Bolzano. Ore 13
Giovani, slanciate, falcata sparviera.
Il commissario sgranocchia in fretta ciò che resta della mentina all’eucalipto e fissa il ripiano della scrivania per concentrarsi meglio sui tonfi leggeri che si avvicinano al suo ufficio.
Una piccola debolezza la sua, meglio, un motivo di orgoglio riconoscere dal rumore dei passi le caratteristiche delle persone. Intuito, attenzione al particolare, deduzione. Era stato così anche con Anna, quando era andata a denunciare il furto della collana. Un ticchettio marcato, ravvicinato: chiattona con brio, aveva ipotizzato e subito dopo lei gli si era materializzata davanti in tutto il suo esuberante splendore.
Non ha voluto aprire la cartella coi dati anagrafici che gli hanno trasmesso, prima vuole mettere alla prova le sue proverbiali capacità intuitive. Un’impresa che sfiora il virtuosismo, questa volta, perché i piedi sono quattro e con la contaminazione dell’andatura da cingolato di Capuozzo.
Sono arrivati, non c’è bisogno di alzare la testa per saperlo. Scatta su come una molla, si precipita verso la porta aperta prima ancora che l’agente faccia l’atto di bussare, le lunghe braccia che oscillano come remi.
Il primo approccio è fondamentale, da quello dipende l’esito di tutto il colloquio. Il commissario ingoia gli ultimi granelli della mentina e sfodera un sorriso rattristato, da circostanza: «Prego, accomodatevi».
Indossa un paio di jeans e un maglione informale. Se portasse gli occhiali sembrerebbe più uno scrittore esistenzialista che un poliziotto. Ma il taglio cortissimo dei capelli e una certa durezza nello sguardo tradiscono anni di addestramento militare. Inoltre la sciarpa verde girata più volte intorno al collo esalta il colore livido dell’incarnato, come se ci avesse banchettato un centinaio di vampiri.
Le ragazze muovono un passo, sono pallidissime, hanno gli occhi rossi e gonfi. Si guardano attorno spaesate. Finalmente si siedono sulle due sedie davanti alla scrivania.
«Meglio se non vi togliete i piumini» continua intanto l’uomo con un sorriso conciliante. «Questi locali non si riscaldano mai.»
Si accomoda dall’altra parte del tavolo, le sbircia in attesa di una reazione qualsiasi, che non arriva.
Ci avevo azzeccato, pensa. Allunga il collo per esaminare le mani abbandonate in grembo. Le mani dicono più di qualsiasi documento: unghie curate, non troppo lunghe, niente smalto, pelle liscia. Di buona famiglia, conclude. Due pollastrelle uscite per sbaglio dal recinto e finite su un’autostrada a quattro corsie. Prima di tutto tranquillizzarle e conquistare la loro fiducia.
«Questo una volta era un convento, sapete? E all’interno abbiamo anche un bellissimo chiostro. Forse, passando, l’avete intravisto».
Niente. Le ragazze siedono rigide, catatoniche, lo sguardo perso nel vuoto.
In queste condizioni è impossibile condurre un interrogatorio.
Dalla piazza sottostante arriva il rumore dei motori accesi dei furgoni che portano via le ultime tracce del mercatino di Natale. Si sentono i tonfi degli abeti gettati sui camion. Il commissario maledice dentro di sé quel pomeriggio gelido di gennaio, quel cielo lattiginoso che tende al buio, quella città di merda in cui è stato scaraventato e dalla quale non riesce a trasferirsi, quell’interrogatorio che non vorrebbe fare e dal quale sa già che non ricaverà un ragno dal buco.
«Gradite qualcosa da bere?» azzarda in un ultimo, disperato tentativo di allentare la tensione. «Vi faccio portare un caffè, una cioccolata…»
Ma quelle non si degnano neanche di rispondere. Una estrae dalla tasca un fazzoletto stropicciato e si soffia il naso. Ancora il commissario non sa che voce abbiano.
«Sentite, comprendo quanto debba essere penoso per voi questo colloquio in un momento simile, ma non possiamo evitarlo. In nessun modo. Se collaborate ce la sbrighiamo in poco tempo e vi rimando a casa.»
Le ragazze annuiscono.
Perché non mi guardano in faccia, maledizione? Pensa il commissario. È difficile sostenere una conversazione con delle persone che si fissano la cerniera della giacca a vento.
«Avete avvertito i vostri genitori?»
Una resta imbambolata, l’altra alla parola “genitori” ha una sorta di risveglio. Scuote la testa con decisione.
«Sarebbe meglio. Naturalmente decidete voi, siete entrambe maggiorenni, del resto. Ma prima o poi…»
«Domani» taglia corto quella.
Il commissario fa cenno al poliziotto che è rimasto a piantonare la porta. Quello entra e si siede a un tavolino di lato. Un silenzio imbarazzante cade nella stanza. Tutti a testa bassa, compreso l’agente, nessuno che dia una mano. Con un sospiro apre il fascicolo e legge a voce alta i dati anagrafici delle testi. «Confermate?»
Sussurrano un «sì».
«Dunque. Quando siete arrivate?»
Dalle facce smarrite dubita che abbiano capito la domanda. Invece quella del risveglio, la mora, risponde a tono: «Tre giorni fa».
«Siete venute in treno, giusto?»
«In treno fino a Bolzano, poi abbiamo preso la corriera per Nova Levante.»
«Lo scopo del viaggio?»
«Siamo venute per sciare.» Finalmente ha alzato gli occhi, ma non per posarli su di lui. Percorre con lo sguardo la parete bianco cenere alle sue spalle fino all’alto soffitto a volta.
«Siete sciatrici esperte?»
La mora annuisce.
«Avete sci di vostra proprietà?»
Nuovo cenno di assenso.
«Quindi siete pratiche di attacchi, scarponi. Per esempio, siete in grado di fissare gli attacchi agli sci, di regolarli alla lunghezza degli scarponi. Lo fate regolarmente? Lo avete fatto anche questa volta?»
La ragazza gli rivolge uno sguardo perplesso, infine annuisce di nuovo. L’altra invece fluttua ancora in una bolla di stordimento. Sbotta in un pianto dirotto.
«Signorina, così non andiamo da nessuna parte. Per favore, si calmi.» Si spazientisce il commissario. «Ho bisogno anche della sua deposizione. Allora, lei conferma di possedere un paio di sci, di essere pratica di questi oggetti e di essere in grado di regolarli alle sue esigenze in modo autonomo?»
La ragazza solleva su di lui due occhi lucidi e gonfi, per un attimo lo guarda stupita come se lo vedesse per la prima volta, poi, finalmente, bisbiglia un impercettibile «sì».
«Come ha detto?» grida il poliziotto, puntando le mani alla scrivania e protendendosi verso di lei.
«Sì.»
«Ora va bene. Anche il signor Bottai era pratico di sci?»
Nessuna risposta.
«Sapeva sciare bene? Era in grado di affrontare piste di qualsiasi difficoltà? Anche le più impegnative?»
«Sì.»
«Ma non aveva con sé sci di sua proprietà, li ha noleggiati in paese al suo arrivo.»
«Che differenza fa?» interviene la mora.
«Questo, se permette, lo decido io. Allora, avete idea del perché non abbia portato con sé gli sci?»
«Che ne so. Forse perché era più pratico noleggiarli sul posto. Ha deciso solo all’ultimo momento di raggiungerci, sarebbe rimasto pochi giorni…»
«Quando siete partite non sapevate che il signor Bottai vi avrebbe raggiunto. Giusto?»
Le ragazze scuotono la testa.
«E quando l’avete saputo?»
«Avevamo una mezza parola, ma non era sicuro. Ci ha fatto una sorpresa.»
«Quando?» ribadisce il commissario alzando la voce.
«Ieri mattina» risponde la mora con un sospiro.
«Voi eravate qui da due giorni. Eravate già andate a sciare?»
«Sì.»
«Vi eravate già fatte un’idea del comprensorio, della difficoltà delle piste?»
«Sì.» E butta gli occhi al cielo.
Non ci siamo, proprio non ci siamo. Una continua a frignare e non mi sente nemmeno, l’altra è diventata strafottente. Nessuna considerazione del luogo, del ruolo. Il commissario sente montargli la collera: «Sentite un po’. L’avete capito dove siete? Siete in un commissariato di polizia, con un funzionario che vi interroga e un agente che verbalizza. Esigo rispetto e collaborazione!»
Quelle sussultano. Finalmente hanno capito e hanno sollevato su di lui quattro occhi impauriti e stralunati.