La leggenda della vera Croce
Mi sono infilata nella basilica di San Francesco più per proteggermi dal freddo e da mia sorella che per reale interesse. Ho percorso il lato destro della navata deserta fino al sarcofago del beato Benedetto Sinigardi e mi sono affacciata alla lastra di vetro che protegge il suo corpo. Ho indugiato a lungo sul gesso che riproduce la fisionomia originaria del volto, sul corpo disidratato nel saio grigio, sul sentore di morte a cui da sempre cerco di sfuggire e che mi sta attaccato come una zecca.
Ho cercato conforto guardando verso l’abside, ma il Cristo povero e crocifisso, sospeso per aria, non mi è stato granché di aiuto. Allora sono scivolata dietro l’altare maggiore e davanti agli affreschi della leggenda della vera Croce sono rimasta abbagliata dal genio di Piero della Francesca.
Ho dimenticato il litigio e tutte le ansie che mi accompagnano e sono stata assorbita da quel mondo di forme armoniose. Ho passato in rassegna le formelle, riesumando reminiscenze scolastiche per ricostruirne l’ordine.
Quella è sicuramente la prima: l’albero della conoscenza, spuntato dai semi posti in bocca ad Adamo in punto di morte. Un legno che non si lascia plasmare e per questo gettato a mo’ di ponte attraverso un laghetto. La regina di Saba che, vedendolo, ha una premonizione e gli si inginocchia davanti e il re Salomone che, presagendo in quel legno la disfatta degli ebrei, lo fa seppellire. E poi l’annunciazione, il volto virile dell’angelo, non messaggero di gioia ma di funerei presagi, e quello di Maria, un’adolescente corrucciata, e la vita di Cristo fino a quando il legno, dissotterrato, diventerà la sua croce. Di nuovo sepolto, è ritrovato da Elena, madre di Costantino, e riportato come reliquia a Gerusalemme.
Ho indugiato sui volti, animati da un realismo straordinario, sulle figure, che sembrano spiccare il salto dal muro per raggiungerti. Ho ammirato la plasticità delle forme, il peso dei corpi, la vivacità dei costumi e degli stendardi, la credibilità del paesaggio e delle città sullo sfondo, che dovrebbero rappresentare la Palestina e invece rimandano alla mia campagna, alle mie città, al Rinascimento toscano nel quale, quasi senza accorgermene, mi sono formata.
E la storia di questo legno, temuto e adorato, occultato e ogni volta riemerso, mi è sembrata un po’ la mia storia, un po’ la mia vera croce.
C’è sempre qualcosa che seppelliamo dentro di noi e che prima o poi inesorabilmente riemerge. Ho esercitato a lungo l’arte della rimozione, ma oggi, davanti a questi affreschi, comprendo che è stato inutile, che tutto è restato dentro di me, fermentando come una massa di rifiuti seppelliti e tornati in forma di liquami tossici nei fiumi e nel mare.
All’uscita trovo sul cellulare un messaggio di mio marito, di Laura e Matilde nessuna notizia. Di nuovo provo a contattarle, ma scatta la segreteria telefonica. Allora telefono a Gianfranco.
«Le hai sentite?»
«Non ancora.»
Scatta nel mio cervello l’allarme: mille luci si accendono e spengono mentre una sirena ulula senza posa.
«Tu che fai?» mi chiede.
«Sono ad Arezzo, ho visitato gli affreschi di Piero della Francesca» rispondo distratta.
«Che meraviglia! Un giorno ci torniamo insieme. Dimmi, come sono dopo il rest…»
«Ti interessi del restauro! Ti rendi conto che le nostre figlie non ci chiamano da tre giorni?»
«Calmati, Agnese, che c’è di strano? Sono in vacanza. Te l’ho già detto. Avranno avuto di meglio da fare.»
«Ma come puoi essere così tranquillo? Proprio non ti capisco.»
Gianfranco cambia argomento nel tentativo di distrarmi: «Hai saputo poi di quale malattia soffre Micaela?».
«Sì, di stronzaggine acuta. Credo sia incurabile».
Lo sento ridere: «Meglio così», dice, ma so che al ritorno dovrò confessargli di avere una sorella etilista che nasconde le bottiglie di liquore nel cesto della biancheria sporca.
«Allora torni domani? Andiamo a pranzo fuori.»
Non è di questo che voglio parlare: «Gianfranco, io chiamo la polizia».
«Sei pazza?»
«Non sono pazza, tu sei un incosciente. Perché non telefonano? Perché non rispondono? Ci sentiamo ogni sera, è successo qualcosa, ti dico.»
«Sono in vacanza, due adulte in vacanza. Tu alla loro età chiamavi casa tutti i giorni?»
«Non c’erano i cellulari allora. Ho guardato anche su WhatsApp e non c’era niente. Non hanno mandato messaggi. Capisci?»
«Le hai spiate? Manco la STASI!»
Per poco non gli riattacco in faccia. La STASI! Come se io controllassi le mie figlie! Hanno sempre fatto quello che hanno voluto, ma una telefonata al giorno, tanto per tranquillizzarmi, cosa costa?
Raggiungo la piazza del mercato in preda a un’inquietudine crescente: Micaela e Andrea stanno smontando il banco. Lui è in piedi dentro il cassone del camion che sistema i mobili, lei è in basso e gli porge le scatole. Dagli sguardi che lancia ai banchi rimasti capisco che la decisione di smantellare prima del previsto è di Andrea.
«Inutile restare ancora» le spiega tra un passaggio e l’altro. «È buio e piove, ormai non viene più nessuno.»
Lei non replica ma sembra poco convinta.
«E poi devo tornare a casa. Federica è rimasta tutto il giorno sola con i bambini e ha bisogno di qualcuno che le dia il cambio.»
E comincia a snocciolare una litania sul figlio più piccolo, cinque mesi, che ha una fastidiosa irritazione al sedere e piange tutta la notte e non li fa dormire, sulle visite dal pediatra, le medicazioni, i bagnetti sfiammanti.
Si consolida in me la convinzione che Andrea è più noioso di una riunione di condominio.
Deve pensarla così anche Micaela, che non gli dà spago e da sotto cerca di accelerare i tempi di carico.
Finalmente siamo pronti. Ci sistemiamo nell’abitacolo, gomito a gomito, negli stessi posti dell’andata. Un odore stantio di indumenti umidi riempie l’aria.
Andrea accende la luce dello specchietto retrovisore e prende la scatola metallica della cassa posata sopra il cruscotto. Esamina pensieroso il contenuto: «Giornata fiacca, non abbiamo venduto quasi nulla. Guarda qui» dice a mia sorella mostrandole la scatola aperta.
«Senti, Micaela, mi dispiace, ma oggi posso darti solo l’incasso delle tue vendite. Lo vedi, non ci copro nemmeno le spese della benzina.»
Lei annuisce.
«Mi dispiace davvero, lo so che sei stata qui tutto il giorno, ma io devo mantenere una famiglia. In altri tempi ti avrei dato una percentuale sull’incasso, lo sai, ho sempre fatto così, ma ora, con questa crisi… non hai idea di quanto costino i pannolini e gli omogeneizzati e poi la bambina deve passare a comunione, vuole le bomboniere col pupazzo, quattro euro l’una, fra parenti e amici ho calcolato…»
«Va bene così» taglia corto lei con mio immenso sollievo. Allunga la mano per prendere la banconota da dieci euro della vendita del carillon.
Andrea scuote la testa e mette in moto. Per la prima mezz’ora parla solo lui, Micaela tace ma la tensione si potrebbe tagliare a fette. Siede impettita, le braccia conserte al petto per evitare qualsiasi contatto, gli occhi immobili sulla carreggiata davanti a sé. Ma il lavorio mentale che le si agita dentro arriva a maturazione e la fa sbottare ad alta voce: «Dieci euro sono davvero poca cosa anche per una miserabile come me, eh Agnese?».
Decido di non raccogliere la provocazione e mi giro a guardare il guardrail che corre fuori dal finestrino.
Lei non si dà per vinta: «Avevo un oggetto unico nel suo genere e ora non l’ho più. In cambio ho dieci euro. Sarei potuta tornare a casa con settanta, forse ottanta euro, invece torno a casa con la mancia».
Continuo a tacere malgrado il fastidioso formicolio alla punta della lingua. Lasciala perdere, mi dico, tanto domani, se Dio vuole, me ne vado.
«Certo capisco che per te, Agnese, settanta euro siano bazzecole. Quanto guadagna il tuo maritino dottore?»
«Smettila» le sibilo, sperando che comprenda che si tratta dell’ultimo avvertimento.
Ovviamente non comprende.
«Ti dà fastidio avere una sorella ambulante? Ti vergogni? Sono le ingiustizie della vita, sai: c’è chi naviga nell’oro, come te, e chi deve lesinare su ogni cosa.»
«Ut sementem feceris, ita metes». L’ho detto. Non avrei dovuto, lo so, ma mi è proprio scappato.
Micaela non replica. È Andrea a chiedere: «Che hai detto?».
«“Mieterai a seconda di ciò che avrai seminato.” Cicerone.»
«Si diletta con le citazioni latine» spiega mia sorella. «È il suo vizietto. È piena di saggezza, lei, la saggezza degli altri. Non ha idea di cosa significhi aver bisogno di settanta euro per arrivare alla fine del mese.»
«Mi hai rotto!» le grido. «Tu e il tuo carillon.» Cerco in borsa il portafogli: «Tieni, te li do io i settanta euro, così la facciamo finita!».
Si gira verso di me come una furia: «Pensi di umiliarmi? Dalla a qualcun altro la tua elemosina. Non voglio nulla da te!». Mi strappa di mano il portafogli e lo getta dentro la borsa aperta sulle mie ginocchia.
«Però la casa della zia l’hai voluta. Non ti conviene fare tanto la schizzinosa neanche con questi.»
So di averla punta nel vivo portando una ragione inoppugnabile, ma Micaela è bravissima a rivoltare la frittata e mi aggredisce con una serie di recriminazioni.
È l’inizio di un litigio che covava da un pezzo sotto le ceneri. Come un fiume in piena ci vomitiamo reciprocamente addosso accuse di ogni genere, rivanghiamo episodi molto personali senza preoccuparci del povero Andrea che, sbigottito e finalmente muto, lancia il furgone al massimo. Arrivati sotto casa scende con un balzo e corre ad aprirci lo sportello.
Noi continuiamo a litigare. Litighiamo salendo le scale, davanti alla porta chiusa che Micaela cerca nervosamente di aprire, dentro casa mentre ci togliamo i soprabiti bagnati e ci strofiniamo i capelli con l’asciugamano.
Siamo così impegnate a litigare che non ci accorgiamo dei tuoni che squarciano il cielo, dei lampi di luce che attraversano le pareti, dello scroscio di pioggia sul tetto.
Micaela mette a bollire l’acqua per il tè, sbatte due tazze sul tavolo, affetta con movimenti bruschi una baguette rafferma. Non mi accorgo nemmeno di avere fame, di desiderare un pasto vero. Apro e richiudo, sbattendoli, gli sportelli dei pensili in cerca della marmellata e intanto continuiamo a rinfacciarci le incomprensioni di una vita, montandoci addosso con le parole, cercando di superare l’altra alzando la voce.
E fra le accuse ritorna, naturalmente, l’incidente della sera prima.
«Sei un’incosciente» le grido «lo sei sempre stata. Mi hai raccontato che eri malata, mi hai fatto preoccupare, mi hai fatto spostare la partenza. E io, stupida, che ti ho creduto! Come se non sapessi come sei fatta.»
«Dovevi andartene, sarebbe stato meglio! Che ti importa, a te, se stavo male?»
«Non stavi male, eri ubriaca fradicia. Ho trovato le bottiglie.»
«Hai frugato in casa mia? Non ci posso credere: io ti ospito e tu vai a mettere il naso tra le mie cose!»
«Sono queste le tue cose?»
Mi precipito in bagno e le mostro le bottiglie vuote, poi apro lo stipo del mobile in salotto e sbatto sul tavolo la bottiglia mezzo vuota del Fernet.
Micaela la osserva a lungo, con affetto, infine confessa: «Questa è un’amica».
«Bella amica davvero! È tutto qui quello che sai fare? Annullarti nell’alcol per non affrontare le tue sconfitte?»
«Quali sconfitte?»
È veramente troppo. Comincio a elencare con precisione matematica le occasioni perse, gli appuntamenti mancati, lo spreco di risorse, lo squallore della sua vita odierna. Non faccio sconti e mentre parlo mi agito per la stanza, sposto oggetti, sopraffatta io stessa dalla mia veemenza.
Intanto Micaela versa una porzione generosa di Fernet nella tazza del tè e la scola tutta d’un fiato. Forse due, forse tre. Quando mi volto a guardarla, stupita del suo silenzio, la bottiglia è quasi alla fine.
«Smettila di bere! Cosa credi di ottenere da questa bottiglia?»
«Non chiedetevi cosa fa la bottiglia per voi, ma cosa fate voi per la bottiglia» risponde con voce impastata.
In preda a una furia incontrollata la afferro e la vuoto nel lavandino.
In genere i riflessi di un ubriaco sono rallentati. Quando lei realizza e si precipita per fermarmi il liquore sta già viaggiando lungo lo scarico.
Lancia un grido disperato: «Che hai fatto! Guarda che hai fatto!».
Mi fissa con sguardo assente, poi si siede di nuovo, poggia la testa sulle braccia e comincia a piagnucolare: «Era l’ultima, l’ultima di una stirpe gloriosa».
Non provo pena, solo rabbia e disgusto.
«Non ti vergogni? Guarda come ti sei ridotta, non hai dignità.»
Ho sottovalutato le capacità di recupero di mia sorella. Punta nell’orgoglio, solleva la testa e mi trafigge con un’occhiata da lupo. Sulle labbra è tornato il sorriso smorfia dei momenti peggiori.
«Chi credi di essere per venire a farmi la predica? Tu, piccola, squallida perbenista del cazzo! Pensi di ingannarmi con i tuoi gioielli spocchiosi?»
La discussione degenera in rissa. Ripercorriamo l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza, aggrappandoci alle inezie, trasformando cose da nulla in motivi di risentimento profondo. Senza esclusione di colpi sfoghiamo le delusioni, la rabbia, le sofferenze che ognuna di noi si è portata dentro e che sono decantate in trenta anni di separazione e di silenzio.
Nella foga butto fuori emozioni che non avrei mai pensato di confessare, il senso di abbandono quando lei mi rifiutava per l’amica Letizia, il complesso di inferiorità nei suoi confronti e la sua incapacità di comprendermi e di aiutarmi. Le rinfaccio gli scherzi crudeli, il suo proverbiale egoismo, l’egocentrismo infantile, il menefreghismo nei confronti dei nostri genitori, la latitanza durante la loro malattia, l’ostentato disinteresse verso le sue nipoti. Lei mi accusa di essere rigida, ipocrita, provinciale. In quanto a egoismo, afferma, io la supero di parecchio.
Continuiamo a scovare episodi remoti, piccoli screzi, questioni ininfluenti girando intorno al vero problema e rimandandolo, anche se ognuna di noi sa che prima o poi dovremo affrontarlo.
Perché ogni frattura, ogni dolore risale a quel lontano 1979.