Arezzo
I fari fendono ancora il buio, ma in alto si sta allargando uno squarcio di grigio livido che annuncia un’altra giornata di pioggia. Intravedo gli alberi e i cespugli di una campagna piatta sfrecciarmi di lato e intanto cerco di abituarmi al parlottio sommesso dall’altra parte. Mi tiro su, cerco di sgranchirmi braccia e gambe nell’esiguo spazio a disposizione.
Intanto Andrea parla, ha parlato nei dieci chilometri tra l’uscita dall’autostrada e Arezzo, parla mentre il furgone slitta intorno alle mura, imbocca la strada maestra in salita, fino a piazza Grande.
La luce di un giorno esanime conquista palmo a palmo lo spazio, scivola dalla loggia del Vasari in alto fino al pozzo dalla parte opposta. Si accendono di un colore mesto gli antichi palazzi di pietra, i merli ghibellini, i balconi di legno, i mattoni rossi del pavimento in discesa.
Svariati furgoni sostano nella piazza, ombre infagottate scaricano in silenzio mobilia e suppellettili. Parcheggiamo di lato e subito Andrea sposta il telone. Come a un tacito comando lui e Micaela iniziano a scaricare la merce. Vedo uscire dal camion quattro sedie, un cassettone, due inginocchiatoi, due candelabri alti da chiesa, un lavamani di ferro battuto, due capre e una lunga asse di legno e una serie infinita di piccoli oggetti. Vedo anche uscire la scatola di cartone riempita dalla zia. Lavorano rapidi, organizzati secondo uno schema che immagino ripetuto infinite volte. Lui scarica, lei sistema in un angolo della piazza. Mentre tira giù la merce Andrea parla della figlia più grande che a maggio farà la prima comunione. Parla di pranzo al ristorante, bomboniere, lista degli invitati, si lamenta dei costi da sostenere, del vestito che dovrà comprare e che non metterà mai più. E proprio ora che gli affari non vanno granché bene.
«Non fatela» risponde semplicemente Micaela.
«Cosa?»
«La comunione. Non fatela passare a comunione. Non siete nemmeno credenti.»
«Stai scherzando? La bambina ci tiene, è la sua festa. Si sentirebbe diversa.»
Io me ne sto in un angolo, stringendomi il giaccone contro il corpo.
«Qui non compra più nessuno» continua lui implacabile.
«Aspetta, magari c’è giro» lo consola mia sorella.
«Macché giro e giro! Chi vuoi che spenda oggi per roba come questa?»
È in piedi sul retro del furgone e brandisce un candelabro di legno dorato.
Non mi sfuggono le occhiate di rimprovero di Micaela perché non collaboro, ma me ne frego altamente. Dovrei essere sul Frecciarossa che mi riporta a casa, seduta su una comoda poltrona, col quotidiano in mano e un caffè fumante, invece sono al freddo e all’umido, preda di una sconclusionata e di un logorroico, con la schiena a pezzi, gli abiti sgualciti e macchiati, i capelli arruffati. Ad ascoltare le lamentele di un tizio sconosciuto, col tatuaggio e l’orecchino, che racconta di una bambina altrettanto sconosciuta che vuol fare la prima comunione come farebbe un matrimonio per non essere da meno delle compagne di classe.
«Gente che ha soldi ce n’è ancora» replica Micaela, lanciandomi provocatoriamente un’occhiata.
Il mio mister Hyde si ribella. Immagino di staccarmi dal muro, cingerle il collo con le mani e strozzarla lentamente. Ma sono troppo signora anche per replicare. So che le rode il fatto che non sia una morta di fame come lei. E comunque, un candelabro come quello non lo metterei in casa nemmeno se me lo regalassero.
«Quelli che hanno i soldi veri vanno dagli antiquari di via dei Fossi, non vengono qui» chiosa Andrea sconsolato.
Concordo in pieno.
Scende con un balzo dal furgone, ma le lamentele non sono finite.
«Ieri ho passato tutta la giornata al Pronto Soccorso. Senti che vita!»
«Perché, qualche problema?»
«La nonna. Non si voleva alzare dal letto. A forza di insistere l’abbiamo messa sulla sedia a rotelle e ha cominciato ad ansimare».
Si sarà scolata un paio di bottiglie di brandy anche lei?
«Pareva affogasse. Per fortuna non era nulla di grave. All’ospedale le hanno fatto tutti gli accertamenti. L’età, hanno detto.»
«Menomale» commenta Micaela con scarsa convinzione.
«Eh sì, menomale. Ma ci siamo presi uno spavento che non ti dico. Io gliel’ho detto al dottore: “Qui bisogna fare tutti gli esami, non pensate di tenerla in un angolo a marcire solo perché è vecchia”.»
«È la nonna dei bambini?» mi informo.
«No, è la nonna di mia moglie. Novantaquattro anni! Ma lucida, eh! Ieri per la verità non era proprio in sé, ti dico, ci siamo presi uno spavento… abbiamo pure temuto che morisse.»
«Be’, a quell’età bisogna metterlo in conto. Non ci sarebbe niente di strano.»
«Dio non voglia! Oggi con qualche accortezza si superano anche i cento anni.»
Non condivido questo accanimento, però apprezzo l’affetto e l’abnegazione per un anziano.
«Così vive con voi?»
«Certamente, da quattro anni. Quando ha compiuto i novanta le abbiamo detto: “Nonna, non puoi più stare da sola, a te ci pensiamo noi”. All’inizio non voleva, ma poi… Speriamo non si infermi del tutto. Federica fa già tanta fatica anche così. È una donna pesante, va lavata, vestita…»
«Perché non la mettete in una casa di riposo?»
Andrea mi guarda come se gli avessi proposto di farle l’iniezione letale: «Stai scherzando?».
«Che ci sarebbe di male? Tua moglie ha già tre bambini a cui pensare. E anche per lei, sarebbe più assistita…»
«Mai e poi mai! La nonna resta con noi! Che razza di proposta!»
Scarta una zuppiera sbrecciata e la depone per terra con delicatezza estrema, come se maneggiasse la nonna: «Fra la pensione e l’assegno di invalidità sono quasi milleseicento euro al mese. Quelli arrivano puntuali. Federica ha perso il lavoro, io guadagno e non guadagno, come faremmo senza?»
Mi attraversa l’immagine della nonna imbalsamata.
«Tu dici bene» continua intanto lui. «Micaela mi ha detto che lavori in una finanziaria.»
«Non esattamente.»
«Comunque ti occupi di aziende, di questa crisi ne saprai qualcosa.»
Di situazioni drammatiche col mio lavoro ne vedo parecchie. Fallimenti, delocalizzazioni, richieste disperate di prestiti bancari che non arrivano, capannoni abbandonati.
«Speriamo ci sia una ripresa» commento tanto per dire qualcosa.
Andrea intanto è tornato sul furgone. Lo vedo uscirne con uno spesso panno nero arrotolato sotto il braccio.
«Mi faccio un culo così.» Mima un grande cerchio con le mani. «Guadagno tre soldi e me li mangiano tutti con le tasse. Ecco, questo è lo Stato! Guarda, io ho sempre fatto il mio dovere, ci credevo nella politica, nel sindacato, ma ora basta!»
Stende il panno sul banco con mosse nervose: «Posso dire che mi sento preso per il culo? Lo posso dire? Faresti bene a riferirglielo ai tuoi amici».
Ai miei amici? Quali amici?
«A votare il sottoscritto non ci va più!»
«Mi sa che questa volta non ci vado neanche io» aggiunge Micaela.
Ripenso a quando passava le giornate al seggio come rappresentante di lista a incanaglirsi per un voto.
La fantasia al potere, dicevamo. In effetti la fantasia in questi anni non è mancata. Abbiamo digerito di tutto, ci siamo assuefatti alla politica-spettacolo, alle ruberie farsesche, all’incompetenza e al privilegio che allegramente trascinavano questo Paese alla deriva, ogni giorno più rassegnati, ciascuno sempre più chiuso nel proprio orticello. È il senso di appartenenza che è morto, constato con malinconia, e il suo è un funerale senza lacrime e senza fanfare.
«Non è così che risolviamo i problemi» tento di dire. Ma Andrea non mi sente nemmeno, è ripartito con la comunicanda che, a quanto pare, è grassoccia e con l’abito bianco sembra una meringa. All’argomento figlia sovrappone il lavoro, la palestra, che è il suo unico momento di svago, il furgone che ha i freni consumati, un vecchio amico che si è separato e mille altre questioni che non ascolto più.
Mi confermo nel sospetto iniziale: Andrea non è semplicemente un chiacchierone, è classificabile nella categoria dei logorroici puri. Entrambi possiedono una resistenza affabulatoria formidabile, ma mentre il primo, se riesci a bloccarlo, si interessa anche delle vicende altrui, il secondo è concentrato solo su se stesso. Il logorroico puro, malgrado le apparenze, è un animale solitario, cerca un pubblico, non un interlocutore.
Abbandono Andrea ai suoi discorsi e senza dire una parola mi avvio verso il bar sotto i portici, risoluta a concedermi quel caffè e quella fetta di torta a cui per due volte ho rinunciato.
A poco a poco la piazza sta assumendo la fisionomia che manterrà fino a sera. Ombre infagottate scaricano merce dai furgoni, allestiscono banchi improvvisati, espongono gli oggetti in vendita. Sulle tovaglie di panno scuro appaiono vasi colorati, pile di libri vecchi, stoviglie spaiate, trine ingiallite. Qualche cane al seguito degli ambulanti girella intorno, annusa in qualche angolo, alza la zampa e fa pipì.
Comprendo che esiste una gerarchia tra i banchi e che questa gerarchia non si manifesta attraverso la merce che espongono, ma in base alla posizione che occupano nella piazza: quelli di livello superiore sono sistemati lungo il lato in alto, sotto il porticato, al riparo dalla pioggia e su un pavimento in piano. Via via che si scende e il fondo si inclina, trovano posto, in ordine decrescente, i banchi più modesti.
È uscito un sole guardingo, pronto a battere in ritirata al primo avanzare dei nembi nemici. Ora che ho soddisfatto la carne posso anche affrontare mia sorella e il suo amico. Mi avvio giù per la discesa con umore un po’ meno tetro quando un tacco si impiglia tra due pietre del selciato. Maledizione! Faccio forza col piede, tiro indietro la gamba. Quello non cede. Resterò qui, piantata come un albero, mentre la piazza si svuota e calano le tenebre, oppure mi arrenderò a camminare scalza sui mattoni scivolosi finché Micaela per carità cristiana mi presterà i gommoni catarifrangenti con cui naviga nel mare della vita.
Finalmente vinco la prova di resistenza. Sento cedere lentamente il tacco, lo vedo scivolare fuori dalla morsa. Ma il gommino è partito, lo vedo farmi l’occhiolino tra le lastre.
Riprendo il cammino zoppicando. Non me la prendo più nemmeno, ho alzato bandiera bianca.
Da lontano li vedo agitarsi intorno a una coppia. Andrea sta indicando un inginocchiatoio posato al lato del banco, parla, naturalmente, questa volta, suppongo, dell’articolo esposto. Micaela traduce in inglese. I due poveretti mi paiono un po’ frastornati. Mi avvicino, perché sono curiosa di sapere come andrà a finire.
L’uomo si consulta in tedesco con la moglie. Va avanti così per un bel pezzo, mentre Andrea continua, per proprio conto, l’arringa in difesa dell’inginocchiatoio. Alla fine il tedesco chiede il prezzo. «Trecentocinquanta euro» spara lui.
L’uomo lo guarda con sorpresa sincera, poi scuote la testa.
Ne nasce una contrattazione estenuante, degna del suk di Marrakech. Finalmente trovano un accordo. Il tedesco apre il portafogli e ne estrae due banconote da cento euro e gliele porge.
«Grande affare italiano!» gli grida lui dietro mentre si allontanano con l’inginocchiatoio.
«Loro sì che sanno fare i propri interessi!» commenta sarcastico mentre ripone i soldi in cassa.
Non avverto odore di ricevuta.
Micaela invece è al settimo cielo. Mi viene incontro sorridente: «L’hanno comprato» mi informa con orgoglio indicando lo spazio vuoto accanto al banco.
Alzo le spalle, per non darle soddisfazione.
Anche Andrea mi si avvicina, deciso a raccontarmi la vendita nei minimi dettagli.
«Volete andare a pranzo?» lo interrompe mia sorella. «Resto io. Così parlate in trattoria.»
«No!» grido. «Andate voi. Io non ho fame.»
Li guardo allontanarsi, mentre mi aggiusto sulla sedia dietro il banco.
Per una buona mezz’ora non si avvicina nessuno. La piazza è quasi deserta; i venditori infreddoliti mangiano un panino ripiegati sulle sedie.
Poi si avvicina una signora con una bambina per mano. È interessata al carillon. Lo osserva a lungo, infine mi chiede se può aprirlo.
Annuisco.
Con grande cautela, come se maneggiasse un oggetto delicato e infinitamente prezioso, solleva lo scrigno e con l’altra mano apre il coperchio. Subito la ballerina inizia a volteggiare sul Valzer delle Candele. Si abbassa per permettere alla bambina di guardare. Mamma e figlia restano immobili, incantate. «Visto che bello?»
«È una ballerina classica?» mi chiede la bambina.
«Sta frequentando una scuola di danza» spiega la madre sorridendo.
«Sì, è una ballerina di danza classica» la rassicuro.
La piccola torna a concentrarsi sul carillon. È una bambina ragionevole e ben educata. Non pretende di infilarci le mani dentro, non strilla con gli occhi strabuzzati. «Lo voglio!»
Mi rivedo in camera della zia a bocca spalancata, combattuta tra il desiderio di toccare la ballerina e il timore di un rimprovero e sento per quella bambina sconosciuta una tenerezza sconfinata.
«Ti piace?»
Lei annuisce, poi guarda la madre. Quella scuote la testa, chiude il carillon e me lo porge con gentilezza. «Ringrazia la signora.»
L’espressione mesta della figlia mi commuove: «Se alla bambina piace lo prenda, le faccio un prezzo speciale».
Quella esita, guarda la figlia, poi il carillon, poi me: «Quanto costa?» chiede con tono scettico.
«Lei quanto è disposta a spendere?»
La donna mi lancia un’occhiata stupita.
«Dieci euro va bene?» propongo per chiudere la questione.
«Dieci euro? Certo che va bene! Ma lei è proprio sicura?»
Mi allargo in un gran sorriso: «Oggi gli affari sono andati bene. Così facciamo contenta questa ballerina».
Confesso che insieme al desiderio di accontentare la bambina esiste il piacere perverso di fare un dispetto a mia sorella. Avvolgo il carillon in un foglio di giornale e lo porgo alla piccina.
Quando tornano Micaela e Andrea stringo ancora nel pugno la banconota da dieci euro.
«Tutto bene?» chiede mia sorella da lontano. «Fatto grandi affari?»
«Ho venduto un pezzo.»
«Hai venduto?» Poi si rivolge ad Andrea: «Visto? Noi due abbiamo sudato sangue per piazzare sottocosto un inginocchiatoio e lei in un’ora liquida tutta la merce. Quando si ha il senso degli affari! E che hai venduto?».
«Il carillon della zia.»
Micaela sposta lo sguardo sul banco dove al posto del carillon c’è una chiazza rettangolare.
«Non ti avevo detto il prezzo.»
«Ho fatto di testa mia.»
Vedo il sorriso spengersi sulle labbra: «Quanto hai incassato?».
Apro la mano mostrando la banconota.
Micaela ha un sussulto. Diventa paonazza, poi mi si piazza davanti con le mani sui fianchi: «Sei impazzita? Dimmi che non è vero!».
La sbircio di sotto in su facendo la faccia da scema. Cosa si prova a essere vittima anziché artefice di uno scherzo? Le chiedo dentro di me. Faccio un sorrisetto finto ingenuo: «Perché?».
«Mi prendi in giro? Quel carillon valeva almeno settanta euro.» Si gira verso Andrea, con gli occhi lucidi: «Era un pezzo unico, anni Cinquanta, perfettamente funzionante». Poi torna a me: «L’hai fatto apposta, vero?» sibila.
«Ma che dici, Micaela! Cosa vuoi che sappia lei di modernariato» si intromette lui per placare gli animi.
Ma mia sorella in questo momento vede solo me. Nei suoi occhi, che ora sono grigi, passano uno dopo l’altro rabbia, disprezzo, autocommiserazione.
«Certo che l’hai fatto apposta. Pensi che sia una buona a nulla, che stia qui a perdere tempo.»
«Mai detto nulla di simile» replico calma.
«È da quando sei arrivata che non fai altro che criticare: e come vivi con questi lavoretti? È tutto così precario» cita con voce contraffatta. «Bene! A me piace così.»
Alzo le spalle, fiera della calma che mi colloca parecchi gradini sopra di lei.
«Oppure pensi che sia invidiosa della tua squallida vita borghese?»
Questo non posso sopportarlo. Mi alzo di impulso, il viso vicinissimo al suo: «Come ti permetti di definire squallida la mia vita? Ma non ti vedi? La tua vita è squallida. Sei patetica, una vecchia patetica che gioca a fare la ragazzina».
Ormai gridiamo entrambe senza ritegno, mani sui fianchi, come due comari della Cavalleria rusticana.
Andrea si getta nel mezzo cercando di placarci: «Ehi ragazze, calmatevi. Ma che succede?».
Non lo vediamo nemmeno.
Gli ambulanti vicini ci guardano stupiti, qualche passante si è fermato a distanza di sicurezza e ridacchia. Andrea prende in mano la situazione. Afferra Micaela per un braccio e la trascina via: «Ora basta davvero, state dando spettacolo».
Lei si scrolla il braccio di dosso, mi lancia un’ultima occhiata torva e mi volta le spalle. Vedo la treccia fremere come un cimiero agitato dal vento di battaglia. Anche io mi giro ostentatamente dall’altra parte, ma con la coda dell’occhio la vedo estrarre da un sacchetto di carta una fiaschetta di metallo con lo stemma dell’Armata Rossa e portarsela alle labbra.