Larghi fiocchi di neve turbinavano contro i vetri delle finestre.

Stavamo facendo il caffè, incerte se andare a sciare, quando è suonato il campanello e io ho saputo con assoluta certezza che era lui. Mi sono precipitata in pigiama giù per le scale, ringraziando il destino e tutti gli dèi per quel concorso annullato. Ho tolto il paletto tremando per l’emozione.

Nel riquadro della porta, in un turbinio di nevischio, apparve Sergio, la giacca a vento blu, lo zaino appeso a una spalla, il ciuffo biondo a coprirgli metà fronte. Aveva un sorriso enigmatico, non so se di scusa o di compiacimento. Si è tirato indietro il ciuffo con la mano e ha detto: «Buongiorno, Titta, mi sei mancata».

Il tempo si fermò. Il tempo e lo spazio si cristallizzarono in quel rettangolo di porta, sospesi tra le sue labbra socchiuse e l’impulso di gettargli le braccia al collo. L’attesa si era trasformata in una gioia quasi dolorosa.

Era tornato il Sergio di sempre, anzi, ancora più allegro. Mentre aggiungevamo una tazza in tavola frugò nello zaino e posò una scatola di gianduiotti, guardandomi sornione: «Sono questi che ti piacciono, vero?».

Le azioni più banali acquistano in certi momenti un valore inestimabile.

Temevo che lui e Micaela avrebbero ripreso a punzecchiarsi, invece nessuno parlò di politica. Restammo seduti a lungo a ingozzarci di caffellatte bollente, a piluccare biscotti e cioccolata, discutendo di piste, impianti di risalita, di sci e scarponi.

«Non ho portato gli sci» ci informò Sergio. «Dovrò noleggiarli.»

Fuori la neve era diventata più fitta, il cielo ancora più scuro, elettrico della tensione della tormenta in arrivo. Le cime degli alberi si piegavano sotto le raffiche di vento come alberi maestri nella tempesta. Decidemmo per quel giorno di non sciare e di andare in paese a fare la spesa e a noleggiare gli sci.

Scendemmo a piedi lungo la strada ghiacciata in fila indiana, tenendoci vicini al guardrail per schivare le automobili che venivano, sferragliando con le catene, in direzione opposta. La neve controvento ci sferzava la faccia, si posava sulle ciglia riducendo la visuale. Procedevamo lentamente, in equilibrio precario, ma, anche se non lo vedevo, percepivo dietro di me il calore che emanava il suo corpo. Arrivammo così al ponticello di legno su cui si era posato uno spesso strato di neve. Sotto di noi giaceva il torrente in una crosta di ghiaccio. Le sue mani intorno alla vita: «Attenta Agnese, è sdrucciolevole», un brivido bollente che increspa la pelle.

Sergio parlava, parlava. Non l’avevo mai visto così loquace. Parlò per la strada, mentre spingeva il carrello al supermercato, parlò al Caffè Il Daino, con la coscia pericolosamente accostata alla mia. Raccontò del viaggio in treno fino a Bolzano, di un bambino che aveva pianto tutta la notte, di un uomo che mangiava le mele e sputava i semi dietro la tenda del finestrino, della Due Cavalli usata che avrebbe comprato e con la quale voleva arrivare in Irlanda.

«Quando ti laurei?» mi aveva chiesto improvvisamente al bar.

In tempo per venire con te in Irlanda, avrei voluto rispondergli.

Il grigio del cielo era precipitato in un nero opaco senza che ce ne fossimo accorti. Col cucchiaino raschiavo il fondo della cioccolata nella tazza.

«Si laurea tra pochi mesi» aveva risposto per me Micaela. «Agnese è il genio di famiglia.»

«Sì, Agnese è proprio in gamba» aveva confermato lui serio. «Non come noi due che non abbiamo combinato nulla.»

«Questi si mangiano o ci giochiamo a bocce?» aveva chiesto Sergio ridendo, mentre estraeva dalla busta della spesa una confezione di canederli.

Era iniziata allora la diatriba su come si cucinano i canederli, fin quando lui, tra le risate, ne aveva addentato uno crudo. «Disgustoso!» aveva annunciato sputandolo nella mano. «Presto, datemi qualcosa da bere per rifarmi la bocca.»

Avevamo stappato la prima bottiglia di vino e brindato a un futuro che ci pareva carico di promesse. Dalla radio accesa Roberto Vecchioni incitava il cavallo a raggiungere Samarcanda affinché il destino si compiesse. Per noi era solo una bella canzone.

Sergio, col bicchiere in mano aveva afferrato Micaela per la vita e avevano ballato. Poi si era rivolto a me: «Signorina Canovai, permette questo ballo?».

«Con molto piacere, signor Bottai.»

Mi aveva abbracciata.

«Ma signorina, lei non azzecca un passo.»

«È lei che non sa condurre.»

Avevamo dondolato a lungo, vicinissimi, nel cerchio di luce che il lampadario disegnava sul pavimento.

«Tu dormi in camera mia» aveva detto mia sorella pulendosi la bocca col tovagliolo e gettando uno sguardo allo zaino di Sergio buttato in un angolo.

Lui aveva spostato gli occhi dal piatto allo zaino, quasi delusi: «E tu?».

«Io dormo con Agnese.»

Aveva portato lo zaino nella camera in fondo. Era tornato con uno Scarabeo da viaggio, aveva ripreso il suo posto a capotavola e aveva aperto la terza bottiglia di vino.

Mentre giocavamo nello scampolo di tavolo liberato dai piatti, osservavo i suoi bicipiti tesi sotto la maglietta, lo sguardo concentrato sulle tessere delle lettere, il ciuffo biondo che si scollava dalla fronte reclinata e oscillava negligente.

Andiamo a letto, ora, amami. Sarò la tua geisha, la tua odalisca, il tuo cane devoto. Mentre componevo le parole sul tabellone, ogni mia fibra tendeva, come una lama alla calamita, verso il suo corpo.

Intanto i bicchieri si riempivano e si svuotavano con la stessa rapidità, donandoci un’euforia che penetrava sotto la pelle e riscaldava le vene, accelerando il flusso sanguigno, imporporandoci le guance e sbrigliando la lingua dai freni inibitori.

«Che cugine!» ripeteva Sergio con voce impastata. «Non c’è cosa più divina che trombarsi la…»

E io ridevo… Ero cotta come una pera al forno.

Poi il discorso era scivolato sullo sci, ma nemmeno allora riuscivamo a restare seri.

«Sei un brocco!» gli dicevamo io e Micaela. «Domani ti facciamo mangiare la polvere.»

«Un brocco io? Io che vi ho sconfitte a Scarabeo? Ciò dimostra, se non l’avevate capito, la superiorità del maschio sulla femmina, della logica sull’istinto, del randello sulla fessa!»

Facemmo quella stupida scommessa.

La tempesta di neve premeva contro i vetri come uno sciame di locuste, ma noi non ce ne accorgevamo.

«Bambine, domani vi faccio piangere» disse mio cugino andando a letto barcollante.

In mancanza di meglio Micaela si riempie un bicchiere dal rubinetto, ne trangugia avidamente il contenuto. Poi si siede di nuovo, mi posa una mano sul braccio: «Credi che per me sia stato facile?». Fa un cenno con la mano come per scacciare una mosca dal viso: «Ma alla fine bisogna far pace col passato».

«Te l’ha suggerito il tuo strizzacervelli?» chiedo acida.

«Me lo suggerisce il buonsenso. I cimiteri sono pieni di persone morte giovani. Specialmente allora.»

La mattina dopo, storditi dal sonno, avevamo raggiunto le piste deserte. Intirizziti dal freddo avevamo deciso di concederci un cappuccino bollente prima di affrontare la discesa. Il rifugio era vuoto. Il gestore, vedendoci, ci aveva fatto gran festa: «Bravi ragazzi, così si fa! Voi sì che siete sciatori! Non come quel gregge di fifoni che viene qui solo per sfoggiare le tute di marca. Ieri mattina, al primo accenno di tormenta, hanno mollato gli sci qua fuori e sono tornati a valle con la seggiovia. Non sono tornati neppure a riprenderseli, ma se pensano che ci faccia la guardia io, stanno freschi!».

Fuori dal rifugio difatti la rastrelliera era piena di sci come nei giorni di tutto esaurito. Micaela ne adocchiò un paio vicini ai suoi, nuovi fiammanti.

«Poveri sci abbandonati! Quasi quasi li adotto.»

Li staccò dal sostegno, accarezzandoli col guanto: «Che combinazione! Sono giusto della mia misura».

Poi li stese per terra e provò a inserire lo scarpone nell’attacco: «Basta allargarlo un poco, è questione di un attimo. Sergio, mi aiuti?»

Lui si chinò ubbidiente e con una moneta iniziò ad allentare la vite dell’attacco.

«Siete ammattiti» mi indignai. «Volete rubarli?»

«Macché rubare e rubare!» rise Micaela. «Li prendo in prestito. Stasera li rimetto qui e torno giù con i miei. Diciamo che è un prestito proletario.» Fece l’occhiolino a Sergio con un’espressione piena di malizia.

Le mie proteste non valsero a nulla. Non mi rimase che raggiungerli in cima alla pista.

Ci tuffammo nella nebbia che galleggiava a mezz’aria, mordendo la neve ghiacciata che scricchiolava sotto gli sci, con l’incoscienza, l’euforia, la voglia di competizione che si prova solo a vent’anni.

Poi lo schianto che ruppe il silenzio, lo spazio immenso senza confine, il corpo di Sergio abbandonato come un burattino cui abbiano tagliato i fili.

Da quel momento tutto diventò confuso, solo immagini e sensazioni disordinate: una porta chiusa, una nuca rasata, un animale investito, la visione trasognata del Rosengarten al tramonto e Sergio che scia fra gli abeti gridando «Bambineee…».

«Vuole spiegarmi?» insisteva l’uomo agitando il pacco di volantini sotto il viso di Micaela. Lei sedeva rigida, gli occhi ostinatamente bassi.

Non capivo cosa stesse succedendo, cosa fosse quella vibrazione intervenuta tra loro due intorno a quel materiale cartaceo. Allungai il collo e in alto, al centro del primo foglio riconobbi la stella a cinque punte. Sentivo, come in un sogno, la voce del commissario che parlava: «Non ho mai creduto a un incidente. Ammetto di aver pensato inizialmente a uno stupido scherzo, un atto di incoscienza compiuto in stato di ubriachezza e finito in tragedia. Ma questo» altra scrollata ai fogli «questo cambia tutto. Ritengo che le sue responsabilità siano molto più gravi e che la morte di suo cugino sia stata premeditata».

Micaela si scosse dal torpore: «Cosa? Cosa c’entra la morte di Sergio?».

«Il signor Sergio Bottai, operaio e sindacalista alla S.M.A. di Firenze, aveva denunciato un collega di lavoro per attività sovversiva all’interno della fabbrica. Lei lo sapeva, vero? Sapeva anche che suo cugino aveva ricevuto minacce di morte da parte delle Brigate Rosse. Non è così?»

«No, non lo sapevo, non ho niente a che fare con questa storia.»

«Ammette di far parte dell’organizzazione terroristica denominata Brigate Rosse a titolo di militante o fiancheggiatrice?»

«Mi dichiaro prigioniero politico.»

«Riconosce di aver diffuso a scopo propagandistico materiale eversivo per conto di suddetta banda armata?»

«Mi dichiaro prigioniero politico.»

Vidi mia sorella rigida sulla sedia come una scultura di legno, poi la vidi girare intorno a me insieme alla stanza e al commissario e all’agente, mentre una mano invisibile mi stringeva alla gola.

Tornai a casa da sola al seguito di un’ambulanza col lampeggiante spento, da sola affrontai le tappe del doloroso calvario: il volto cereo di Sergio incorniciato nel raso della bara, il ciuffo pettinato all’indietro come non gli sarebbe piaciuto, il dolore selvaggio della zia che mi cacciò dalla chiesa.

Micaela confessò la sua appartenenza alle Brigate Rosse, ma negò ostinatamente qualsiasi responsabilità nella morte di Sergio. Malgrado gli sforzi del commissario, in assenza di prove concrete, fu scagionata dall’accusa di omicidio. Fu invece condannata a due anni di reclusione come fiancheggiatrice di banda armata. Il babbo chiese e ottenne il pensionamento anticipato, la mamma interruppe le lezioni alla scuola di musica, io mi laureai a tempo di record e fuggii ad Ancona, dove non ero la sorella di nessuno e Canovai era un nome qualsiasi.

Scosto la mano di Micaela dal braccio: «Non doveva succedere».

«E chi lo decide? Tu? Le cose succedono e basta. E poi eravamo così giovani, così incoscienti…»

«Tu eri incosciente! Tu sei incosciente!»

Di nuovo la carica di ricordi, volti immagini silenzi rumori di quella notte che trascolorava nella neve. Ci fu un gran viavai quella notte, scalpiccio soffocato di passi su e giù per le scale, il letto di Micaela vuoto…

Raccontare la verità non avrebbe giovato a nessuno. Non avrebbe riportato in vita Sergio. Così mi sono giustificata in tutti questi anni.

«Eravamo tutti insieme» si difende lei.

Barcolla lievemente, ha la voce impastata. Sento di odiarla: «No, non eravamo tutti insieme. Io non ero con te. Non sarebbe successo se tu…».

«Io cosa?»

«Se tu non fossi stata così incosciente.»

«Sai che ti dico? Vaffanculo!»

Si alza di scatto, la mascella che trema per l’ira e raggiunge la porta. Qui si volta e aggiunge dura: «Stronza. Non vedo l’ora che te ne vada, non ne posso più di sentirmi vomitare addosso tutte le colpe del mondo».

Sta per andarsene. Non voglio che finisca così. Questa volta voglio arrivare in fondo, voglio che sappia quanto male ha fatto.

«Credi che non ti abbia visto quella notte?» le grido dietro.

«Quale notte?»

«La notte prima. Ti ho visto, Micaela, non ho mai detto nulla ma ho visto tutto».

Resta con la mano sulla maniglia, mi lancia uno sguardo desolato: «Mi spiace, credevo che a questo punto mi avessi perdonato».