Bolzano. Ore 12 (Il giorno dopo)

Senza la luce dei lampioni l’aspetto è spettrale. La neve della notte non ha attaccato, è stata assorbita dal selciato che rimanda bagliori di umidità in cui si riflette un cielo fosco, gravido di pioggia.

Il commissario distoglie lo sguardo dalle teste dei pochi impavidi che si dirigono in fretta verso la chiesa e si concentra sulla valvola bloccata del termosifone. Appena tiepido, nessuna speranza di riscaldare quello stanzone del cazzo. Alza lo sguardo sulle volte ingiallite, appena rischiarate dalla luce fredda del neon, scende sul calendario dell’Arma che pende sbilenco da un chiodo.

Il raffreddore si è trasformato in influenza. È montata durante la notte palesandosi con colpi ripetuti di tosse, brividi di freddo alternati a vampe di calore, naso otturato.

Il commissario si stringe al collo la sciarpa verde. Avrebbe dovuto restare a letto, questo avrebbe dovuto fare, prendere altre due aspirine e infilarsi sotto le coperte. Ma se fosse restato a letto non avrebbe potuto seguire gli sviluppi della situazione, sviluppi interessanti che inchiodano le ragazze, anzi, la ragazza alle sue responsabilità. E se da un lato è soddisfatto della sua perspicacia, dall’altro si duole che la faccenda sia peggiore di quella che aveva immaginato e che la società in cui vive sia così radicalmente contaminata. Apre la pratica sulla scrivania con un sospiro lungo.

Un colpo di tosse lo fa girare: sulla porta l’agente Capuozzo fa scudo col suo corpo alle due ragazze. Si è rasato e pettinato all’indietro i capelli, luccicanti di brillantina.

Si fa di lato e le sorelle entrano in silenzio, prendendo posto sulle sedie nella posizione esatta del giorno prima.

Sono pallidissime, occhiaie scure. Hanno avuto una nottataccia anche loro, pensa il commissario.

«Volete un caffè?»

Quelle fanno cenno di no. Mute, impietrite. Per fortuna non c’è aria di lacrime.

«Questa situazione è molto incresciosa anche per me. È mia intenzione concludere al più presto questo colloquio.»

Le ragazze annuiscono, ma è evidente che non gli credono.

«Prima arriviamo a una conclusione e meglio è per tutti. Oggi, a mente fresca, sarà più semplice ricostruire i fatti. Avete riposato?»

Di nuovo quelle annuiscono ma, di nuovo, stanno mentendo.

«Allora cerchiamo di capire come sono andati davvero i fatti ieri mattina.»

«Ora vi faccio piangere.» Quella frase scherzosa che si era rivelata drammaticamente profetica martellava nelle orecchie come una campana a morte.

Era partito, ridendo, zigzagando platealmente tra le cunette di neve fresca. L’avevano visto di spalle, la giacca a vento blu, il cappuccio tirato sulla testa, svanire nel biancore ovattato.

«Ora vi faccio piangere.» Erano state le sue ultime parole. Era partito a razzo e sparito nel nulla, mentre loro due gli gridavano dietro «Spaccone, così non vale!».

Poi un tonfo soffocato, uno schianto.

Erano volate, si erano immerse a loro volta nella nebbia indistinta, ancora ridendo, ancora sostenute dalla voglia matta di celebrare un trionfo.

L’avevano visto quasi subito, al bordo.

I cataclismi hanno la misura assoluta del silenzio in cui si producono. Loro due chinate in avanti, gli sci ai piedi, le racchette in mano, lui disteso con le braccia allargate, una gamba piegata in modo innaturale sotto lo sci, l’altra libera e buttata di lato. La neve che cadeva sempre più fitta e tutto intorno la distesa infinita, perlacea, che non lasciava intravedere il confine fra la terra e il cielo.

«Dài, non fare lo stupido. Alzati!»

«Ora basta. Il gioco è bello quando dura poco.»

I richiami scherzosi si erano a poco a poco disfatti in un presentimento cupo. Si erano chinate, l’avevano scrollato, sempre più forte, l’avevano chiamato, sempre più forte. Lui le fissava con la testa leggermente piegata e lo sguardo attonito e un rivolo di sangue era colato dall’orecchio sinistro e si era allargato come un papavero sulla neve immacolata.

Allora avevano chiesto aiuto, sì, dovevano aver chiesto aiuto, era arrivato qualcuno, poi i soccorsi. Avevano volato sugli sci per non perdere la barella portata a braccio giù per la pista. Poi l’attesa angosciosa su una panca davanti a una porta chiusa, la corsa, strette nel sedile posteriore di una gazzella della polizia.

Il commissario ha abbassato la testa, saggia con la mano la ricrescita della barba. Ha il naso irritato e la voce arrochita. La sciarpa di lana grossa resta impigliata nei peli duri della barba. La scosta, la allenta e posa di nuovo lo sguardo sulle due ragazze.

«È stata ricostruita la dinamica dell’incidente» spiega. «Il signor Bottai andava a velocità sostenuta su neve fresca e non battuta. Su una cunetta lo sci destro si è staccato, lui ha perso il controllo, è caduto a terra ed è rotolato verso il margine del sentiero, sbattendo con forza la testa contro il tronco di un albero reciso. È morto sul colpo per emorragia cerebrale.»

La più giovane scoppia, tanto per cambiare, in un pianto dirotto, rumoroso. L’altra si copre il viso con le mani e piange sommessamente. L’agente Capuozzo resta con le dita sospese sulla tastiera e si agita sulla sedia.

«Perché quella scommessa? Perché il fuori pista? Presumo che fosse tutto calcolato.»

La maggiore toglie le mani dal viso, lo scruta con sincero stupore: «Ma che dice? È stato un incidente».

«Ne è davvero sicura?»

Adesso la ragazza ha proprio perso il controllo. Si alza in piedi, gli punta un dito contro: «Cosa vuole insinuare? Certo che è stato un incidente».

Anche l’agente si è alzato in piedi, un rivolo di sudore luccicante sulla tempia, muove lo sguardo, allarmato, dalla ragazza al suo superiore.

Il commissario invece resta impassibile, come se quell’aggressione non fosse rivolta a lui.

«Come può anche solo metterlo in dubbio? Perché questa persecuzione?»

Il commissario picchietta con la punta delle dita sulla cartina del comprensorio sciistico. Quando finalmente quelle cessano di schiamazzare dice lentamente e scandendo bene le parole: «Non è stato un incidente. Il signor Bottai non sarebbe caduto se qualcuno… – guarda con intenzione la ragazza – se qualcuno non avesse manomesso gli attacchi degli sci».

Attende che la rivelazione si depositi e sortisca la giusta impressione.

«È stato accertato che l’attacco dello sci sinistro era stato deliberatamente allentato. Nell’impatto con la neve fresca si è staccato dallo sci, provocando la caduta.»

Le ragazze lo fissano incredule. Quando finalmente si riprendono dallo stupore la minore balbetta: «Gli attacchi si sganciano automaticamente in caso di caduta».

«Non in questo caso, signorina. Se le cose fossero andate come dice lei, si sarebbe sganciato solo lo scarpone e l’attacco sarebbe rimasto agganciato allo sci. Invece è stato proprio l’attacco ad andarsene per primo. Lo sci è stato rinvenuto molto più lontano, a valle, mentre l’attacco è rimasto nel punto della caduta, conficcato nella neve. Mi sono informato: questo può succedere esclusivamente nel caso che le viti siano molto allentate. Volete constatare voi stesse?»

Occhi sbarrati, muscoli contratti.

«Sarebbe caduto comunque. Chi ha allentato le viti sapeva bene che, con il movimento, l’adesione non avrebbe retto. Forse senza il fuori pista la caduta sarebbe stata posticipata, forse senza il tronco non avrebbe avuto l’esito drammatico che sappiamo… Però non è questo il punto. Quello che dobbiamo scoprire è chi ha allentato di proposito le viti.»

«Chi avrebbe potuto…» chiede la maggiore incredula.

«Avete detto che nessun altro eccetto voi aveva accesso al luogo in cui tenevate gli sci. Perciò…»

«Cosa vorrebbe insinuare?» Gli occhi della ragazza sono come lame metalliche.

«Mi limito a constatare i fatti.»

«È assurdo. Non intendo continuare oltre senza un avvocato.»

L’altra non apre bocca. Oscilla col busto avanti e indietro sulla sedia, tenendo le braccia intrecciate sullo stomaco.

Da questo momento ogni domanda cozza contro un muro di ostinata omertà. Le due restano sigillate nel silenzio, gli occhi bassi, in una gara estenuante di resistenza.

È la maggiore che interessa al commissario, è lei ora che sottopone al fuoco di fila delle sue domande: «Quando ha manomesso gli sci?», «Chi le ha suggerito di farlo?». Lei resta immobile, dura. Alla fine lui estrae da un cassetto un pacco di volantini e lo fa scivolare sul piano della scrivania fin sotto gli occhi della ragazza: «Di questi cosa mi dice?».

Lei lancia un’occhiata fugace, scuote la testa mentre il sangue defluisce dalle guance.

«Sono stati rinvenuti nel suo zaino, sotto la panca del Pronto Soccorso. Vuole spiegarmi?»

«Non ho niente da spiegare. Voglio un avvocato.»