Sorelle
Le onde si infrangono basse sul bagnasciuga di ciottoli, avanzano e si ritirano con ritmo costante. Non capisco se è sera o mattina, il cielo ha un colore grigio, impenetrabile e l’aria è immobile, gravida di presentimenti catastrofici. C’è Gianfranco seduto accanto a me. Ci siamo tolti le scarpe e tiriamo sassi nell’acqua. In lontananza scariche di elettricità squarciano le nubi.
«Che ci facciamo qui?» chiedo a mio marito «Perché non torniamo a casa?»
Ma lui non risponde.
Mi volto e scopro che è sparito. Comincio a sudare, mentre l’onda si fa sempre più lunga, mi lambisce i piedi, ha inghiottito le scarpe.
«Le mie scarpe!» grido in preda al panico. «Senza le scarpe non posso tornare a casa. Qualcuno mi aiuti!»
Ma la mia voce si perde tra i ciottoli che, mossi dalla schiuma, battono l’uno contro l’altro come nacchere in un flamenco cosmico…
È un sollievo svegliarmi e realizzare di trovarmi sul divano del salotto. Il clangore di sassi in realtà è l’acciottolio che proviene dalla cucina.
Mi sono addormentata, vestita, dopo un pasto miserevole con gli avanzi del frigorifero e dopo aver saltato col telecomando dal faccione del politico alla ribalta al solito varietà demenziale e al people show strappalacrime.
Sono a pezzi: braccia e gambe indolenzite, fitte taglienti che mi attraversano la schiena. Raggiungo barcollando la cucina. Fuori è ancora notte fonda.
Davanti ai fornelli vedo Micaela, vestita e pettinata, che armeggia canticchiando col bricco del tè. Sul tavolo sono disposte due tazze e il cartone dello zucchero. Sentendomi arrivare si volta e mi accoglie con un sorriso smagliante: «Buongiorno. Dormito bene?».
Il primo impulso è quello di spaccarle in testa una delle bottiglie che si è scolata ieri sera. Immagino le schegge di vetro impigliarsi nei capelli, un bernoccolo spuntarle sulla fronte, la vedo vacillare sotto il colpo.
«Ti senti bene!» sibilo.
«Benissimo.»
«Ieri parevi morta…»
«Niente di grave, te l’avevo detto che non era il caso di chiamare il dottore.»
Voglio vedere dove arriva la sua capacità di mentire. «Però sei malata, me lo hai detto tu. Che hai?»
«Ti ho detto che ero malata?» risponde con aria candida. «Ma no! Avrò fatto indigestione.»
Esistono tre possibilità: metto in atto il proposito di prima, le grido in faccia che è un’ubriacona, me ne vado sbattendo la porta. Mentre medito sul da farsi la guardo accigliata, pensando al biglietto annullato, alla zuppa rancida, al suo maledetto divano con le molle rotte. Nessuna traccia della devastazione di ieri. Gli occhi sono tornati limpidi, la postura dritta.
«Ti conviene prepararti» continua lei. «Tra poco viene Andrea a prenderci.»
«Andrea?»
«Ma sì, il mio amico, quello dei mercatini.»
«Per andare dove?»
«Dài, Agnese, non ricordi? Oggi c’è il mercato dell’antiquariato ad Arezzo.»
Vengo assalita da un nuovo impulso omicida.
«Sei pazza se pensi che venga con voi.»
«Andiamo, me lo avevi promesso.»
«Io non ti avevo promesso proprio nulla! Che ore sono?»
«Le sei. Tra venti minuti suona… ti devi sbrigare.»
«Tra due ore avrei dovuto prendere il treno per Ancona. Lo capisci? Queste cianfrusaglie…» spingo col piede la scatola riempita dalla zia e poggiata per terra «non le voglio nemmeno vedere!»
Micaela fa scudo alla scatola col suo corpo. «Lo so che sei arrabbiata con me, non l’ho mica fatto apposta. Ma ormai la partenza è rimandata, tanto vale venire.»
«Ho sonno, voglio dormire» replico piccata.
«Eh, dormire! Alla nostra età si dorme poco. Non dirmi che riesci a riaddormentarti.»
La uccido. Giuro che la uccido. Però ormai il sonno se n’è andato e so per esperienza che non tornerà. Inoltre mi atterrisce la prospettiva di una domenica da sola a vagabondare per la città. Entro in bagno sbattendo la porta e resto basita davanti allo specchio: le palpebre gonfie come quelle di un rospo, l’incarnato terreo, i capelli arruffati, gli abiti stropicciati.
La maledico di nuovo, mentre bussa, poco dopo, con una serie estenuante di colpetti secchi: «Fai presto. Andrea sta aspettando».
E chi sarà mai questo Andrea! Il Grande Fratello, il presidente della Spectre! La seguo arrancando per le scale ripide, piegata in due dal mal di schiena, avvinghiata alla ringhiera. Lei mi precede spedita, quasi correndo, e stringe tra le braccia il bottino conquistato nella casa di via Marconi. A un tratto si spegne la luce, resto al buio su quei gradini insidiosi. La collera rasenta l’isteria: «Ecco! Ci manca solo che cada!» grido schiacciandomi contro il muro.
«Shhh! Non gridare!»
In due balzi ha raggiunto il pianerottolo, torna la luce. Mi osserva dal basso all’alto: «Calmati. Ma che, ce l’hai ancora con me?».
Il furgone attende sotto casa col motore acceso. Dal telo del cassone vedo spuntare le gambe di una sedia e l’angolo di un cassettone. Micaela sistema con cautela la scatola tra le masserizie e apre lo sportello. Ci sediamo tutti e tre sul sedile davanti, lei nel mezzo. Cerco, sbuffando, di sistemarmi nell’abitacolo stretto e gelido. Come una zingara, commento fra me tra la rabbia e l’autocommiserazione.
«Ti presento mia sorella» dice Micaela al guidatore.
Andrea si sposta in avanti e mi porge la mano. Ha un viso piccolo, da topo, la testa completamente rapata e l’orecchino al lobo sinistro. Sul polso si agita un serpentello tatuato. Come zingari, mi ripeto.
«Non vi somigliate per niente» commenta.
Per fortuna, aggiungo io mentalmente.
Micaela e il suo amico parlano tra loro. Lei descrive i pezzi trovati dalla zia, discutono sul prezzo di vendita. Poi Andrea attacca a parlare del figlio. Ha una voce piatta, senza sfumature, tendente al lamentoso.
«Ho sempre pensato che lo sport gli facesse bene, il calcio in particolare, perché è uno sport di squadra e lo aiuta a socializzare. È un bambino timido, introverso. Gli piaceva e secondo me è anche piuttosto bravo. Ma, credimi, c’è una competizione che fa schifo. Sono bambini, lo fanno per divertimento e invece sembra che disputino il campionato di serie A. Ti farei vedere i genitori, poi! Cosa dicono, come li incitano dagli spalti! L’obiettivo è vincere, solo quello. Se un bambino commette un errore lo massacrano. E anche il mister, invece di smorzare i toni, li eccita. La settimana scorsa Manuel ha fatto un paio di cazzate, può capitare, può capitare, no? Insomma… si è lasciato scappare il pallone. Non è un bambino competitivo. Ha bisogno di essere incoraggiato, se lo aggredisci si blocca. Ti avrei fatto sentire che parte gli ha fatto il mister in campo, davanti a tutti. Ha pianto tutta la sera e ora dice che vuole smettere. Ti pare giusto?»
«Cambiagli squadra» consiglia Micaela.
«Sì, pare facile! Devi iscriverlo alla squadra del quartiere, al campetto più vicino. E poi non mi va giù, è un po’ come dargliela vinta a quegli arroganti.»
«Allora vai a parlare col mister, spiegagli la situazione.»
«Ci ho pensato, ma ho paura che non serva. Quello è una bestia, pensa solo alla partita. E poi Manuel non ne vuole più sapere.»
«È solo un bambino, cambierà idea.»
«La fai facile tu, tu non hai figli! Io non voglio nemmeno costringerlo, deve essere un divertimento. Quello gli ha detto “Sei un buono a nulla”. Capito? “Sei un buono a nulla” a un bambino di sette anni e lui ha pianto per una sera intera. Non voglio che mio figlio si senta una nullità per una stupida partita.»
Andrea sembra persona di buon senso, penso, anche se l’orecchino, il tatuaggio e il nome che ha affibbiato alla creatura non depongono a suo favore. Che può fare da adulto uno che si chiama Manuel? Il centrocampista nell’Ascoli, il prestigiatore alle Feste dell’Unità, al massimo. Ma qualunque sarà il suo destino, in questo momento dei problemi del pargolo non me ne frega nulla.
Cerco una posizione che dia un po’ di respiro alla mia schiena e guardo fuori. Stiamo percorrendo i viali deserti in direzione del fiume. Andrea rallenta prudentemente ai semafori lampeggianti, costeggia il muro alto della caserma della Zecca e imbocca il ponte San Niccolò. L’Arno si allarga gonfio tra i suoi argini. L’acqua cupa e immobile riflette la luce dei lampioni che tremola in prossimità delle spallette. Le saracinesche abbassate, le insegne spente mi restituiscono la Firenze dell’austerity della mia adolescenza e anche quella, non meno cupa e silenziosa, degli anni dell’università.
Decisi che sarei andata all’università a otto anni. Quella parola, “università”, era echeggiata alle mie orecchie quando i nostri genitori parlavano del nostro futuro, ma era un termine astratto, del tutto avulso dal concetto “scuola”. La scuola per me era il profumo del grembiule bianco lavato di fresco, l’odore intenso di cuoio della cartella che ogni mattina mi allacciavano alle spalle, era l’astuccio che si apriva con la cerniera lampo e rivelava la meraviglia delle matite ordinate per colore e della gomma e del righello fissati in basso.
Un pomeriggio di primavera inoltrata, passando con la mamma per piazza della Signoria, vidi uno stuolo di giovani in costume medievale che presidiavano Palazzo Vecchio. Avevano montato una torre di legno. Dalla cima alcune ragazze scioglievano ridendo trecce posticce, mentre impavidi cavalieri tentavano la scalata. Altri improvvisavano girotondi intorno alla torre. Grandi risate, grandi schiamazzi. A tratti si alzava un coro, una specie di marcetta in cui la parola ricorrente era “osteria”.
Restai a guardare a bocca aperta.
«Chi sono?» chiesi piena di ammirazione.
«I goliardi.»
«Chi?»
«Gli studenti dell’università. È la loro festa.»
Dunque era quella l’università: risate, giochi, trasgressione, travestimenti di Carnevale. Decisi che anche io da grande avrei partecipato alla festa.
«Andrò all’università» annunciai solennemente.
La mamma mi fece una carezza: «Come corri! Intanto vediamo di finire le elementari».
Quando mi iscrissi a Giurisprudenza, nel ’75, la goliardia sopravviveva solo tra sparute frange di nostalgici. Bandita dalla maggior parte delle facoltà, esalava qui gli ultimi respiri.
Mi trovavo nella biblioteca di istituto. Dalle finestre aperte penetrava il tepore della primavera, quando fece irruzione un gruppetto di studenti. Ridevano, parlavano a voce alta. Capelli corti, niente barba, maglioncini color pastello che si distinguevano immediatamente nella selva di eskimo verde militare. Uno di loro aveva la feluca in mano e passava sghignazzando tra i presenti, indifferente all’ostilità generale.
Temetti che la tensione sarebbe degenerata in rissa, invece al loro passaggio nessuno raccolse la provocazione.
Quando arrivò al mio tavolo, mi puntò per un attimo e chiese: «Matricola?».
Annuii senza alzare gli occhi dal libro.
«Un contributo per la festa della goliardia?»
Mi tornarono alla mente come in un lampo le immagini di quel pomeriggio lontano, le risate, gli schiamazzi, le ammucchiate sgangherate di assalto alla torre, le canzoni oscene, esibite provocatoriamente con lo scandalizzato benestare dei benpensanti.
Scossi la testa: «Non ho soldi» tagliai corto.
Gli anni dell’università volarono. Macinavo esami su esami e malgrado gli scioperi e le occupazioni alla sessione estiva del quarto anno avevo esaurito il piano di studi.
Sergio, terminato il liceo scientifico, si era iscritto a Scienze politiche a Roma. A chi le chiedesse perché non fosse rimasto a Firenze la zia rispondeva con voce chioccia: «Per essere vicino al partito. Quando sei un dirigente della FGCI devi stare a Roma».
Pensavamo tutti che Sergio avrebbe fatto carriera nel Partito Comunista, invece, a sorpresa, lasciò l’università al terzo anno e partì per il servizio militare. Nessuno seppe perché. «Così si toglie il pensiero» rispondeva la zia evasiva «Poi torna e conclude gli studi.»
Per molto tempo non lo vidi e non ne ebbi notizia. Del resto non me ne importava, la mia vita era piena anche senza di lui.
Frequentavo una compagnia di studenti, tutti ragazzi con la testa a posto, lontani dalla cultura underground, dall’eroina, dall’area dell’Autonomia. Ragazzi anche impegnati nella politica, ma che avevano preso le distanze dalle frange violente dell’estrema Sinistra.
Cenavamo da Nello, dove si mangiava con poche lire. Restavamo per ore a parlare intorno al tavolo graffiato, sulle tovagliette di carta gialla, col vino sfuso nel mezzo, fino a quando non abbassavano il bandone a metà e il cameriere ci spingeva fuori.
Godevo di quel cameratismo di gruppo senza obblighi e senza vincoli. Dopo che ebbi lasciato Riccardo, flirtai per un po’ con uno studente di Zoologia, ma non avevo voglia di chiudermi in un rapporto stabile. Ero piuttosto popolare e la cosa non finiva mai di stupirmi perché dagli anni del ginnasio avevo metabolizzato la sindrome dell’esclusa.
Micaela intanto si era iscritta a un collettivo femminista e partecipava a serissime sedute di autocoscienza dove si dibatteva, fra l’altro, sul maschilismo della lingua italiana e si rivendicava il genere femminile per il termine “clitoride”. Ora portava ampie gonne a fiori, calze di lana sopra il ginocchio e zoccoli di legno di foggia olandese coi quali risuonava in tutto il condominio.
Noi tre avevamo preso strade diverse; erano lontani anni luce i sogni, le paure, i progetti che avevamo condiviso nel cortile di via Marconi. Non avevo più bisogno di loro.
Fu Micaela, invece, ad avere bisogno di me.
Preparavo gli esami della sessione autunnale del secondo anno, quando un pomeriggio entrò nella mia stanza. Rimase in silenzio a guardarmi china sui libri, ma la sua presenza mi distraeva.
«Che c’è?» le chiesi.
Micaela si sedette di fronte a me e cominciò ad arricciarsi la ciocca di capelli.
«Devo studiare. Mi dici cosa vuoi?» insistei.
Cominciò a sfogliare distrattamente il mio quaderno di appunti. «Sono incinta» disse alla fine a testa bassa.
Mi cadde la penna di mano: «Cosa?».
«In-cin-ta. Di due mesi, forse più.»
Quando il furgone entra in autostrada l’oscurità e la cantilena ipnotica del guidatore hanno la meglio sui miei nervi scorticati.
Mi sveglio all’uscita di Arezzo, vedo l’autostrada proseguire per i fatti suoi. Resto immobile con la testa appoggiata al finestrino e il collo anchilosato.
Andrea sta ancora parlando. Dovrei portarmelo a casa e utilizzarlo come sonnifero. Nel dormiveglia lo sento lamentarsi dei soldi che non bastano e preferisco rifugiarmi di nuovo nei miei pensieri.
La rabbia nei confronti di Micaela non si è sopita. Quello che non sopporto è il suo lasciarsi trascinare dall’impulso del momento senza mai valutare le conseguenze. Una cazzata dietro l’altra, fino a coinvolgerci tutti.
I nostri genitori le perdonavano tutto. All’epoca mi facevano rabbia, ma oggi che sono madre li capisco. È impossibile non essere indulgenti con i propri figli e del resto mia sorella non combinava nulla di così drammatico. Non beveva, non si drogava, a parte qualche spinello, non frequentava delinquenti, almeno non a lungo. Sempre sul bordo, in bilico tra una vita rispettabile e la tentazione di sconfinare. «Una studiosa in famiglia basta e avanza» ripeteva sempre. Probabilmente la pensavano così anche i miei genitori. Lasciavano a me la responsabilità di soddisfare le loro ambizioni e a mia sorella quella di incarnare il lato ludico della vita.
Mentre io sgobbavo sui libri per lei si prevedeva una vita da artista. Tante parole, tante minacce volate al vento, ma mai un divieto vero, mai il dubbio che potesse infilarsi seriamente nei guai. E in seguito, quando a causa sua uscivano a testa bassa per paura di incrociare lo sguardo dei vicini, anche allora hanno continuato a minimizzare e a giustificarla.
Di me lodavano la concretezza, di lei si accontentavano della fantasia.
Se ne sono andati tranquilli. E menomale che non possono vederla, a sessant’anni, su un furgone sgangherato, carica di carabattole.
Io non me ne interessavo, avevo altre cose a cui pensare. Il lavoro, la casa, la famiglia. Prendevo sempre più le distanze da quella sorella che mi aveva solo fatto soffrire. Ho frapposto fra me e lei la costruzione di affetti solidi, una buona carriera, la conquista di una vita agiata.
Non conoscevo nessuno ad Ancona. Ero partita per rimanerci un anno, giusto il tempo del tirocinio, e ci ho passato la vita.
La prima settimana fu terribile, non mi orientavo per le strade, certi giorni calava una nebbia umida che mordeva le ossa e soffocava il mare. Nel tempo libero andavo al porto, sapore di nafta e di ruggine in bocca, e restavo ore a guardare i traghetti che col calar della sera si accendevano a gran pavese e fantasticavo di salire su uno qualsiasi e fuggire anche da lì. Poi la sera compravo un succo di frutta e un pacco di biscotti e mi rintanavo in camera a piangere. Avevo affittato una stanza squallida in casa di una megera che quando facevo la doccia origliava alla porta per controllare che non consumassi troppa acqua.
Dopo pochi giorni scivolai per le scale e mi fratturai un polso. Fu la mia fortuna. Al Pronto Soccorso c’era Gianfranco, fresco di laurea, fresco di sentimenti e di buoni propositi.
Gianfranco appartiene alla categoria di persone che, quando le pesti, si fanno più in là e ti chiedono pure scusa. È sempre positivo, costruttivo, non perde mai il controllo. Spande intorno serenità. Certe volte questa sua calma olimpica mi dà quasi sui nervi. Forse è il lavoro che fa, sempre a contatto con la sofferenza e con la morte, a convincerlo che siano davvero poche le cose per cui valga la pena prendersela.
Lui ha curato il mio polso e la mia anima. Non ci sono state fra noi passioni violente, ma un amore solido, adulto, che in tutti questi anni mi ha dato sicurezza e mi ha riconciliato con la vita.
Alla notizia della gravidanza di mia sorella ero rimasta interdetta. Mille pensieri mi si erano affollati nella mente. Ebbi bisogno di qualche secondo per chiederle: «È di Luca?».
Lei frugò nella memoria: «Luca? Ma che dici! Luca non lo vedo da quasi due anni».
«Allora di chi è?»
«Boh! Di un docente dell’Accademia. Forse.»
«Come, non sei sicura? Non sai chi è il padre del bambino?»
«Che importa?» tagliò corto lei infastidita. «Tanto non lo voglio tenere.»
Quelle parole mi colpirono come un secchio d’acqua gelata.
«L’hai detto alla mamma?» chiesi nella ricerca disperata di un appiglio salvifico.
«No, loro è meglio lasciarli fuori. L’ho detto a te.»
«Io? Che posso fare io?»
Mi aggredirono oscuri terrori: mammane armate di uncini arrugginiti. «Micaela, non fare sciocchezze, si può morire, lo sai, non ci sto, proprio non ci sto.»
«Non sono mica scema, neanche io voglio morire, cosa credi?»
«Allora?»
«Allora ci sono i Radicali, c’è il Conciani, proprio qui a Firenze per fortuna. Si può abortire clandestinamente senza rischiare la vita e senza spendere un soldo. Forse… solo un po’ di dolore.»
«E io che dovrei fare?»
«Potresti farmi da spalla. Non mi va di andare da sola.»
Si arricciava la ciocca freneticamente. La sentii fragile, indifesa. Di colpo tutti i risentimenti svanirono, provai un desiderio intenso di rendermi utile.
La mattina seguente la accompagnai al consultorio CISA di via Giusti. Attendemmo a lungo in una stanzetta pitturata di celeste, gremita di donne.
Quando arrivò il nostro turno ci accolse in un ambulatorio minuscolo una dottoressa in camice bianco. Era una bella signora sulla cinquantina, solida, ben piazzata, con un viso aperto e sorridente.
Controllò gli esami che Micaela aveva portato, poi la invitò a togliersi le mutande e a stendersi sul lettino. Mentre la visitava parlava affabilmente, rivolgendosi a entrambe.
«Così siete sorelle. Non vi somigliate. Studiate?»
Io avevo un groppo alla gola. Fu mia sorella a rispondere: «Io frequento l’Accademia, lei fa Giurisprudenza».
«L’Accademia. Che bello! Allora sei un’artista. Cosa ti piace?»
«La scuola di nudo. Mi piace il corpo umano.»
«Giusto! Il corpo umano è una macchina meravigliosa. In fondo noi medici e voi artisti non siamo tanto diversi».
Fu una visita accurata. La ginecologa e Micaela parlarono a lungo, in un clima rilassato; a mia sorella sfuggì anche qualche sorriso.
«Bene. Abbiamo finito.» Concluse la dottoressa togliendosi i guanti. «Puoi rivestirti.»
Ci trovammo di nuovo tutte e tre sedute alla scrivania di metallo e fòrmica, la ginecologa intenta a riempire una scheda, noi protese verso di lei in attesa del verdetto.
Quando ebbe terminato alzò lo sguardo verso mia sorella: «Eh sì, sei proprio incinta, al terzo mese a occhio e croce. Se vuoi abortire non c’è tempo da perdere. Domenica prossima alle due del pomeriggio in piazza Santo Spirito. Sarete una quindicina. Troverete le volontarie, vi portano all’ambulatorio e vi riaccompagnano. Ti metto in lista, tu presenta solo questa scheda. Digiuna, mi raccomando».
Micaela prese la scheda, bofonchiò un «grazie» con un filo di voce.
La dottoressa riprese a parlare. Fu molto gentile e paziente. Parlò di un nuovo metodo abortivo che aspirava l’embrione senza danneggiare l’utero e senza provocare dolore, fornì una serie di informazioni dettagliate sui modi e sui tempi. Ma non lo fece con quel modo asettico e impersonale che di solito usano i medici. Elogiò a lungo il dottor Conciani, la sua abnegazione alla causa, ma soprattutto la sua lunga esperienza e la sua competenza professionale. Parlò anche di maternità consapevole, della necessità per un bambino di crescere in una famiglia composta da due genitori, entrambi maturi e responsabili.
Infine, prima di congedarci, porse a Micaela un foglietto: «È la ricetta per la pillola anticoncezionale. Meglio prevenire in futuro».
Il suo sguardo transitò sulla sottoscritta: «Faresti bene a prenderla anche tu».
Passammo quei pochi giorni che ci separavano dalla domenica in uno stato di grande agitazione. Io non riuscivo a concentrarmi nello studio, lei apparentemente sembrava calma ma non faceva che tormentarsi i capelli.
Quando arrivò il momento, mentre saliva con le altre sul pulmino, mi strinse un braccio: «Ho paura» bisbigliò.
Girai per cinque ore senza meta, battendo le strade del centro e tornando infinite volte sui miei passi. Cercavo di accompagnarla nei vari momenti di quella brutta esperienza.
La vedevo in sala d’aspetto ad arricciarsi la ciocca, entrare in ambulatorio, stendersi sul lettino piena di paura, subire l’umiliazione di restare esposta, a cosce aperte, in attesa che una ventosa le aspirasse le viscere. Pensavo alla rabbia, al dolore e mi pareva che quella rabbia e quel dolore fossero anche miei, fossero di tutte le donne di ogni luogo e di ogni tempo che, per un capriccio della natura, subivano, solo loro, le conseguenze di un attimo di leggerezza.
Mi tornarono alla mente i miei primi maldestri rapporti con un ragazzo inesperto quanto me e pensai con orrore che al posto di Micaela ci sarei potuta essere io.
In quel pomeriggio interminabile, nei vicoli dove ribolliva il puzzo di piscio, lungo l’Arno fermo e verdastro, maturai la mia adesione al movimento femminista.
Avevo partecipato tempo addietro a una riunione dell’UDI, l’Unione Donne in Italia. In un’aula di scuola elementare sedevano, in bilico sulle sedie a misura di bambino, sette o otto donne tutte più grandi di me. Si lamentavano dei mariti che non volevano lavare i piatti.
Tutto qui? Mi ero chiesta. Mi parvero vecchie, ancorate a una realtà che non mi apparteneva.
Perfino il babbo aiutava regolarmente la mamma nei lavori di casa.
Me ne ero andata delusa, convinta che i tempi nuovi avessero spazzato via una volta per tutte quella mentalità retrograda e maschilista.
Ma mi tornò alla mente Luca, che voleva fare la guerra a una società repressiva e autoritaria e trattava mia sorella come una cosa dovuta, che le metteva la mano sul culo senza chiedere il permesso.
Da allora sposai la causa. Partecipai anche io alle soporifere sedute di autocoscienza, nei cortei unii le mani, indice contro indice, pollice contro pollice, a disegnare provocatoriamente la forma della vagina.
Ma dovevo ancora imparare una cosa. Sono i desideri a muovere il mondo: di fronte al loro insorgere anche le certezze più solide si eclissano. Come l’ombra a mezzogiorno.