Gennaio 2014: il ritorno

Il telefono ha squillato alle tre meno dieci. Lo so con certezza perché per afferrare la cornetta mi sono girata su un fianco e ho visto l’ora sul display della radiosveglia.

È successa una disgrazia, mi sono detta, invece era Micaela, che, pur non essendo una disgrazia in senso letterale, è qualcosa che le assomiglia molto.

«Bisogna andare dal notaio della zia» mi ha comunicato senza troppi preamboli.

Non so da quanto tempo non ci sentiamo e lei, all’improvviso, mi telefona nel cuore della notte per dirmi che siamo convocate dal notaio della zia.

«Lo sai che ore sono?»

«No.»

«Sono le tre. Di notte.»

«Uh, scusami. Non me ne ero resa conto.»

«Noi la mattina andiamo a lavorare» ho sibilato e le ho riattaccato sul muso.

«Ma chi era?» ha farfugliato Gianfranco aprendo un occhio.

«Niente, dormi. Solo quella pazza di mia sorella.»

Ma Micaela il giorno seguente è tornata all’attacco: «Mi spiace per ieri notte, ma dal notaio dobbiamo proprio andarci. È per l’eredità».

«Che c’entro io? Non mi interessa.»

«Beata te! A me invece interessa e se non ci sei anche tu resta tutto bloccato. Avanti, Agnese, fammi il piacere.»

«In questo momento non posso lasciare il lavoro.»

«Basta che parti venerdì, il notaio ci riceve anche il sabato mattina. Non dirmi che non puoi prendere un giorno di permesso.»

In effetti la scusa del lavoro non regge e non è giusto lasciare Micaela, bisognosa cronica di denaro, senza l’eredità della zia.

Il giovedì pomeriggio vado dal parrucchiere. Faccio il colore, i riflessi, un taglio moderno da portare rigorosamente liscio. Mi faccio anche le mani. Pago senza battere ciglio una cifra da capogiro. La sera indugio a lungo davanti all’armadio prima di decidere cosa indossare durante il viaggio. Sento mio marito in cucina aprire e chiudere il frigorifero, apparecchiare la tavola per una cena che non ho preparato. Alla fine la scelta ricade sui capi delle grandi occasioni: pantaloni beige, morbidi e cascanti, maglioncino cachemire marrone bruciato. Un’eleganza sobria ma solida. Come soprabito estraggo dalla naftalina il tre quarti di camoscio imbottito che tengo come le cose sante.

Gianfranco mi raggiunge porgendomi un bicchiere di vino: «Siamo proprio sicuri che vai da tua sorella?».

Ma io sono troppo tesa per stare al gioco: «A Firenze fa freddo».

«Dài, Agnese, cos’è quella faccia? Si tratta di due giorni.»

«Lo sai che non mi va.»

«Fai male, in fondo è tua sorella».

Si aggiusta gli occhiali sul naso. Spalle larghe, torace ampio, tutto in lui sprigiona una pacata solidità. Non può capire, lui che è figlio unico, quanto possa essere disturbante incontrare una sorella come Micaela.

Alla stazione guarda con aria dubbiosa il mio bagaglio lillipuziano: «Non hai portato nulla. Non ti basterà».

«Avanza. Domenica al massimo sono a casa.»

Lo scompartimento del treno è stranamente vuoto. Ripiego con cura il giaccone di camoscio e lo ripongo dalla parte della fodera nel bagagliaio sopra di me. Mi siedo accanto al finestrino e apro l’inserto di Repubblica. Ma il mare, che scorre proprio lungo i binari, cattura la mia attenzione.

Questo tratto di costa in estate è molto affollato e rumoroso. Una distesa a perdita d’occhio di ombrelloni e lettini, musica sparata a tutto volume, pance e cosce cellulitiche che fanno ginnastica sul bagnasciuga, pianti di bambini, schiamazzi, grida. In questa stagione è tutt’altra cosa. L’Adriatico d’inverno ha un suo fascino particolare, anche da Ancona a Rimini. La spiaggia si distende piatta e deserta fino a lasciar discernere, in fondo, le onde basse, dense, che avanzano e si ritirano dalla battigia. E dietro, la massa immobile del mare sconfina con la linea dell’orizzonte, si annacqua in un grigio perlaceo e sembra che il mondo finisca lì, che non ci siano altri lidi, altri approdi dall’altra parte.

Un brivido mi attraversa la schiena. Distolgo lo sguardo e cerco di concentrarmi su pensieri piacevoli. Laura e Matilde che se la spassano in vacanza, Gianfranco che mi si avvicina da dietro e si modella al mio corpo per dormire abbracciati.

È strano, ho viaggiato per mezzo mondo, ma questo breve viaggio da Ancona a Firenze mi riempie di inquietudine.

Nostoi, chiamavano i greci i viaggi di ritorno in patria. Ma il mio non è un viaggio di ritorno, in nessun caso. Il disbrigo di qualche pratica burocratica e di nuovo a casa. Mi conforta l’esiguità del bagaglio, spazzolino da denti e un ricambio di biancheria, giusto il minimo indispensabile per un paio di giorni.

Ho lasciato Firenze trentacinque anni fa e ci sono tornata fugacemente solo per la morte dei miei genitori. Ad Ancona ho un buon lavoro, un marito che meglio non si potrebbe, due figlie meravigliose, una bella casa. Quello che ho l’ho conquistato palmo a palmo, senza dover ringraziare nessuno. A Firenze mi resta solo Micaela, ma in tutto questo tempo siamo diventate due estranee, ammesso che ci siamo mai conosciute.

Micaela, col dittongo, come teneva a precisare a chi sbrigativamente la chiamava col più comune Michela. Quanto ho odiato questo suo vezzo snobistico! Questo suo porsi fin dal nome come elemento raro e speciale! Io invece sono Agnese, condannata a questo nome da vecchia affibbiatomi in memoria della nonna, che ebbe la brillante idea di morire cinque mesi prima della mia nascita.

Cambio a Bologna, il treno è affollato ma anche questa volta il posto prenotato è vicino al finestrino. Mi guardo intorno: l’esercito compulsivo della solitudine globale ha il volto abbassato su cellulari e tablet. Tentacoli sottili spuntano dalle orecchie e collegano all’appendice elettronica, bocche si aprono e si chiudono in schizofrenici dialoghi solitari.

Davanti a me una ragazza diafana, basco nero di lana, sciarpa nera, unghie laccate di nero. Con le dita lunghe e sottili che spuntano appena dalle maniche del maglione tiene premuto all’orecchio un iPhone di ultima generazione. Parla a voce bassissima, quasi ingoiando il telefono, la testa appoggiata al vetro del finestrino, lo sguardo perso nel vuoto di un interlocutore fantasma. Una conversazione lunghissima. Finalmente riattacca e subito digita un altro numero e ricomincia.

Accanto a lei un signore distinto, capello appena spruzzato di bianco sulle tempie, abbigliamento rassicurante del tipo “affidami i tuoi risparmi, sei nelle mani giuste”, tiene aperto davanti a sé un computer portatile. Ha gli auricolari del cellulare alle orecchie e ogni tanto inizia a parlare. Parla continuando a osservare lo schermo o a digitare sulla tastiera senza soluzione di continuità.

Come sarà adesso mia sorella? È così tanto tempo che non ci vediamo che non riesco a immaginarla. Ci siamo incrociate l’ultima volta in occasione della morte del babbo e della mamma, ma la brevità dell’incontro e la circostanza non mi permettono di inquadrarla. I ricordi veri risalgono all’adolescenza, agli anni del ginnasio, con l’insegnante di lettere che mi sfiniva con le versioni dal greco all’italiano, dall’italiano al greco, con le declinazioni, i paradigmi, i verbi irregolari e via dicendo. Io sempre lì a studiare, china sul Rocci, per trovare un riscatto ai chili di troppo e far finta di non vedere i compagni che tra un’ora e l’altra facevano capannello e organizzavano feste di classe alle quali non ero mai invitata.

Lei intanto in seconda liceo, ai piani alti, svolazzava da un appuntamento all’altro, era la reginetta degli incontri, sempre al centro dell’attenzione, passava con disinvoltura dalle feste alle assemblee.

«Deligere oportet quem velis diligere» citavo con tono sprezzante.

«Eh?»

«“Bisogna scegliere chi si vuole amare.” Cicerone.»

«Vade retro, Satana!» mi rispondeva sghignazzando e incrociando le dita a formare una croce.

Naturalmente di studiare non se ne parlava nemmeno. Strappò a stento la Maturità con un misero trentasei. Poi si iscrisse ad Architettura, attratta dal clima di contestazione più che per genuino interesse, credo, e infatti dopo un anno non aveva dato neanche un esame. Allora passò all’Accademia di Belle Arti e lì vivacchiò per qualche tempo senza concludere. Quando io mi sono trasferita ad Ancona con una laurea in tasca lei era ancora a chiedersi cosa avrebbe fatto da grande.

Micaela volava da una passione all’altra con la leggerezza e l’inconsistenza di una piuma, con l’insolente sicurezza che possiedono le femmine avvezze a ricevere gli sguardi ammirati degli uomini.

Il ricordo è fermo a quella sua bellezza giovanile. Ma so bene quanto la memoria sia ingannevole e ora che questo treno mi riporta da lei temo che la realtà sconfessi certezze consolidate, mostrandomi i solchi che il tempo ha scavato sul suo corpo. E sul mio.

Una sorella fantasma. Per le mie figlie, che non ne hanno altre, una zia fantasma. Unica traccia le cartoline di auguri che ogni anno ci manda per Natale. Cartoline a dir poco singolari: la renna, con le corna conficcate nella neve, che agita le zampe per aria, mentre Babbo Natale giace svenuto tra i rottami della slitta. Babbo Natale legato e imbavagliato mentre i ladri fuggono sulla slitta con i regali mostrandogli il medio alzato. Non so se è un suo modo per mantenere uno scherzoso contatto o se vuole avvertirmi che la sua vena dissacratoria è rimasta immutata nel tempo. Questa volta Babbo Natale, la renna e la slitta erano spiaccicati sul terreno come adesivi al vetro dell’automobile. Su di loro l’impronta dei cingolati del gatto delle nevi.

Intanto fuori scorre l’Appennino con le sue pendici spoglie e sbriciolate che si fanno man mano più impervie.

Accanto a me siede un ragazzone biondo con una camicia a scacchi. Sul sopracciglio sinistro un piercing a pallina va su e giù ogni volta che corruga la fronte. Tiene un iPad poggiato sul cavallo dei pantaloni altezza ginocchia. È concentrato su un gioco tipo Guerre stellari. Ad ogni vibrazione elettrica di alabarda spaziale abbassa di scatto la testa sormontata da un cimiero di capelli sparati di gel.

Lo osservo di sbieco, combattuta tra la commiserazione e la tenerezza, lui si volta verso di me, chiude il tablet e con un sorriso mi chiede se può dare un’occhiata all’inserto di Repubblica che ho appoggiato sul tavolino. Glielo cedo volentieri, mi giro a guardare a tratti il paesaggio fuori e a tratti il mio volto riflesso sul vetro contro il buio delle gallerie.

Improvvisamente, all’uscita del tunnel di Pian del Voglio, in un turbinio di pulviscolo bianco, la montagna mi balza addosso come un animale domestico che non riconosce il padrone. Sono abbagliata dal candore compatto della neve che fluttua nella nebbia. A malapena riesco a distinguere il breve terrapieno al lato della rotaia, al di là il treno è sospeso in una materia opaca senza principio e senza fine.

C’è chi non tollera i luoghi chiusi, chi si rifiuta di entrare in ascensore e non visiterebbe mai una miniera. Io invece soffro di agorafobia. Ne ho sofferto soprattutto da ragazza, quando mi sono trasferita ad Ancona. Improvvisamente sentivo una mano che mi stringeva alla gola e mi trovavo distesa per terra. Non sono tanto gli spazi aperti a scatenarmi il panico, quanto gli spazi senza bordo, senza confine. Mi terrorizza l’idea di non vedere cosa c’è oltre.

Sento salire l’angoscia. Comincio a sudare, il respiro si fa concitato, allento la sciarpa che mi avvolge il collo. Vorrei non guardare ma una forza maligna mi attrae, irresistibile, verso lo spazio esterno. Immagino i binari che si perdono nel vuoto, il treno che precipita, silenziosamente. Il senso di vertigine mi assale, mi aggrappo ai bordi del sedile ma tutto ruota intorno vorticosamente e lo stomaco balza in gola mentre vengo risucchiata nella voragine senza fondo…

«Signora, signora!» Il giovane accanto a me si è alzato, mi sorregge per una spalla e mi dà dei buffetti sulla guancia. Per un attimo distinguo solo la pallina che si agita davanti a me, poi un po’ alla volta riemergo dalla voragine, riconosco lo scompartimento, vedo il volto preoccupato del ragazzo sopra di me, gli altri passeggeri che si sono alzati per prestare aiuto.

«Sto bene, grazie» rispondo piena di vergogna.

«Sicura?»

«Solo un calo di pressione. Mi capita qualche volta.»

«Deve mangiare qualcosa» insiste lui con tono competente.

Vedo sventolarmi davanti agli occhi una banana. La allontano garbatamente con la mano: «Tra poco sono arrivata. Faccio colazione a Firenze, grazie».