Anni di piombo

Micaela non volle più parlare dell’aborto. Non ho mai saputo come abbia passato il tempo e cosa abbia provato quel pomeriggio nell’ambulatorio del dottor Conciani. Quando la vidi scendere dal pulmino, pallidissima, le chiesi: «Hai sentito molto male?».

«Credevo peggio» rispose e fu tutto qui.

Si rianimò poco dopo, coi moti studenteschi del ’77. Fiutò aria familiare già con l’occupazione della facoltà di Lettere a Palermo, ma il suo cuore cominciò a battere davvero quando gli studenti, a Roma, presidiarono la Sapienza.

Avevamo conosciuto in un collettivo femminista una coppia di ragazze che «dopo averla data a tutti, ma proprio a tutti», come si vantavano loro, si erano convertite all’amore saffico.

Amanda, che secondo me faceva l’uomo, indossava sempre una salopette di jeans e portava i capelli corti a spazzola. Era alta, massiccia, con un seno enorme che debordava dalla pettorina della tuta e parlava col tono condiscendente di chi ha capito tutto e dispensa in giro pillole di saggezza.

Giuliana era esile, minuta, con una matassa di capelli scuri che la facevano somigliare a un porcospino. Era di Catanzaro e frequentava Medicina a Firenze.

Facevano la spola tra i circoli del proletariato giovanile a Milano e l’università occupata a Roma. Erano loro la nostra fonte diretta di notizie.

«Gli studenti stavano manifestando in corteo, quando è arrivata una 127 bianca con su agenti in borghese. Hanno sparato sui compagni.»

«Criminali!» Si indignava Micaela. «Tu c’eri?»

«No, quel giorno eravamo a Milano. Ma mi ha raccontato tutto per filo e per segno una compagna del movimento.»

«E il partito?» chiedevo io.

Si erano voltate tutte e tre con un sorriso di scherno: «Quale partito? Quello che fa gli accordi con la DC? Il partito è contro l’occupazione, odia il movimento più dei fascisti, più della polizia».

In effetti poco dopo il Partito Comunista dichiarò di «ritenere una necessità politica e democratica la ripresa delle attività didattiche alla Sapienza». Cossiga al Tg1 rincarò la dose: «Non tollereremo che l’università diventi un covo di indiani metropolitani, freak e hippy».

Micaela si sentì colpita in prima persona: «Sentito?» ringhiava. «È scontro aperto. Cosa facciamo?»

Per la verità io qualcosa da fare ce l’avevo. Dovevo preparare l’esame di Diritto privato. Ma vennero a trovarci Amanda e Giuliana, tutte infervorate.

«I compagni tengono duro, la Sapienza per ora resta occupata.»

Raccontarono del gran numero di studenti che presidiavano l’università, non una minoranza rumorosa come volevano far credere; dell’entusiasmo che teneva unite Autonomia e ala creativa; dei manifesti degli indiani metropolitani, dei cortei e dei girotondi per le strade.

«In assemblea si discute di tutto, con la massima libertà, niente leader. È l’inizio di una nuova stagione, vi dico.»

Micaela era tutta in fermento. Si agitava sulla sedia come se mille penne d’istrice le bucassero il sedere.

«Domani ci sarà una manifestazione» continuò Amanda. «Il PCI voleva un comizio sindacale, ma i compagni l’hanno trasformato in assemblea. Ognuno potrà esporre le proprie ragioni. Prima parla Lama, sulla scalinata come uno di noi, poi i rappresentanti del movimento.»

«Perché?» protestava Micaela. «Cosa si aspettano dalla CGIL

«Perché no? C’è in corso la trattativa per l’assunzione dei precari, magari ci ascoltano, ci mettiamo d’accordo su qualche piattaforma comune. Non tutti sono per lo scontro.»

Pensai a Sergio, mia sorella invece storse la bocca.

«È un’opportunità e anche una cassa di risonanza per il movimento. Se non funziona sarà chiaro a tutti da che parte stanno il partito e il sindacato.»

Micaela si voltò verso di me: «Dobbiamo andare».

«Noi partiamo all’alba» ci informò Giuliana. «Sulla mia 500 c’è posto».

Non so per quale motivo mi lasciai convincere. Forse perché la possibilità di una conciliazione lasciata intravedere da Amanda attirava il mio animo incline al compromesso più dell’esame di Diritto, o anche perché l’eccitazione delle altre mi aveva contagiata. È possibile, però, che nei recessi più nascosti del cuore sperassi di rivedere Sergio.

Fatto sta che la mattina dopo eravamo sotto casa in attesa dell’automobile di Giuliana. I lampioni della strada erano spenti malgrado fosse ancora buio pesto e cadeva una pioggerella insistente come solo a febbraio.

Credo di essermi pentita già in quel momento, ma ormai era troppo tardi per tornare indietro.

Ci stringemmo nella 500, Giuliana alla guida, Micaela davanti e io dietro, in sgradevole promiscuità con Amanda che occupava gran parte del sedile. Sentivo, attraverso la stoffa dei pantaloni, il calore del suo corpo e il suo fiato che mi alitava sul collo.

Alle otto eravamo alla Sapienza. Oltrepassammo i cancelli con i lucchetti troncati che pendevano di lato ed entrammo nel piazzale della Minerva. Pochi studenti con la schiena appoggiata alle colonne e alcune tute blu, armate di vernice bianca e pennelli, che cancellavano le scritte sui muri. Feci in tempo a leggere “I Lama stanno nel Tibet” mentre il pennello copriva le lettere cubitali.

Sulle nostre teste un cielo plumbeo.

Sul lato sinistro vedemmo un nutrito gruppo di persone attempate con gli impermeabili scuri.

«Il servizio d’ordine del PCI e della CGIL» mi sussurrò Giuliana all’orecchio. Tono ed espressione mi evocarono il KGB.

«Come fai a saperlo?»

«Vedi, hanno i cartellini rossi.»

Faceva uno strano effetto vedere quel muro di uomini massicci, attrezzati per la pioggia, davanti agli studenti in jeans e giubbotto, che non si curavano delle prime gocce che cominciavano a cadere. C’era un silenzio innaturale.

Salimmo le scale e ci fermammo in un angolo, vicino a una colonna. Mi sentivo a disagio, come un ospite arrivato troppo presto, di intralcio ai padroni di casa intenti a ultimare i preparativi per la festa.

Amanda estrasse da una borsa di tela colorata una benda con scritto “streghe” e se la mise sulla fronte annodandola dietro la nuca. Poi ne offrì altre identiche a tutte noi. Micaela e Giuliana accettarono subito, io scossi la testa con un mezzo sorriso.

«Non sa ancora da che parte stare» commentò mia sorella con sarcasmo.

A un certo punto uno del servizio d’ordine si staccò dal gruppo e, aprendo l’ombrello, si avvicinò alla scritta che il pennello stava cancellando. Il pennello scorreva sul muro, su e giù, la vernice bianca colava e il pennello la riprendeva dal basso e risaliva implacabile.

«I Lama stanno nel Tibet» scandì l’uomo con l’ombrello. «Che significa? Ma questi cosa vogliono dire?» chiese rivolgendosi ai compagni che ridacchiavano.

«Sono goliardi» rispose qualcuno.

Ma uno degli studenti si staccò dalla colonna e gli si avvicinò: «Vai a chiederlo a chi l’ha scritto invece di cancellare senza nemmeno sapere perché. Perché cancelli? Tu chi sei?»

Erano uno di fronte all’altro, il ragazzo con le mani affondate nelle tasche del giubbotto, una posa rilassata che trasudava strafottenza e l’uomo rigido e impettito sotto l’ombrello aperto come una scultura di Foulon in mezzo a una piazza.

In quel momento compresi che non ci sarebbe stata riconciliazione, che poteva esserci solo lo scontro.

«Tu chi sei!» gridò l’altro. «Che cazzo vuoi?»

«Io sono uno che si rompe i coglioni se vede che cancellate le scritte di prepotenza. Mi rompe i coglioni, anche se magari con questa scritta non sono d’accordo.»

Quelli del servizio d’ordine non ridevano più. Distinsi chiaramente qualcuno dire: «’Sti figli di mignotta, in Siberia li dobbiamo mandare».

Noi quattro restavamo rintanate nel nostro angolo.

«Qua si mette male» bisbigliò Amanda.

Nel frattempo cominciò ad arrivare una marea di gente, studenti che oltrepassavano i cancelli, altri che uscivano dagli edifici dell’università, fin quando la piazza fu gremita. Davanti alla facoltà di Lettere ragazzi col viso dipinto e asce di gomma cantavano e ballavano.

Dal fondo del piazzale vidi avanzare ondeggiando una struttura verticale, simile ai ceri che avevo visto a Gubbio per la festa del Santo patrono. Procedeva sopra le teste degli indiani metropolitani e si bloccò proprio di fronte alle armate in impermeabile.

Dalla mia postazione elevata compresi che si trattava di una di quelle scale con le rotelle e il parapetto che si usano in biblioteca per prendere i libri dagli scaffali in alto. Sulla scala troneggiava un fantoccio a grandezza naturale che somigliava vagamente al segretario della CGIL e tutto intorno palloncini colorati e cuori di carta con scritto “L’ama o non L’ama”, “Non Lama nessuno”.

L’arrivo di questa sorta di carroccio scatenò l’ilarità degli studenti. Anche noi ridemmo. Le truppe imperiali invece non ridevano più.

«Sa-cri-fi-ci, sa-cri-fi-ci» gridavano gli indiani e dall’altra parte rispondevano: «Pa-rio-li-ni, Pa-rio-li-ni». Due eserciti contrapposti. Diverse le divise, diversi gli inni e gli stendardi. Dall’area del movimento si alzarono migliaia di pugni chiusi come lance in resta e un grido collettivo, un boato, scandì: «È ora, è ora, miseria a chi lavora». Dall’altra parte risposero: «Via, via, la nuova borghesia».

Poi la folla si aprì, spinta indietro da un centinaio di colossi col cartellino rosso che, braccia divaricate, aprirono un varco in mezzo alla piazza. Le file si serrarono ondeggiando paurosamente. Tutta l’area era gremita di persone, una massa fluttuante che invadeva anche le gradinate, schiacciandoci contro la colonna.

Solo allora vidi tra la facoltà di Giurisprudenza e il Rettorato, messo di traverso, un camion rosso con gli altoparlanti ai lati e gli striscioni della CGIL. E l’Inno dei Lavoratori, sparato a tutto volume, che non riusciva a coprire gli slogan e le grida degli studenti. Mi venne in mente un circo malinconico alla fine dello spettacolo, quando la magia è svanita e la musica rimbalza tra le panche deserte.

Micaela fremeva, tentava di aprirsi un varco per raggiungere gli studenti nel piazzale, ma la ressa ci impediva ormai di lasciare la postazione. Anzi, venivamo spinte sempre più indietro dalla massa di corpi che arretrava dietro la spinta del cordone sanitario.

E ancora grida, fischi. All’Inno dei Lavoratori si sovrapposero le note di Guantanamera, cantate in coro dagli indiani: «Fatte ’na pera, Luciano fatte ’na pera».

Un gruppetto di tute blu avanzava in mezzo al piazzale. Davanti al camion si sciolse e Luciano Lama salì rapido. La testuggine di impermeabili si ricompose sotto di lui.

Per un attimo ci fu silenzio, tutti gli occhi rivolti al palco del comizio.

«Non doveva parlare sulle scale?» chiese Amanda a voce alta. Nessuno le rispose.

«Il Corriere della Sera ha scritto che saremmo venuti qui con i carri armati…» tuonò Lama dal microfono e subito gli insulti e gli slogan offensivi ripresero.

«Si era sbagliato, noi siamo qui…»

Non sentii più cosa diceva, nessuno lo sentì, perché l’attenzione di tutti si concentrò su strani oggetti, palloncini o buste di plastica, che volavano in aria e ricadevano sulle teste imbrattando gli impermeabili, le tute, le giacche di vernice colorata.

Fu allora che la testuggine si mosse. Avanzò, solida e compatta, verso il carroccio sbaragliando con gli ombrelli sporchi di vernice gli indiani che fuggivano da ogni parte con le loro inutili asce di gomma. Tutta la piazza, fin sulla scalinata, ondeggiò per il contraccolpo mentre intorno al carroccio si agitava, come in un gorgo, una rissa furibonda. Giubbotti e giacche scure, cappelli e passamontagna che si mescolavano, pugni, schiaffi, pedate, grida, persone che fuggivano e altre che si tuffavano nella mischia.

«Voglio andare via!» gridai inutilmente. Corpi premevano da ogni parte, spinta dalla calca non riuscivo più a vedere le mie compagne.

Poi il fantoccio si è piegato in avanti e, avanzando sopra le teste in posizione orizzontale, ha puntato come un ariete grottesco verso il palco. È stato allora che una nuvola bianca di schiuma lo ha investito. Il fantoccio ha ondeggiato nell’aria, poi si è piegato e non l’ho più visto, sommerso da corpi avvinghiati in una lotta furibonda.

«Bastardi! Hanno usato l’estintore» ho sentito mormorare intorno a me. Di nuovo mi voltai in cerca di Micaela, ma lei era sparita.

Nella confusione generale Lama continuò cocciuto il suo discorso: «Gli operai nel ’43 hanno salvato le fabbriche dai tedeschi e voi adesso dovete salvare le università…».

Sotto il palco i due schieramenti avanzavano e arretravano a suon di botte, urla, insulti.

«…perché sono le vostre fabbriche!» gridava nel microfono, ma nessuno ascoltava.

Dal fondo della piazza cominciarono allora a essere scagliati oggetti di vario genere. Patate, pezzi di legno e di asfalto volavano come siluri. Ci fu un fuggi fuggi generale, persone che si proteggevano la testa con le mani, altre, come impazzite, che cercavano inutili vie di fuga e correvano da una parte all’altra. Nel mezzo, i combattenti, più agguerriti che mai.

Aggrappata alla colonna dietro la quale mi ero rifugiata, osservavo attonita quel girone dantesco.

«Basta! Non ci si picchia tra compagni!» sentii gridare e quelle parole dettero sostanza al mio stesso smarrimento e cominciai a piangere. Piansi per la paura, per il freddo, perché ero rimasta sola, e forse per un presentimento, ancora vago e indistinto, che nulla sarebbe più stato come prima, che il bordo si era sfrangiato, lasciandomi in bilico e senza certezze. Ricordai che sotto gli striscioni del sindacato avrebbe potuto esserci Sergio e istintivamente lo cercai tra la folla.

Fra le lacrime vidi che Lama aveva lasciato il palco e che al suo posto era comparso un uomo basso che urlava al microfono: «Compagni, la manifestazione è sciolta. Non accettiamo provocazioni».

A chi si rivolgeva? Chi erano i “compagni”?

Poi si precipitò giù dal palco mentre l’onda del movimento montava sempre più minacciosa fino ad abbattersi sul camion del comizio. Lo vidi ondeggiare sotto la spinta, poi ribaltarsi. Gli autonomi ci salirono sopra, iniziarono a demolirlo pezzo per pezzo.

Quello fu il momento in cui la lotta si fece più dura.

Mentre intorno al carro rovesciato infuriava la battaglia, sotto la gragnola di oggetti che piovevano dal cielo, la massa cominciò a disperdersi, travolgendo tutto ciò che trovava sul suo cammino.

Una moltitudine terrorizzata fa più paura di un plotone di esecuzione, perché è cieca e sorda, corre dove il panico la conduce, senza una meta né una logica. Fui sommersa dalla folla in fuga, strappata dalla mia colonna e, come un relitto sballottato dalla piena, spinta da una parte all’altra e ogni punto in cui approdavo mi sembrava peggiore di quello che avevo lasciato.

C’era ovunque un fumo scuro che bruciava gli occhi e ottenebrava la vista. Correvo all’impazzata, urlando, spingendo con le mani i corpi contro i quali cozzavo.

Quando il panico invade ogni fibra del tuo corpo e la mente non ragiona, l’istinto di sopravvivenza detta legge in barba a qualsiasi principio e anche a qualsiasi sentimento. Non mi curai di cosa fosse stato di Micaela o di Amanda e Giuliana, pensai solo a mettere la pelle in salvo, preda di una furia cieca, primordiale.

Corsi da un lato all’altro del piazzale, piangendo, stropicciandomi gli occhi arrossati dal fumo. Tutte le immagini di cui fui testimone mi giungevano ingigantite e sfuocate come dietro al vetro di un acquario. Solo molto più tardi riuscii a metterle a fuoco: uno studente che inseguiva con un martello in mano un uomo che per età poteva essere suo padre e che d’improvviso si fermava e scoppiava in lacrime. Un sindacalista che cercava di dividere due contendenti, un ragazzo col passamontagna che scagliava pietre, persone col viso pieno di sangue portate via a braccia.

So che caddi, mi trovai distesa sull’asfalto bagnato e disseminato di oggetti. Pensai che la folla in fuga mi avrebbe travolta e calpestata. Mi coprii la testa con le mani e attesi, mentre il cuore viaggiava in Formula 1 dallo stomaco alla gola e la polvere mi seccava il palato.

«Alzati, Agnese, corri!»

Due mani mi afferrarono per le spalle e sentii la voce di Micaela, la stessa di tanti anni prima nel cortile della zia, solo che questa volta era una guerra vera.

Non mi ero accorta che stavo piangendo a dirotto. «Voglio andare via!» urlai aggrappandomi a lei. Aveva le guance accese dall’eccitazione e la benda delle streghe di traverso sulla fronte come Capitan Uncino.

«Avanti, corri!» Mi trascinò verso un punto imprecisato, in fondo al piazzale, in una mischia disordinata di corpi che correvano insieme a noi. Il fumo e le lacrime mi annebbiavano la vista, ma udivo intorno a me urla, imprecazioni, lamenti. «Guai a voi, anime prave!»

Non seppi in quale girone mi stava traghettando il mio Caronte finché non mi trovai nella facoltà di Geologia, tra vetri rotti, porte smantellate e banchi accatastati. Lì ci attendevano Amanda e Giuliana.

Nell’aula magna migliaia di teste erano rivolte verso un palco improvvisato, sul quale una decina di studenti si agitava contendendosi il microfono.

«Compagni,» prese la parola uno di loro «questo giorno segna il punto definitivo di rottura tra il mondo dei sindacati e dell’ortodossia comunista e il nostro, quello della creatività obbligatoria.»

Un lungo applauso si alzò dalla platea.

«Il PCI ha tradito. Ha tradito con la Legge Reale, col governo delle astensioni, con la filosofia dell’austerità. Il PCI è compromesso col potere borghese. Oggi ne abbiamo avuto la prova.»

«Nel corteo del 2 febbraio gli agenti hanno sparato sulla folla.» Incalza un altro appropriandosi del microfono. «Il partito non ha preso posizione.»

Fischi e manifestazioni di disapprovazione.

«La verità… la verità è che il PCI collabora con i servizi segreti e con gli organi repressivi dello Stato. Collabora alla strategia della tensione!»

Riprese la parola lo studente che aveva parlato per primo: «C’è qui un membro della delegazione dell’intercollettivo universitario. Ascoltate cosa ha da dirci».

Salì sul palco un ragazzo allampanato con gli occhialini tondi. Parlò con una voce bassa, ferma, che non tradiva la concitazione degli altri: «Ieri abbiamo avuto una riunione col sindacato, ci siamo accordati: prima avrebbe parlato Lama, poi alcuni di noi. Aurelio Misiti…»

Un coro di fischi si alzò dalla sala.

«Aurelio Misiti,» riprese l’oratore alzando la voce «il segretario romano della CGIL scuola, doveva venire qui, stamani, alle otto, per concordare la scaletta degli interventi.» Lunga pausa. «Invece non è venuto. Abbiamo aspettato per un’ora, ma lui non si è fatto vedere. È arrivato il Dodge rosso, invece, e il servizio d’ordine.

«È chiaro che il PCI e il sindacato rifiutano qualsiasi confronto col movimento. Il comizio non era un tentativo di riconciliazione, ma una provocazione esplicita per ristabilire l’ordine alla Sapienza.»

Seguirono altri interventi, tutti sulla stessa linea. Alla fine fu stilata una mozione, approvata all’unanimità: «La responsabilità degli scontri ricade sull’iniziativa provocatoria ed esterna al movimento presa dal PCI sotto una copertura sindacale unitaria».

A questo punto l’assemblea si sciolse. Alcuni tornarono nelle loro facoltà o nel piazzale, ormai sgombro, altri si sparpagliarono per le aule e i corridoi di Geologia. Decidemmo di riposarci un poco prima di ripartire.

Ero seduta nel corridoio davanti all’aula magna, spalle appoggiate al muro, in uno stato di semi-incoscienza esausta che preludeva al sonno, quando sentii gridare: «La polizia!».

Corremmo alla finestra: una colonna di jeep, camion, pantere, pullman di carabinieri avanzava lungo il viale dell’università, mentre gli studenti improvvisavano freneticamente barricate con tavoli, travi, automobili distrutte pezzo per pezzo. Poi si alzarono fiamme dalle barricate e i difensori schizzarono in ogni direzione.

Un’autoblindo marciava verso il cancello, dietro schiere di uomini col giubbotto antiproiettile e la maschera sul volto sotto un fuoco di centinaia di gas lacrimogeni. Una nuvola di fumo acre avvolse tutta la zona. Un bulldozer iniziò con metodo a smantellare la barricata, mentre poliziotti e carabinieri sparavano candelotti.

«Bisogna scappare» era la parola d’ordine, ma nel caos e nel terrore nessuno sapeva dove andare. Correva voce che la polizia avesse bloccato tutte le vie di accesso all’università.

Per la prima volta lessi il panico perfino negli occhi di mia sorella. Quanto a me, non avevo più nemmeno l’energia per avere paura. Come un cencio bagnato mi facevo trascinare in qua e in là dalla ressa, ripetendo come un mantra «voglio tornare a casa».

Poi qualcuno gridò: «Uscita di via de’ Lollis!» e tirata per mano da Micaela corsi all’impazzata, sbattendo contro la schiena di chi mi precedeva, prendendo calci da chi mi seguiva, trafitta dalle gomitate, trascinata. Corsi per forza d’inerzia fino a una strada stretta e silenziosa, dove ci guardammo in faccia incredule.

Nei giorni che seguirono mia sorella cercò in tutti i modi di tornare sull’argomento. Mi sventolò davanti l’Unità, leggendo ad alta voce: «Non lasceremo spazio ad azioni di tipo squadristico, azioni che non a caso richiamano il 1919, non solo per i loro metodi, ma perché rivolgono la loro cieca violenza contro le organizzazioni sindacali, i partiti operai, le istituzioni democratiche, le sedi della vita culturale, la scuola, l’università».

«Capito? Capito cosa dice il tuo amico Berlinguer?»

«Mio amico?»

«Amico di Sergio, insomma. Per la legge di transizione anche amico tuo.»

Ma io non abboccai. Avevo ancora davanti agli occhi i volti imbrattati di sangue, la nuvola dei gas lacrimogeni, l’indecoroso spettacolo di uomini che si definiscono “compagni” e si azzannano come cani da combattimento. In quell’arena, pensavo, abbiamo perso tutti. Ancora provavo il tremore alle gambe, la cacherella impellente, l’affanno di quei momenti.

«Non voglio saperne più nulla.» Allontanai il giornale con la mano e tornai ai miei libri.

Lei invece non si dette per vinta. Continuò a sostenere a spada tratta la natura non violenta del movimento. Seguitò a frequentare i gruppi e i collettivi, indignandosi alle azioni repressive, sempre più massicce, della polizia e chiudendo entrambi gli occhi di fronte agli atti terroristici di Autonomia Operaia.

A settembre partì per Bologna per partecipare al convegno contro la repressione della Sinistra extraparlamentare.

«Vieni con me?»

«Non ci penso nemmeno!»

«Questa volta è diverso.»

«Non cercare di coinvolgermi, non ne voglio più sapere. E poi il mese prossimo ho un esame» tagliai corto.

Partì da sola. Il giorno dopo squillò il telefono.

«Agnese, è fantastico! Non sai quello che ti perd…»

«Non ti sento!»

Sullo sfondo grida, musica, applausi, un baccano infernale.

«Non sai quello che ti perdi!»

«Non ti sento!» gridai più forte. «Ma dove sei?»

La sentii dire qualcosa, poi il rumore di una porta che si chiudeva.

«Mi senti ora? Sono in un bar vicino all’università. Agnese, devi venire, è una festa. Ci sono tutti, i collettivi femministi, gli indiani, i radicali. Ci sono pure Dario Fo e Franca.»

«Ci sono anche gli autonomi? Non hanno ancora cominciato a tirare sassi?»

«È diverso, ti dico. Se vedessi! La gente ci applaude dalle finestre. I carabinieri stanno appoggiati alle gazzelle a guardare. Secondo me si divertono anche loro!»

Mi raccontò che Bologna si era trasformata in un palcoscenico, che in ogni angolo gruppi teatrali e musicali improvvisavano esibizioni, che per le strade sfilavano cortei pittoreschi, con trombe e tamburelli e ragazzi col cilindro e il viso dipinto che cantavano e ballavano. Mi disse che gli indiani metropolitani avevano pitturato i muri e l’asfalto e che la città pareva un gigantesco quadro astratto.

«Più di centomila persone! Ci pensi, Agnese?»

Preferii non pensare a cosa avrebbero potuto fare quelle centomila persone quando la vernice fosse finita, i cortei avessero esaurito il loro percorso e gli attori e i cantanti fossero andati a dormire.

«Le assemblee, poi! Migliaia di persone!» continuava lei alimentando le mie preoccupazioni. «Agnese, non puoi mancare. Dài, prendi il treno, vengo a riscontrarti alla stazione.»

«Ti ho detto che non posso! Devo studiare per l’esame.»

«L’esame, la laurea, ma chi se ne frega? Stasera in piazza VIII agosto c’è Dario Fo…»

«Buon divertimento.»

«Quanto sei antipatica!»

«Quando torni?»

«Dopodomani. Domani c’è assemblea generale al Palazzetto dello Sport, non posso mancare.»

Continuò a raccontare, tutta eccitata, ma la sua voce era risucchiata dalla confusione crescente. Capii solo qualche parola frammentaria fino a quando cadde la linea.

Tornò il giorno dopo, torva in viso. Si infilò in camera sua senza neanche salutare.

La seguii: «Cos’è andato storto questa volta?».

«Nulla.»

Rimasi a guardarla mentre si spogliava e si infilava il pigiama.

«Ti levi di torno, per piacere? Voglio dormire.»

Poi lessi sul quotidiano che l’assemblea era degenerata in rissa tra la componente creativa e l’Autonomia.

Micaela mi confessò di essersi rifugiata sotto un banco mentre i due gruppi si lanciavano insulti e si spaccavano sedie sulla testa. «Ora il tuo amico Berlinguer dirà che siamo squadristi», commentò con amarezza.

Quell’episodio segnò di fatto la fine del movimento. Le frange più violente sposarono la lotta armata, i “creativi” si rifugiarono nell’eroina o partirono per l’India. Micaela rimase a casa a ciabattare in pigiama, così, se non andavo in facoltà, me la trovavo alle spalle a osservarmi in silenzio mentre sottolineavo le pagine delle dispense.

«Non vai all’Accademia?» Le chiesi in una di queste occasioni.

Lei scosse la testa: «Basta. Vado a lavorare».

«Che lavoro?»

«Non so, cameriera, commessa…»

«Perché? Sei brava, hai talento.»

«Di talento non si campa. E poi sono stufa di queste stronzate.»

Difatti poco dopo fu assunta, così diceva lei, in una trattoria in zona Sant’Ambrogio. Spariva per giorni interi, assorbita da quella nuova occupazione dai turni imprevedibili.

«Meglio una cameriera felice che un’artista triste» sentenziò la mamma con la sua inclinazione indomita a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Insieme allo studio Micaela troncò di netto ogni frequentazione con i compagni di Accademia e dei circoli del proletariato giovanile tra i quali si annidava, sospetto, il padre di quel bambino mai nato. Non vidi più aggirarsi per casa femministe in salopette e capelloni trasognati intenti a rollarsi lo spinello.

Nel tempo libero Micaela usciva con me.

Le presentai i miei amici, la iniziai ai piaceri consolatori di una cena in trattoria, di un buon film. Per diversi mesi, ovunque andassimo, fummo le sorelle Canovai, come le sorelle Materassi, le sorelle Goggi, come Mia Martini e Loredana Bertè. Lei riusciva sempre a catalizzare l’attenzione, si muoveva tra i miei compagni con la disinvoltura che nasce da una frequentazione di vecchia data e, siccome era spiritosa, intelligente e sempre incredibilmente bella, non ebbe alcuna difficoltà a inserirsi nel gruppo, specialmente nella sua componente maschile.

Io però sapevo che quella non era la sua dimensione, che nessuna dimensione poteva appartenerle se non quella che si creava lei stessa intorno come un’ape regina e che viveva quel periodo come una fase di interregno in attesa di nuove, eccitanti avventure.

Glielo dissi una mattina di gennaio prima di andare all’università. Aveva trascinato le feste di Natale in famiglia, apparentemente calma, in realtà annoiata e abulica.

«Che ne pensi dei miei amici?»

Era seduta sul bordo della vasca da bagno, un piede appoggiato sul coperchio del water e si stava mettendo lo smalto alle unghie dei piedi. Operazione superflua, in inverno.

«Simpatici» rispose distrattamente.

«Ma?»

«Nessun ma. Simpatici.»

Aveva dei batuffoli di cotone tra un dito e l’altro ed era totalmente concentrata nella pittura dell’unghia dell’alluce sinistro.

Rimasi a guardarla per un po’, poi, dal momento che non si degnava nemmeno di alzare la testa, feci per uscire dal bagno.

«Solo che vanno presi in dosi omeopatiche» aggiunse proprio mentre varcavo la soglia.

Tornai sui miei passi e mi piazzai davanti a lei con le mani sui fianchi: «Che intendi dire? Sono dei bravi ragazzi».

«Appunto.»

«Che hai contro i bravi ragazzi?»

Finalmente alzò il viso. Era in una posizione innaturale, con il corpo piegato in avanti e la testa tesa all’indietro per potermi guardare: «Il mondo è pieno di bravi ragazzi. Diventeranno medici, ingegneri, faranno carriera, metteranno su famiglia. Proprio quello che fa per te.»

«Puoi scommetterci. Trahit sua quemque voluptas

Era Virgilio a parlare per bocca mia. Perfino Micaela con le sue approssimative reminiscenze classiche poteva capirlo.

Infatti mi rispose per rima: «Terque quaterque, testiculis tactis…»

Nell’agitazione del momento non capii cosa stesse dicendo: una formula propiziatoria, un’invocazione ai Penati?

«Palleggiatoque augello, detractis pilis usque ad sanguinem, digitoque in culum, omnia mala fugata sunt.» Rideva senza contegno.

«Sei una cretina!» gridai furibonda. «Scherza pure con i tuoi scurrili motti goliardici. Intanto stai buttando via la tua vita!»

Un lampo dell’antica ironia le aveva attraversato lo sguardo: «E tu che ne sai, sorellina?».

«Lo so.»

«Tu non sai proprio niente. Torna ai tuoi libri, va’, che lì funziona tutto a meraviglia.»

Non mi bastava: «Chi ti piace?» sibilai. «Quelli che vanno in giro a sparare alla gente?»

Non rise più. Restò come sospesa, il pennellino dello smalto a mezz’aria.

«Allora? Chi ti piace?»

Micaela abbassò di nuovo la testa e riprese a darsi lo smalto: «Nessuno. Non mi piace nessuno».

Avevo afferrato la borsa ed ero uscita indispettita, senza nemmeno pettinarmi.

Avessi saputo che avrei incontrato Sergio mi sarei preparata con ben altra cura.