Le conseguenze dell’amore
Era davanti allo stadio, proprio all’altezza del sacrario dei partigiani fucilati che da bambina mi faceva tanta paura. Erano anni che non ci vedevamo.
Era appoggiato a una motocicletta, un piede a terra, l’altro sul poggiapiedi e parlava con un ragazzo tarchiato e molto muscoloso. Lo riconobbi da lontano. Si era fatto uomo. Più robusto, mi sembrò perfino più alto. I capelli tagliati corti gli conferivano un’aria virile.
Anche lui mi vide. Si schermò gli occhi con la mano per mettermi a fuoco controluce. Dopo che mi ebbe riconosciuta saltò a terra per venirmi incontro e mi abbracciò con trasporto.
Poi mi presentò al suo amico. A nessuno dei due sfuggì lo sguardo di apprezzamento che quello mi lanciò, tanto che Sergio si sentì in dovere di aggiungere: «Visto che cugina?». Lo disse quasi con orgoglio e mentre lo diceva mi passò un braccio intorno alla vita, quasi a far intendere che non ero territorio di caccia.
Credevo di averlo dimenticato, invece in quel momento capii che non mi sarei mai liberata di lui, che l’infatuazione infantile in tutti quegli anni era maturata nel distacco, fino a trasformarsi in amore.
Allora feci una cosa che non avevo mai fatto: cominciai a civettare col suo amico, a rispondere alle sue battute allusive con sorrisetti ammiccanti. Più andava avanti questo duetto, più Sergio si rabbuiava. A un certo punto si intromise bruscamente: «Dove stavi andando?».
«In facoltà.»
«Ti accompagno io.»
«È tua?» chiesi indicando la moto.
«Sì.» Si mise a cavalcioni e accese il motore. «Allora, vieni?»
Mi arrampicai sul sedile posteriore. Quando mi fui sistemata cingendogli la vita, mi prese una mano e disse: «Tu meriti di più».
Per tutta la primavera, l’estate, l’autunno io e Sergio continuammo a frequentarci. Ci vedevamo da soli, senza scadenze prestabilite. Capitava che in una settimana ci incontrassimo anche due o tre volte oppure che passassero quindici giorni prima che mi cercasse di nuovo. Per un tacito accordo era sempre lui a chiamare.
Ci incontravamo davanti allo stadio, nel punto in cui ci eravamo visti la prima volta, per evitare la seccatura di dover salutare i rispettivi zii. Mi aspettava appoggiato alla moto, mentre il ciuffo davanti, orrendamente sconciato nel periodo di leva, recuperava progressivamente la sua lunghezza originaria.
«Ciao, Titta» diceva usando il nomignolo con cui mi chiamava da bambino e mi stampava un bacio sulla guancia.
Andavamo al cinema o a mangiare una pizza o semplicemente passeggiavamo. In quei mesi parlammo di tutto.
Tornava continuamente al servizio militare, come se quell’esperienza, appena trascorsa, l’avesse segnato: «Il CAR è stato terribile, non puoi immaginare. Le guardie, il nonnismo… fortuna poi che mi hanno preso in Aeronautica. Lì sopravvivi».
Eravamo appoggiati alla spalletta dell’Arno, intenti a leccare un gelato che si scioglieva troppo in fretta. Mentre tentavo di raccogliere con la lingua la crema alla nocciola che colava lungo il cono, mi raccontò della scuola di controllore di volo e delle notti passate davanti al monitor a seguire la rotta degli aerei. «Mi piaceva, ma ora basta. Dal mese prossimo entro alla S.M.A.»
«La S.M.A.?»
«La fabbrica di radar. Vado a fare l’operaio.»
«E l’università? Il partito?»
Fece spallucce. «Sono stanco di parole. Voglio vivere tra gli operai, essere uno di loro. Solo così potrò difendere i loro diritti.» Davanti al mio sconcerto fece un sorriso ironico. «Ti stupisce?»
«No, no» mi affrettai a rispondere. «Anche io sto con gli operai.»
«Tu sei figlia di un preside e di una pianista, io di una sarta e di un ferroviere. A ognuno il suo posto.»
Il mio posto è con te, avrei voluto gridare, invece mi appigliai al primo pretesto che mi passò per la mente: «La zia ci resterà male».
«Ah, di sicuro, ma dovrà farsene una ragione.» Sorrise. «Fosse per lei porterei ancora i capelli tagliati a caschetto! Mi spiace, ma sono stufo di stare sull’attenti. Lo sono stato fin da bambino, con mia madre, con i dirigenti di partito, con il capitano.» Addentò con decisione il cono biscotto: «Ora decido io».
Restammo in silenzio a masticare. Poi lui mi urtò col gomito: «Certo, non è come fare l’astronauta… del resto neanche tu farai la ballerina».
«La ballerina?»
In un primo momento non capii di cosa stesse parlando. Poi mi tornarono alla mente il cortile di via Marconi, il pane con l’olio, noi tre a sognare del futuro.
«Certo, la ballerina! Io volevo essere una delle Kessler e tu Gagarin.»
Ridemmo a lungo quel pomeriggio rievocando episodi che si erano persi nella memoria e che riaffioravano, uno dietro l’altro, come gli gnocchi di patate quando vengono a galla nell’acqua in ebollizione.
Caddi in una sorta di trance demenziale, come tutte le persone innamorate: espressione trasognata, farfalle nello stomaco, scariche di dopamina che mi attraversavano al solo pensarlo. Come tutte le persone innamorate abbandonai ogni obiettività nei suoi confronti. I difetti diventavano virtù, le lunghe attese davanti al telefono a cui talvolta mi condannava, lungi dal provocare qualsiasi risentimento, accrescevano il mio desiderio. Persi tre chili.
Prima di un appuntamento entravo in agitazione. Mi provavo tutto il guardaroba e niente mi pareva all’altezza, mi lavavo e rilavavo i capelli, cercavo di assumere davanti allo specchio pose fatali.
Micaela mi osservava con un sorriso condiscendente: «Esci con Sergio?».
«Sì, vieni anche tu?» Le proponevo per farle credere che non era importante.
«Grazie, ho da fare. Salutamelo.»
Tiravo un sospiro di sollievo e correvo da lui.
Aveva conservato il vezzo di mandarsi indietro il ciuffo biondo, o quello che ne rimaneva, con un gesto negligente della mano. Malgrado fosse molto alto camminava con l’eleganza di un attore di Hollywood. Per lui avrei buttato nel cesso tutti i miei slogan femministi, mi sarei distesa ai suoi piedi come uno zerbino e gli avrei detto: «Portami con te in culo al mondo!».
Purché mi baciasse.
Invece non mi baciava. Usciva volentieri con me, gli piaceva confidarsi, si accorgeva se avevo un vestito nuovo o avevo cambiato pettinatura. Ma non mi baciava.
Bastava che mi sfiorasse la fronte con due dita per scacciare un moscerino o che, camminando, i nostri corpi si urtassero perché un brivido mi attraversasse dalla testa ai piedi.
«Ce l’hai il ragazzo?» mi chiese un giorno.
«No.»
«Strano.»
«Che c’è di strano?»
«Strano che una ragazza come te sia sola. Chissà quanti ti fanno il filo!»
Arrossii violentemente. Incredibile quanto si diventi ridicoli quando si è innamorati.
«Ho altro per la testa» risposi, girando il viso per nascondere il turbamento.
Sergio non indagò sulla natura di quell’“altro” che mi occupava la mente, il corpo e le viscere fino alla più intima fibra, né io gli chiesi se lui ce l’avesse la ragazza o cosa facesse quando non era con me. Però ricamai parecchio su quelle parole buttate là, trasformandole in un film a lieto fine sempre più ricco di particolari.
Capitava che lo vedessi dopo giorni di solitarie fantasie romantiche che avevano nutrito le mie aspettative, sicura che questa volta nell’oscurità della sala, alla scena del fatidico bacio, avrebbe allungato la mano ad accarezzarmi la coscia, io mi sarei girata verso di lui e avremmo intrecciato le lingue. Musica, titoli di coda.
Ogni volta mi consolavo dicendomi che il suo procrastinare il momento fatale era una prova di serietà.
Era un’attesa estenuante che si gonfiava di promesse a ogni incontro, si afflosciava a ogni commiato sotto il portone col bacetto sulla guancia per rinnovarsi all’appuntamento successivo.
Mai, neppure con Gianfranco, ho provato quella sensazione esaltante e dolorosa di eccitazione continua. La mia anima era in stand by e si accendeva davvero solo quando ero con lui. Vivevo dentro la bolla di un’ossessione, indifferente perfino alle tumultuose vicende di quel tempo.
Un giorno di marzo ci incontrammo al solito posto. Aveva un’espressione strana. Era un pomeriggio ventoso di marzo.
«Andiamo al cinema?» proposi. C’era un film di Woody Allen che volevo vedere. I suoi film sono pieni di baci.
«Non mi pare il momento giusto» rispose secco.
«Che hai? È successo qualcosa?»
«Non sai nulla? Non hai letto i giornali? Non hai sentito la radio?»
Non avevo letto il giornale, non avevo acceso la radio, avevo passato tutta la mattina a sistemarmi i capelli, a truccarmi, a scegliere l’abito adatto.
«Hanno rapito Aldo Moro, questa mattina, in via Fani. Hanno ammazzato gli uomini della scorta.»
«Chi?»
«Le Brigate Rosse, pare. È un attentato allo Stato, Agnese, nulla sarà più come prima.»
Pareva tornato il Sergio che militava nella CGIL. Mi vergognai della mia futilità.
Nei giorni che seguirono ci incontrammo spesso. Parlavamo dell’accaduto, tutta l’Italia non parlava d’altro.
«Tua sorella frequenta ancora quei balordi di Prima Linea?» mi chiese una volta nel corso di una di quelle conversazioni.
«Che c’entra mia sorella?»
«Non stava con quel… Luca?»
«E allora?»
«Era del gruppo, uno dei più fanatici.»
«Micaela non ha mai militato in Prima Linea.»
«Però simpatizzava con gli estremisti. Non è così? Scommetto che era tra quelli che hanno fischiato Lama.»
«Noi non l’abbiamo fischiato, eravamo lì per ascoltare» mi sono difesa di getto.
Sergio mi guardò stupito: «C’eri anche tu? Che ci facevi tra quei provocatori?».
«Non erano tutti provocatori, la maggioranza era lì come me per ascoltare. È stato il servizio d’ordine del sindacato a provocare» risposi parafrasando Micaela. Troppo tardi mi ricordai che all’epoca Sergio militava nella FGCI.
Lui si adombrò: «Che ne sai tu? Tu lo sai cosa si prova quando ti tirano le cinque lire e ti sputano addosso? E quelli sarebbero compagni? Di’ la verità, ti ci ha portato lei».
Sergio in quel momento non mi piaceva. Cercai di cambiare argomento: «Comunque Micaela non frequenta Luca da parecchi anni» garantii.
«Ah, su questo non ci sono dubbi.»
«Come fai tu a essere così sicuro?»
«Non lo sai? Luca è morto. Ha tentato una rapina in banca, proprio qua vicino. La polizia l’aspettava fuori, lui ha fatto l’atto di sparare e l’hanno seccato all’istante.» Scosse la testa «Ma ormai saranno tre o quattro anni.»
«Non ci credo! Luca non era un delinquente.»
«Dipende dai punti di vista. Comunque, se ti consola, l’ha fatto per finanziare il movimento.»
Restai stordita. In un flash mi apparve il viso di Luca, i capelli ondulati, i baffi e la barba scurissimi. Lo rividi, come se fossi in quella casa di studenti, accendere la sigaretta con le mani a coppa davanti alla bocca. Pensai quanto fosse assurdo morire così, a venticinque anni, per una causa che si alimentava di violenza e fanatismo. Soprattutto provai un terrore retroattivo per Micaela, per quello che avrebbe potuto diventare se avesse continuato a frequentarlo.
Il limite tra bene e male è labile, come tutti i limiti. Difficile comprendere quando fermarsi, mentre si vive il presente.
Soltanto ora, ripensando a quegli anni, ne colgo la portata destabilizzante. È stata la nostra guerra. Come tutte le guerre ha fatto morti e prigionieri e reso più precarie le nostre vite. Come in tutte le guerre sono stati concepiti bambini.
Eravamo all’oscuro di tutto, potevamo solo avanzare qualche ipotesi.
Eppure quella stagione oscura e turbolenta, forse perché è stata la mia stagione, mi appare più comprensibile di questo indecifrabile presente.
Una domenica di fine aprile andammo a Fiesole. Parcheggiammo la moto in piazza e ci inoltrammo a piedi nelle viuzze che salgono e scendono per la collina. A tratti, tra una villa e l’altra si apriva la distesa dei campi che degradano verso Firenze col loro esercito mite e disciplinato di ulivi. Era scattata da poco l’ora legale e il cielo era ancora chiaro, solcato da frange rosate. Vibrava nell’aria un profumo fresco di terra bagnata.
Di lì a poco il cadavere di Aldo Moro sarebbe stato trovato, rannicchiato come un feto cresciuto, nel bagagliaio di una Renault 4. Ma io avevo ventidue anni ed ero innamorata e in quella domenica di primavera che pareva non finire mai, tra i grappoli di glicine che traboccava dai muri, la vita mi pulsava nelle vene reclamando i suoi diritti a dispetto delle stragi, dei delitti e di tutti gli orrori.
Quando tornai dalle vacanze estive trovai Sergio cambiato. Era inquieto, come se qualcosa lo turbasse. All’improvviso si faceva ombroso.
«Che succede?» gli chiesi un giorno.
Rispose evasivamente, parlò di problemi con un collega, di segnalazioni alla vigilanza aziendale, di incomprensioni con gli altri delegati sindacali. Non capii nulla, tranne che era parecchio amareggiato. «Io non sono una spia, un delatore. Sono uno che prima di tutto difende le istituzioni democratiche. Che è quella faccia? Non preoccuparti, Titta, sono cazzate, non vale la pena neanche di parlarne.»
Ma a ottobre mi comunicò che intendeva lasciare il lavoro: «A gennaio forse a Roma c’è un concorso per controllori di volo. Ci provo».
«E se lo vinci dove ti mandano?»
«Più lontano possibile, spero.»
La bocca mi si riempì di saliva: «Avevi detto che volevi stare in fabbrica con gli operai.»
«In fabbrica non si respira più aria buona per me. Meglio prendere il volo.»
Sergio lontano, in una città e in una vita irraggiungibili, il cuore che si srotolava come un gomitolo senza capo e si aggrovigliava in mille nodi. Ero così affranta all’idea di perderlo di nuovo che non feci caso a quella frase sibillina.