Micaela

Micaela è ad aspettarmi sulla banchina della stazione. La individuo tra la folla mentre il mio vagone la supera di qualche metro. Scendo i gradini e mi ha quasi raggiunta. Rimaniamo una di fronte all’altra senza sapere cosa dire.

«Signora, la accompagno al bar?» chiede gentilmente il giovane raggiungendomi.

«Non occorre, grazie, c’è mia sorella.»

«Hai rimorchiato? Va bene che sono di larghe vedute, ma mi sembra un po’ troppo giovane per te» esordisce lei col suo solito risolino sarcastico.

Sono le prime parole che mi rivolge, prima di chiedermi come sto, come stanno le mie figlie, come sta Gianfranco. Resto a guardarla, rigida come una grondaia.

Ha i capelli grigi, raccolti in una treccia che le arriva a metà schiena. Detesto questa trasandatezza in una donna di sessant’anni, ma devo riconoscere che a lei stanno bene, le conferiscono un’aria da aristocratica di campagna. Per il resto non è granché cambiata. Stesso fisico snello, stessi occhi immensi e luminosi.

«In questi casi di solito è di prassi un abbraccio» dice sorridendo e cingendomi per le spalle.

Micaela mi sovrasta di mezza testa. Così, intrecciata a lei, sembro una cicala attaccata al ramo. Indossa un cappotto leggero a quadri bianchi e neri che avrebbe fatto la sua figura nel mercato londinese di Portobello negli anni Settanta. Percepisco sotto il tessuto il cuneo aguzzo delle scapole.

«Hai prenotato l’albergo?» le chiedo sciogliendomi dall’abbraccio.

«Neanche per sogno. Vieni da me.»

Alle mie proteste replica che ha una camera libera, che ci mancherebbe che dopo tutti questi anni non stessimo un po’ insieme, che ha pulito la casa da cima a fondo e che se non accetto sono proprio una stronza. Poi afferra la mia borsa da viaggio a indicare che non ammette repliche: «Tutto qui il tuo bagaglio?» chiede. «Ti senti proprio di passaggio. Oppure è la mia presenza che ti disturba?»

A Firenze non fa freddo, in compenso pioviggina. Piccole gocce sporche che punteggiano il mio camoscio come schizzi di caffè.

«Prendiamo un taxi?» suggerisco.

«Ma che dici! Abito qui a due passi, al mercato centrale.»

Ci facciamo strada a fatica tra le bancarelle e la folla che indugia davanti alla merce esposta. Micaela si muove sicura come un batterio nel suo brodo di coltura, io arranco con i miei tacchetti sul selciato sconnesso, attenta a non perdere la sua schiena a scacchi e i catarifrangenti verdi che, tragicamente, risplendono sul forte delle sue scarpe da ginnastica.

Finalmente giriamo in via de’ Ginori. Mi precede su per quattro rampe di scale strette e ripide fino a un portoncino pitturato di verde. Un ingresso soggiorno minuscolo, pieno zeppo di oggetti, con due finestre che affacciano sulla strada. Mi guardo intorno: un divano sgangherato, coperto con un telo a fiori e ingombro di cuscini, una scaffalatura di metallo adibita a libreria, un tavolino col computer, manifesti e cesti di vimini alle pareti. E giornali, bicchieri sporchi, vestiti sparsi ovunque. È così che fa pulizie, lei, constato tra me.

Forse mi è sfuggita involontariamente una smorfia, perché Micaela precisa con tono di scusa: «Questa stanza devo ancora riordinarla. Mi sono concentrata sulla camera e sul bagno».

«Da quanto tempo abiti qui?»

«Da otto anni. Mi piace, è pieno di vita. È uno dei pochi quartieri rimasti autentici.»

Penso dubbiosa alle facce olivastre degli ambulanti e alle maglie sventolanti dei calciatori e ai grembiuli da cucina col pisello del David stampato in bella vista che ho notato passando.

«È tuo?»

«No, sono in affitto. Ma con l’eredità della zia spero di poterlo comprare.»

«E Merlino?»

Lei ride: «Merlino? Agnese, ma che dici? Merlino è morto sei anni fa. Aveva diciotto anni, era decrepito… Vieni, ti mostro il resto della casa».

Mi guida in un cucinotto arredato sommariamente, in un bagno minuscolo, piastrelle sbrecciate anni Cinquanta, doccia ricavata tirando una tenda di plastica e in una camera da letto, la stanza più grande e silenziosa perché la finestra affaccia su un pozzo di luce.

«Tu dormi qui» mi informa posando la mia borsa sul letto.

«Avevi detto che c’era una camera libera» protesto io.

«Questa. Non ti va bene?»

«E tu?»

«Tranquilla sorellina, non intendo violare la tua privacy. Io mi arrangio in salotto.»

Sorellina! Non era un diminutivo affettuoso, ma il suo modo di prendermi in giro o di ribadire la mia inadeguatezza.

«Non permetto» ribatto gelida per ristabilire le distanze.

«E falla finita di giocare alle signore!» Ma vedendo che sono rabbuiata sul serio aggiunge: «Ho voglia di stare un po’ con te. Che c’è di strano?».

La scruto in preda al sospetto, ma sul suo volto non c’è traccia di ironia.

«Fai come se fossi a casa tua.»

Vorrei fare mille domande a questa estranea, tutte le domande che per anni mi sono rimaste in gola, ma l’unica cosa che riesco a dire, mentre mi tolgo il giaccone e lo depongo sul letto, è: «Hai una spazzola?».

Lei entra in bagno e subito dopo riappare con in mano una spazzola per capelli. Qualche lungo filo grigio è impigliato tra i crini.

«Una spazzola per indumenti. Non vedi come è ridotto il mio soprabito?»

Micaela scuote la testa: «Ho quella con cui spazzolavo Merlino».

Non c’è nulla da fare. Chi nasce stronzo muore stronzo. Le volto le spalle e passo la mano sul camoscio, come se accarezzassi un figlio malato per il quale non ho medicina.

Micaela mi osserva con una smorfia: «Vieni, ci facciamo un tè, così mi racconti un po’ cosa fai. Quant’è che non ci vediamo? Dieci anni?».

«Quasi quindici» ribatto acida.

«Ma pensa!»

E poi ha fatto quel gesto di prendersi una ciocca di capelli dalla fronte con l’indice e il medio e cominciare a tormentarla col pollice. Era una specie di tic, lo faceva senza rendersene conto ogni volta che era nervosa o assorta. La prendevamo in giro per questo a casa, la chiamavamo “Ricciolino”, ma io, che i ricci ce l’ho davvero, mi sono allenata per anni in segreto per imitare quel gesto. Senza successo.

Sedute una di fronte all’altra ci scrutiamo furtivamente. La sorella dei miei ricordi è riconoscibilissima in questa signora attempata. Eppure… eppure c’è qualcosa che me la rende estranea. Non sono le guance che hanno perso la pienezza di un tempo e nemmeno la pelle che tende al grigio. Sono gli occhi, i suoi splendidi occhi. Ancora grandi, mobili, chiari da risultare quasi inquietanti, ma privi della scintilla che li animava. Gli occhi di Micaela sono spenti, come se la vita, passandoci sopra, ci avesse steso un velo di disillusione.

Anche lei, immagino, sta registrando i cambiamenti intervenuti sulla mia persona. Si alza di scatto e mette un pentolino d’acqua sul fornello. Dandoci le spalle è più facile avviare una conversazione.

«Lavori sempre?» mi chiede.

«Certo che lavoro!»

«Ma che lavoro fai esattamente? Non l’ho mai capito.»

«Sono consulente legale in un ufficio fidi per la Regione Marche.»

«Sarebbe?»

«Controllo la situazione legale delle aziende che chiedono alla Regione di avallare un prestito bancario.»

«Cioè?»

«Lascia perdere, te lo spiego un’altra volta.»

«Però è un lavoro importante. Vero?»

Provo dentro di me un moto di stizza per questa sua finta ingenuità. Micaela sa benissimo che mi sono laureata a ventitré anni con la lode, che ho vinto un concorso, che ho fatto carriera.

«Tu cosa fai?» ribatto con una punta di malignità.

«Vado in giro in cerca di cose e poi le rivendo ai mercatini dell’antiquariato.»

In giro, cose, mi pare di vedere Nanni Moretti e i suoi amici che dopo un giorno e una notte inconcludenti aspettano l’alba dalla parte sbagliata.

«Che tipo di cose?» insisto.

«Soprammobili, bicchieri, tovaglie, telefoni, libri, tutto quello che trovo. Passo in rassegna le case in cui è morto un vecchio, qualche chiesetta di campagna sconsacrata, le aste, vado dove capita, dove mi avvertono che posso trovare qualche pezzo interessante. Certe volte compro nei negozi di rigattiere e rivendo al banco di un amico. Domenica siamo ad Arezzo. Vieni?»

Faccio finta di non aver sentito.

«Poi faccio un po’ di ceramica» continua lei «quel mio amico mi fa usare il suo magazzino e ci tengo il tornio.»

Dalla mensola sopra il frigorifero prende una tazza e me la mette in mano.

È una tazza grande, di forma irregolare, pende di lato e ha i bordi sbilenchi. Sul fondo celeste smaltato sono incisi, come graffiti, strani uccelli dalle zampe lunghissime che sfumano al blu.

«Originale» è l’unico apprezzamento che riesco a fare.

«Ti piace davvero? Allora prendila, è tua. Tienila per ricordo.» La avvolge rapidamente in un foglio di giornale e me la mette in borsa. «Sono tutti pezzi unici» aggiunge con orgoglio.

Ho una sorella che a sessant’anni fa ancora i balocchi. Mi ero illusa che fosse cresciuta, almeno da vecchia, invece me la ritrovo vestita da clown a rovistare nei cassonetti e a giocare col pongo.

«Che c’è? Non ti piace?»

«No, carina, solo stavo pensando… Micaela, ma ci vivi con questi lavoretti? È tutto così precario, così casuale…»

Un lampo della ben nota ironia le attraversa lo sguardo. Si alza, prende tabacco e cartine dalla stessa mensola e comincia a rollare una sigaretta.

«Le prepari da sola?» le chiedo.

Lei annuisce mentre passa la lingua sui bordi per farli aderire. Poi me la offre. Scuoto la testa.

«Non fumi più?»

«Dalla prima gravidanza. Sono ventisei anni.»

«Perché?»

«Cerco di preservarmi. Ho due figlie, io. Ti piacciono queste cicche?»

«Un’abitudine che ho preso in collegio» risponde guardandomi quasi con aria di sfida.

È da allora, da quando ha iniziato a prepararsi le sigarette da sola che le nostre vite sono schizzate in direzioni opposte e divergenti. Fisso, a disagio, il tè grigiastro nella mia tazza.

Traspira una lunga boccata e mi butta il fumo in faccia senza preoccuparsi che mi dia fastidio: «Ci vivo, ci vivo. A me basta poco».

Solo ora faccio caso alla modestia del suo abbigliamento. Un paio di jeans logori e un maglione sformato, per non parlare delle scarpe sicuramente Made in China. Una necessità o la sua solita ostentazione di eccentricità?

Dovrei dirle qualcosa di carino, che so, invitarla da me per un fine settimana, tanto è certo che non verrà. Ma Micaela non è più interessata alla conversazione. Si è alzata, gira inquieta per la casa, apre sportelli e cassetti. Poi dà un’occhiata fuori dalla finestra: «Ha smesso di piovere. Ti va di fare un giro in centro?».

La proposta toglie entrambe dall’imbarazzo e in un attimo siamo al portone.

«Hai preso l’ombrello?» chiedo.

«No, tanto ormai non piove più.»

Guardo scettica la coltre di piombo compatto sul mio capo. Chiedo perdono al camoscio e arranco dietro a mia sorella tra la folla che si è fatta ancora più numerosa. Procediamo lentamente, intralciate dal pigia pigia di Borgo san Lorenzo. Davanti alla chiesa resistono le “buche”, metà negozio metà bancarella, con le scale strette e ripide che scendono nel sottosuolo e le file di scarpe allineate sugli scaffali lungo il marciapiede. A parte queste, tutto è cambiato. Ad ogni passo un ristorante coi tavolini sulla strada malgrado la brutta stagione. A metà una gru con un operaio in bilico che rimuove gli ultimi festoni natalizi intasa ulteriormente la via. Siamo costrette a fermarci per dare la precedenza alla folla che procede in senso contrario. Non so quale forza maligna mi spinga a girarmi alla mia destra in cerca dell’Antica Pizzeria Nuti.

La riconosco solo dall’insegna. Porta di legno scuro, dehor minimalista davanti, menù chilometrico in una teca a lato. Niente a che vedere col locale spartano che per decenni ha cocciutamente conservato l’aspetto delle origini. Ci venivo con Sergio. Il più delle volte compravamo una pizza al taglio e la mangiavamo camminando, con la mozzarella bollente che filava agli angoli della bocca e colava sulla carta unta. Ora non c’è Sergio, ma un ragazzo dinoccolato di colore che cerca di attirarmi dentro e mi ficca in mano un volantino pubblicitario del locale.

«Per favore, sono di Firenze» dichiaro per levarmelo di torno, ma in realtà mi sento più straniera di lui, più straniera della cinese seduta sul marciapiede a vendere cavallette di carta, più straniera perfino di questa coppia di tedeschi in sandali e calzini di lana che studia il menù davanti a un ristorante e contro la quale sono andata a sbattere.

Di nuovo la sudorazione, la gola che si chiude. Mi aggrappo al pensiero del ritorno, delle semplici azioni quotidiane – portare il giaccone in tintoria, annaffiare le piante del salotto – che mi ricollochino in una dimensione di normalità, ma la folla avanza come una falange in marcia, mi circonda, sempre più pressante, volti accigliati, mani invadenti, odore di corpi eccitati e il tonfo cadenzato di una cavalleria al galoppo. Riconosco gli antichi segnali, è l’attacco di panico, tale e quale a quando mi assaliva da ragazza. Testa bassa, labbra serrate, tendo le braccia in avanti per aprirmi un varco, ma è come trovarsi nell’epicentro di un gorgo, più mi agito più la massa mi stringe. Non vedo più niente, solo materia solida che invade il mio spazio vitale…

«Agnese! Agnese!»

«Non la sente.»

«Certo che la sente, ha gli occhi aperti.»

«Sollevatele le gambe.»

«Agnese, rispondi per carità!»

In questo mio lento riemergere da un mondo di silenzio le parole suonano estranee e lontane. Percepisco agitazione intorno a me, ma la cosa non mi riguarda.

Dalla posizione in cui mi trovo, invece, posso osservare comodamente la cupola di Santa Maria del Fiore gonfiarsi sui tetti come una mongolfiera e il campanile di Giotto che le fa da sentinella. Si può prendere le distanze da tutto, penso, ma non dalla bellezza.

«Fate largo, arriva il dottore.»

Mani che toccano il polso, che tastano la fronte.

«Il battito è regolare. Signora, come si sente?»

«Agnese, hai capito? Come ti senti?»

«Proviamo a metterla seduta.»

Altre mani proteggono la nuca, sollevano la schiena.

Ecco, da questa posizione un po’ più elevata riesco a vedere anche il Battistero, seguo con lo sguardo le linee geometriche perfette, scendo alle porte del Paradiso.

Sono stata battezzata in Battistero, come Cacciaguida. Sarà per questo, forse, che, seduta sull’asfalto bagnato, osservo con superbo distacco il gruppo di giapponesi con gli impermeabili trasparenti e la macchina fotografica a tracolla che ascoltano lì davanti la spiegazione della guida.

«Agnese, ti prego, di’ qualcosa.»

«Bello!»

«Cosa?»

«Qui… non ricordavo più quanto fosse bello.»

«È stata colpita da sindrome di Stendhal» suggerisce qualcuno in vena di interpretazioni suggestive.

«Macché sindrome di Stendhal» replica il dottore. «È stato un collasso. Venga in farmacia, le misuro la pressione.»

È stato un collasso. L’ago della macchinetta segna inequivocabilmente ottanta di massima. Il medico mi porge un bicchiere d’acqua dal sapore amaro.

«Ha fatto colazione?»

Penso all’insipido tè verde lasciato raffreddare nella tazza da mia sorella e scuoto la testa.

«La porti subito a mangiare qualcosa» dice a Micaela.

Pochi minuti, il tempo di percorrere via Calzaioli, e mi trovo seduta a un tavolo minuscolo. Davanti a me un panino grasso, la crosta dorata e croccante del filone toscano, una striscia di formaggio che fa capolino, il profumo inconfondibile della finocchiona. Troneggia nel piatto, accordo cromatico perfetto, simmetria delle proporzioni straordinaria. Ancora una volta concordo coi Pitagorici circa il valore etico della bellezza.

Micaela mi dà un pizzico sul braccio. «Mangia, non vorrei che fossi di nuovo colpita dalla sindrome di Stendhal.»

La pioggia ci sorprende all’improvviso. Uno scroscio violento, obliquo, che mi raggiunge anche al riparo dei tetti.

Quando arriviamo a casa il tre quarti è definitivamente compromesso. La messa in piega è partita e i capelli hanno assunto un andamento ondulato senza capo né coda. Sulla fronte svetta l’orrenda banana che mi fa somigliare a Tintin.

«Sei proprio sicura di voler rinunciare alla tua parte di eredità?» mi chiede Micaela a bruciapelo, mentre cerco invano di dare un senso alla mia acconciatura.

«Sicurissima, te l’ho già detto. È tutto pronto, no? Domani andiamo dal notaio, metto una firma e riparto.»

«Così presto?» Però sembra sollevata di aver avuto conferma. «E Gianfranco come sta? Le ragazze?»

Si ricorda solo ora che ho un marito, una famiglia. Capisco anche che non rammenta il nome delle mie figlie.

«Perché non sono venute anche loro?»

«Si sono prese qualche giorno di vacanza insieme. Non si vedevano da quattro mesi.»

«Quattro mesi?»

«Laura in questo momento vive a Parigi.»

«E l’università?»

«Terminata. Si è presa pure un master. Solo che in Italia non trova lavoro.»

Micaela scuote la testa: «Che Paese di merda!». Accavalla le gambe con un sospiro. «Almeno ha trovato un buon impiego?»

Non vorrei continuare questa conversazione, è un argomento scottante, ma mia sorella, che quasi si era scordata dell’esistenza delle sue nipoti, ora mi incalza con le sue domande.

«Che lavoro ha trovato a Parigi?»

Esito, poi sono costretta a rispondere: «Lavora in una brasserie, sai, baguette farcite».

«Fa i panini? E non poteva farlo in Italia?»

È esattamente quello che le ho detto quando ha annunciato di voler partire, ma mai e poi mai lo ammetterei con Micaela.

«Anche tu sei andata a Londra.»

Mi pento immediatamente di averlo detto. L’avevo giurato a me stessa: niente scorrerie nel passato.

Resta assorta per qualche secondo, poi replica: «Io non avevo mica la laurea. E poi volevo mettere un po’ di distanza tra me e i brutti ricordi».

Non raccolgo l’allusione, non voglio raccoglierla in nessun modo.

«Guadagna bene almeno?»

«Insomma… benino. Per ora le diamo una mano noi. Ma torna presto» mi affretto ad aggiungere «intanto fa un’esperienza, impara bene il francese.»

«Già, forse ha ragione lei».

Capisco che lo dice poco convinta. Neanche io del resto lo sono. Un anno sprecato, a quasi ventisei anni, senza prospettive, senza una strada chiara. Non immaginavo che la mobilità consistesse nello scorrazzare da una parte all’altra del mondo.

«Noi siamo stati privilegiati, abbiamo potuto aspirare al posto fisso. Loro no.»

Ma Micaela non mi ha sentito, insegue il filo di un suo ragionamento interiore.

«Sono strani i giovani oggi. Sono diversi. Non capisci dove vogliono andare… bivaccano…»

Proprio lei! Non riesco a trattenermi: «Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt».

Mi guarda sconcertata: «Non ti è ancora passata la fissa delle citazioni?».

«Questo è Seneca. Te lo traduco, perché immagino non abbia capito: “Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri mentre i nostri ci stanno dietro”. E comunque loro non sono così.»

In un rigurgito di orgoglio materno le parlo di me e di Gianfranco, di quanta cura abbiamo messo nell’educare le nostre figlie, ma soprattutto le parlo di Laura e Matilde, di quanto siano brave, assennate, affettuose, dell’armonia che regna nella nostra casa. Non le dico che Laura in passato ha avuto qualche problema di droga, peraltro completamente risolto. Non le dico nemmeno che viviamo nel quartiere più esclusivo di Ancona, che dal salone della nostra villetta borghese vediamo il golfo e sentiamo l’odore del mare.

Da un po’ di tempo mi chiedo cosa lasceremo davvero alle nostre brave figliole. La villetta sul Conero, se non ce la mangiano prima le badanti. La speranza no, quella non l’hanno mai avuta. Nemmeno la rabbia. Sembra che tutto gli scivoli addosso. Noi siamo cresciute in un’Italia povera, ancora lontana dal consumismo. Avevamo fame. Fame di riscatto, di cambiamento. Loro hanno fame solo di cellulari e computer.

Ma di che mi lamento? Di uno scivolone, in un breve periodo di crisi, della maggiore? Per il resto nulla da eccepire. È vero, non leggono un libro neanche se le inchiodo al letto, ma a scuola sono sempre state brave, diligenti. Eppure certe volte le sento così lontane che mi chiedo se per caso a ostetricia non le abbiano scambiate nella culla con le figlie di un’aliena.

«Per noi è difficile capire» aggiungo.

«Non riesco a immaginarle adulte. Per me sono ferme all’infanzia. Come tu con Merlino.»

Il paragone suona un po’ irrispettoso ma è calzante. Anche per me spesso il ricordo è più forte del presente, cristallizza le immagini in un tempo prestabilito e non ne vuole sapere di accettare i mutamenti.

«Sono delle belle ragazze? Hai una fotografia?»

Le mostro sul telefonino un paio di foto scattate a Natale. Io in poltrona e loro due ai lati, sedute sui braccioli. Matilde ha preso dalla famiglia di Gianfranco, ha un viso dolce, tratti morbidi. Laura non assomiglia né a me né a mio marito: capelli scuri, lineamenti marcati. Solo ora realizzo con disappunto che assomiglia a Micaela. Anche di carattere è più spigolosa della sorella, più volitiva. Sono entrambe protese verso di me, i volti vicini, e ridiamo. Dietro di noi il luccichio delle luci dell’albero.

«Ecco i miei gioielli» dico per stemperare nell’ironia l’orgoglio materno.

Micaela le osserva a lungo, con un’espressione indecifrabile. Le tolgo di mano il cellulare e lo ripongo celermente in borsa nel timore che le esca di bocca qualcuna delle sue battute infelici.

«E tu?» le domando.

«Io cosa?»

«Hai qualcuno? Un compagno, un amore…»

Scuote la testa: «Sola come un palo della luce. Magari tra un po’…».

«Tra un po’ quando? Hai sessant’anni, sessanta! Dove vivi, Michela (la chiamo così di proposito per provocarla), tra poco cominceranno gli acciacchi, le malattie e tu sei sola, senza un lavoro, senza una pensione! Che farai quando non potrai più salire le scale di questa casa di studenti?»

«Potrei trasferirmi da te. Hai sempre avuto l’anima del boy scout» replica con quel ghigno allusivo che mi ha sempre fatto imbestialire. Le lancio un’occhiata al vetriolo e torno in camera a spazzolarmi i capelli.

Dopo un attimo mi raggiunge: «Scusa, hai ragione».

Le volto le spalle ma dallo specchio la vedo sedersi sul letto. Lo fa con un movimento stanco che a dispetto del corpo flessuoso tradisce l’età.

«In realtà c’è stata una storia importante, è durata fino a due anni fa.» Si accende una sigaretta, incurante di trovarsi nella camera in cui io dormirò. «È andata avanti più di dieci anni: lui era sposato e con figli, io ero l’amante… Mi ci vedi a fare l’amante?» Sorride beffarda. «Poi è morto. Un infarto. Non sono nemmeno potuta andare al funerale.»

Non credo alle mie orecchie. Mia sorella che per un tempo infinito si adatta al ruolo di comprimaria!

«Mi spiace. Davvero» le dico «ma perché ti cacci sempre in situazioni assurde? Che pensavi di ricavarci da una storia come questa? Non dirmi che credevi che avrebbe lasciato la moglie.»

«No, lo sapevo benissimo. Non l’avrei nemmeno voluto.»

«E così ti sei accontentata delle briciole.»

«Delle briciole? Io da quest’uomo ho preso il meglio: l’allegria, l’entusiasmo, la passione. Ho lasciato alla moglie le serate davanti alla televisione in pantofole, i calzini da lavare, gli acciacchi, le flatulenze.»

«Il matrimonio non è fatto solo di queste cose.»

«No?»

«No. È fatto anche di condivisione, complicità…»

Micaela mi osserva, gli occhi ridotti a due fessure, mentre mi agito nella ricerca delle parole adatte a definire il mio matrimonio. Poi mi balza agli occhi l’immagine di Gianfranco che mi bacia a labbra chiuse quando torna dal lavoro: «Tenerezza».

«Buon per te, allora.»

Con la mano libera riprende ad arricciarsi il ciuffo ribelle. «Sai, non era bello, più basso di me, con un gran naso. Ma era divertente, riusciva a stupirmi.»

Mio marito in questi ultimi anni si è appesantito parecchio, ma quando l’ho conosciuto era un gran bel ragazzo. Imprevedibile no, non lo è mai stato. Nemmeno particolarmente divertente. Ma profondamente buono, una persona seria. Ma cosa importa tutto questo a Micaela? Lei vive a Disneyland, dove i matrimoni, le relazioni, le responsabilità sono scherzi del castello incantato.

«Solo divertente?» ribatto gelida. «Ti bastava questo? Hai sempre vissuto all’insegna della dispersività, dell’improvvisazione. Potevi avere tutto dalla vita e invece? Ti trovi sola e senza un soldo.»

«Tranquilla, sorellina, me la caverò in qualche modo. A dire il vero non mi importa cosa sarà. Quando sei fuori di testa e te la fai addosso fa differenza se hai un marito e il conto in banca o no? Ho vissuto come volevo. Male, secondo il tuo punto di vista e probabilmente hai ragione, ma non avrei potuto vivere in nessun altro modo. Le famiglie del Mulino bianco non fanno per me. E comunque stai tranquilla, non verrò ad Ancona a scombinare l’ordine costituito.»

«E adesso? Non hai nessuno? Che so, degli amici.»

Ha appoggiato una mano sul letto, dalla bocca espira anelli di fumo e fissa con aria trasognata un punto invisibile dietro di me: «Amici? No. Non c’è nessuno al momento che mi interessi frequentare. Sai, il collegio è stato… formativo. Ho imparato molte cose in quei due anni. Non solo a prepararmi le sigarette. Ho imparato per esempio che sono l’unica persona con cui vado veramente d’accordo».

«Avevi ancora tutta la vita davanti!»

Micaela solleva le spalle, fa un mezzo sorriso e spegne la cicca in un bicchierino di plastica colmo d’acqua che si trovava sul comodino.

«È così. Ma che bell’anello!»

La sua attenzione è saltata come un grillo da problemi esistenziali al brillante infilato al mio anulare, regalo di Gianfranco per i trent’anni di matrimonio.

«Stavamo affrontando argomenti un po’ più seri, mi pare.»

«Agnese, tu prendi tutto alla lettera. Non vale la pena di prendere la vita sul serio. Passa così in fretta.»

Ma sì, meglio parlare d’altro. «Ti piace?» chiedo porgendole l’anello.

Lo contempla a lungo, tenendolo nel palmo della mano come se scottasse a toccarlo con le dita.

«È vero?»

«Certo che è vero. È un regalo di mio marito» preciso con orgoglio.

Me lo restituisce. «E brava Agnese! Era proprio quello che volevi. Non è così?»

Non ho capito se si riferisce all’anello oppure al marito premuroso, alle figlie assennate e in generale ai binari sicuri su cui scorre la mia vita. Sto per replicare, ma lei ha di nuovo cambiato argomento: «Ma che eleganza! Sei diventata proprio una bella signora, di classe».

Ancora una volta riesce a spiazzarmi. Verifico se si sta prendendo gioco di me, con lei è una specie di reazione automatica, ma il suo tono ha la neutralità di una constatazione oggettiva.

«Ti sei conservata proprio bene, neanche un filo di grasso. Chi l’avrebbe mai detto quando eri una ragazzina!»

Scoppia in una risata. «Dio, ti ricordi com’eri grassa? Si faceva prima a saltarti che a girarti intorno. Perfino il viso era più largo che lungo, sì, era ovale nel senso sbagliato.»

Continua a ridere, gli occhi le si riempiono di lacrime.

Anche io vorrei ridere, ma non ci riesco: «Ho sofferto molto» le grido «Hai capito? Ho sofferto».

Micaela si blocca di colpo, si asciuga gli occhi col dorso della mano. «Hai sofferto?» chiede con genuino stupore.

«Non occorre essere un luminare della psicanalisi per intuire che un’adolescente obesa è infelice.»

«Macché infelice! A me parevi parecchio allegra. Di sicuro il dispiacere non ti aveva tolto l’appetito.»

Detesto il modo di Micaela di sottovalutare le emozioni, di ricondurre tutto al suo punto di vista. Un tempo subivo la sua personalità debordante, ora la guardo severa e sibilo: «Tu che ne sai?».

Le persone grasse sono sempre allegre. Avevo fatto mio questo luogo comune e mi ero cucita addosso un personaggio di spensierata ilarità, ma quando arrivai in prima liceo non riuscii più a far finta di essere allegra. Decisi che una taglia quarantadue valeva più di un quintale di spaghetti e di mille gelati tutti insieme e iniziai una dieta dissennata, consistente principalmente nel saltare i pasti. La disciplina acquisita sui banchi di scuola mi fu d’aiuto nel sopportare i morsi della fame e le tentazioni di gola. In compenso in meno di un anno raggiunsi la meta agognata e cominciai anch’io a indossare i pantaloni a campana a vita bassa. Ora mi invitavano alle feste di classe, ma a me non importava più. Anni di emarginazione avevano fatto dei miei compagni di scuola degli estranei.

Intanto Micaela si è alzata e sta frugando nella prima cassetta del comò. «Dove l’ho messa… ah, eccola!» esclama trionfante, mostrandomi una foto in bianco e nero. È di formato piccolo, con i bordi zigrinati, come erano le fotografie tanti anni fa. Noi due sul bagnasciuga, sullo sfondo un mare basso e piatto. Sul retro è scritto da mia madre: Rimini, agosto 1962. Dunque lei ha nove anni, io sei. Ci teniamo per mano. Micaela ha la frangetta, le trecce che le ricadono dietro le spalle e un’espressione da gatta infuriata, indossa una sorta di bikini con una fascia plissettata sul seno completamente piatto. Lo sterno esile, le ossa prominenti del bacino mettono in evidenza la sua magrezza. Io non le arrivo nemmeno alle spalle. Ho la testa reclinata di lato in una posa che da bambina mi era abituale, i capelli corti, arruffati, pieni di ricci e solo un paio di mutandine che mi arrivano in vita. Sono già paffuta, come dimostrano le pieghe sul petto e sulle cosce. Non ci assomigliamo per niente.

La Pensione Stella, dove ogni anno andavamo in villeggiatura, avrà avuto non più di otto camere. La nostra, un letto matrimoniale e due brande, era al primo piano, proprio davanti all’insegna al neon. Di notte la luce filtrando tra le stecche del rotolante abbassato proiettava sull’armadio una grata luminosa. Intorno all’edificio correva un giardino ombreggiato da un enorme pino marittimo e delimitato dalle macchie bianche e rosa dei fiori d’oleandro, con un dondolo sul quale ondeggiavamo furiosamente.

Sono flash quelli che mi tornano in mente, immagini rubate a un’infanzia remota: una spiaggia infinita e le corse sulla sabbia rovente per guadagnare il bagnasciuga, l’uomo che alle undici in punto passava con la sua cassetta di legno gridando «bomboloni caldi» e il sapore ineffabile della pasta fritta che si scioglieva in bocca e dei granelli di sabbia che scricchiolavano sotto i denti.

Nelle prime ore del pomeriggio, quando gli adulti riposavano in camera, all’imperversare di Guarda come dondolo Micaela e io ci esercitavamo in giardino nei passi del twist. Mi sembra di sentirle le parole di quella canzone, con la dizione marcata di uno scoppiettante Edoardo Vianello.

Guarda come dondolo, guarda come dondolo con il twist, divaricavamo le gambe e cominciavamo a ondulare sul busto. Con le gambe ad angolo, con le gambe ad angolo ballo il twist, alzavamo una gamba e la appoggiavamo a terra flettendoci sulle ginocchia. Sarà perché io dondolo, saranno gli occhi tuoi che brillano…, ci piegavamo in su e in giù, guardandoci negli occhi e ridendo.

«Dove l’hai trovata?»

«In casa del babbo e della mamma quando l’ho vuotata.»

I nostri genitori morirono nel ’99, a distanza di quindici giorni l’uno dall’altra, come se il tumore fosse contagioso. Avevo le bambine piccole, presi un’aspettativa dal lavoro e mi trasferii a Firenze lasciando a Gianfranco e ai miei suoceri il fardello della casa e delle figlie. Micaela era a Londra e arrivò in pratica per ricevere le condoglianze ai funerali. Poi io ripartii e lei rimase.

«Peccato che te ne sia andata subito» continua lei «è stato importante ritrovare le loro cose, un po’ come averli ancora vicini.»

«Io gli sono stata vicina quando erano vivi! Non sono scappata in Inghilterra.»

Venivano spesso a trovarmi, sempre più grigi, sempre più tristi. «Micaela l’hai sentita?» buttava là la mamma. «No.» «Lavora in una galleria d’arte, sai?» «Mi fa piacere per lei.» «Insomma, Agnese, perché sei così severa con lei?» «Non sono severa, mamma.» «Siete solo voi due. Quando non ci saremo più…» «Per favore, non preoccuparti. Non è successo nulla, davvero, solo che abbiamo preso strade diverse.»

«È stato meglio così. Per tutti» replica Micaela amara.

«Perché non ci sei tornata a Londra?»

«Prima ho dovuto vuotare la casa, poi ho conosciuto Stefano e sono rimasta.»

«Si chiamava Stefano?»

Annuisce. «Tanto non lasciavo nulla di importante a Londra.»

«Dio santo, Micaela, passi a Londra venti anni della tua vita, quelli che contano, e non lasci nulla? Si può sapere che ci hai fatto?»

«Un po’ di tutto, l’animatrice, la commessa, ho lavorato in una galleria d’arte, in un pub. In un pub soprattutto, gli ultimi anni ho fatto quello.»

«Servivi le birre.»

«Servivo le birre, sì, come la tua figliola serve i panini. Agnese, ti prego, proviamo a inventarci una comunione di idee e di intenti, almeno questi due giorni?»

Ha ragione. Basta. Per farmi perdonare e anche per garantirmi un pasto decente le propongo di andare a cena al ristorante, offro io, lei deve solo scegliere il posto. Si rianima, fruga nell’armadio e intanto passa in rassegna a voce alta le trattorie del centro che possono fare al caso nostro, anzi, al caso mio. Alla fine si presenta con una gonna troppo corta e con un paio di stivali lucidi, elasticizzati, che le fasciano il polpaccio.

Malgrado i buoni propositi non resisto: «Che ti sei messa?» sbotto indicandole le gambe.

«Ti piacciono? Sono vintage.»

«Ma usavano quarant’anni fa!»

«Meglio, così non ce l’ha nessuno.»