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Così quel mattino alle sei e mezzo scesi barcollando dal letto
per andare a fermare la sveglia elettrica che stava sul tavolo.
Compiuta quest’operazione, mi misi all’opera per farmi bello. Alle
sette e mezzo ero in cucina, nel mio angolo, intento a fare
colazione. La macchina cominciava già a funzionare. Clara Fox aveva
detto a Fritz di aver dormito come un ghiro e ora stava facendo
colazione con Wolfe. Keems era arrivato presto, lui e Saul erano in
sala da pranzo e facevano man bassa di un piatto di frittelle. Per
mezzo del telefono avevo tirato giù dal letto Morley dell’ufficio
del procuratore distrettuale, e Wolfe gli aveva parlato. Morley era
quel tale che avrebbe perso il posto, se non qualcos’altro, se
Wolfe non lo avesse tirato fuori dai guai nella faccenda
Banister-Schurman, circa tre anni prima.
Mentre mangiavo, scorrevo sui giornali della mattina il resoconto
dell’assassinio di Scovil. La stampa non dava molto rilievo
all’avvenimento, ma i resoconti erano abbastanza completi. La
versione corrente era che Scovil fosse un “gangster” di Chicago, il
che mi fece sorridere. I punti essenziali però erano esposti
fedelmente: non era stata trovata alcuna arma. La vettura era stata
rubata a un rappresentante di cosmetici che l’aveva lasciata in un
posteggio della Ventinovesima Strada. Il più vicino testimone
oculare era un tale che camminava una decina di metri dietro Scovil
ed era stato lui che aveva preso nota della targa della macchina,
prima di correre a mettersi al riparo quando erano incominciati a
volare i proiettili. Nella semioscurità non aveva potuto veder bene
l’uomo al volante, ma era sicuro che si trattava di un tale col
cappello calato sugli occhi e con un soprabito scuro dal bavero
rialzato; il testimone affermava che non c’era nessun altro nella
macchina. Dopo il delitto, l’automobile aveva attraversato
velocemente la Trentunesima Strada e aveva voltato l’angolo. Non si
era trovato nessuno che l’avesse vista nel momento in cui era stata
lasciata nella Nona Avenue, dove era stata trovata più tardi.
Niente impronte digitali… eccetera, eccetera.
Quando Fred e Orrie arrivarono, li feci entrare e, dopo che ebbero
prese le loro istruzioni da Wolfe, distribuii il denaro per le
spese a tutti e quattro e li mandai fuori. L’assedio continuava.
Davanti all’ingresso principale della casa c’erano due poliziotti
ora, uno dei quali aveva circa la corporatura di Charles Laughton,
prima che si desse al cinematografo. Tutti quelli che entravano o
uscivano venivano squadrati ben bene dalla testa ai piedi. Ottenni
la comunicazione con Londra e Wolfe parlò dalla sua camera con
Albert Hitchcock che era il suo migliore informatore sull’altro
continente. Telefonai a Murger per avere le copie di “Metropolitan
Biographies”, che furono consegnate in un quarto d’ora. Le portai
su nella serra, perché Wolfe aveva detto che le avrebbe esaminate
dopo le nove. Ridiscesi e telefonai a Barber, l’avvocato sul quale
potevamo contare per tutto, eccetto che per dividere degli utili, e
gli raccomandai di tenersi disponibile per qualunque momento della
giornata, aggiungendo che gli affidavamo gli interessi della
signorina Clara Fox per due azioni legali: un’azione civile per
esigere un credito dal marchese di Clivers e un’azione penale
contro Ramsey Muir, per danni in conseguenza di una falsa accusa.
Lo avvertii che nella prima azione era cointeressata anche la
signorina Hilda Lindquist.
Finalmente avevo un momento di libertà; salii al secondo piano e
andai a bussare alla porta della camera a mezzogiorno annunciando
il mio nome. La ragazza disse “avanti” e io entrai. Stava seduta in
una poltrona presso un tavolino ingombro di libri e di riviste,
nessuno dei quali però era aperto. Poteva darsi benissimo che
avesse dormito come un ghiro; ma aveva gli occhi stanchi. Mi guardò
accigliata.
— Non dovrebbe star seduta così vicino alla finestra. Dato
l’accanimento con cui la cercano, potrebbero anche prendersi il
disturbo di guardar dentro dalle nostre finestre dal tetto di
quella casa della Trentaquattresima Strada.
Lei si alzò e io spinsi la poltrona e il tavolino verso il letto. —
Di solito, non sono pauroso, ma questa volta mi pare che stiamo
giocando una carta pericolosa.
— Voi non approvate, è vero, signor Goodwin? L’ho capito fin da
ieri sera. Nemmeno io approvo.
Le sorrisi. — Ahimè, il fatto che lei o io non approviamo, non
cambia nulla. Nero Wolfe ha già fatto i suoi piani e le nostre
parti nella commedia sono già stabilite. Cerchi solo di seguire
fedelmente le sue istruzioni.
— A me non sembra una commedia — fece la ragazza accigliandosi di
nuovo. — Un uomo è stato assassinato ed è colpa mia. Non mi piace
nascondermi… non voglio nascondermi… preferisco…
Feci un gesto di protesta con ambo le mani.
— Dimentichi le sue preferenze. È venuta per ottenere l’aiuto di
Wolfe, non è vero? Ebbene, ora deve lasciare che la aiuti come vuoi
lui. Per esempio è meglio non lasciare qui quel telefono
nell’angolo. — Staccai la spina, arrotolai il cordone e mi misi
l’apparecchio sotto il braccio. — Fin da quando andavo a scuola ho
imparato che esiste una certa cosa che si chiama impulsività
femminile. Ma ecco che suona il telefono dello studio. Non apra
questa porta e non vada accanto alla finestra.
Scesi le scale a due gradini per volta. Era Morley che aveva
qualcosa da raccontare. Aveva incontrato qualche difficoltà ad
assolvere l’incarico che Wolfe gli aveva affidato. La faccenda di
Clara Fox era nelle mani del vice procuratore distrettuale, un
certo Frisbie, che Morley conosceva poco; Frisbie non si era
mostrato molto propenso a sbottonarsi, tuttavia Morley era riuscito
a sapere qualche particolare. Nel pomeriggio di lunedì erano stati
spiccati due mandati: uno di cattura per Clara Fox e uno di
perquisizione per il suo appartamento. L’appartamento non era stato
perquisito, perché gli agenti, dietro l’ordine di Frisbie, erano
andati dapprima alla rimessa dove la ragazza teneva la sua
utilitaria e avevano trovato, nella macchina, avvolti in un
giornale, sotto il sedile posteriore, i trentamila dollari rubati
alla compagnia Mercantile. Le autorità consideravano che ormai non
vi fosse più alcun dubbio sulla colpevolezza della ragazza. Gli
uomini di Frisbie non erano più in possesso del mandato di cattura,
perché questo era stato passato all’ispettore Cramer dietro
richiesta del Capo della polizia.
Ringraziai Morley e riappesi il ricevitore, poi salii nella serra e
riferii la triste storia a Wolfe. Quando ebbi finito disse:
—Avevamo torto, Archie. Non sono iene. Le iene aspettano che la
loro vittima sia morta. Chiami il signor Perry al telefono, mi
passi la comunicazione quassù, ma ascolti anche lei e prenda
nota.
Perry disse che era molto occupato, e che sperava che Wolfe potesse
sbrigarsi in fretta. Wolfe disse che lo sperava anche lui e che
innanzi tutto desiderava sapere se, per caso, non avesse frainteso
quel che Perry gli aveva detto durante il colloquio di lunedì.
Aveva creduto di capire che Perry credeva all’innocenza della
signorina Fox, che era contrario a ogni passo affrettato e che
desiderava un’indagine completa e accurata. Perry disse che era
proprio così. Il tono di Wolfe si fece aspro.
— Ma lei ha saputo soltanto dopo le sette di ieri sera che io non
intendevo intraprendere le indagini per lei, mentre il mandato di
cattura a carico della signorina Fox è stato spiccato un’ora prima.
Non le sembra di aver precipitato un po’ le cose?
A giudicare dal tono, Perry sembrava imbarazzato.
— Ecco… precipitato… sì, forse, certo, l’azione è stata alquanto
accelerata. Vede… mi ha chiesto ieri se non sono io la fonte di
giustizia di questa organizzazione. Fino a un certo punto lo sono,
sì. Ma bisogna sempre tener conto… ehm!… dell’elemento umano. Io
non sono un imperatore né di fatto né per temperamento. Quando mi
ha telefonato ieri sera, mi ha forse giudicato un po’ troppo
brusco… a dire il vero, ero tentato di richiamarla per farle le mie
scuse. In realtà ero afflitto e contrariato. Sapevo che il mandato
era stato spiccato dietro richiesta del signor Muir. Senza dubbio,
lei si rende conto della mia situazione. Il signor Muir è un alto
funzionario della nostra Società. Quando ho saputo più tardi, in
serata, che il denaro era stato rinvenuto nella vetturetta della
signorina Fox, sono rimasto sbalordito… non potevo crederci… ma che
cosa mi restava da fare? Sono rimasto così sorpreso.
— Davvero?— fece Wolfe sempre in tono secco. — Ora ha riavuto il
suo denaro. Intende procedere ugualmente nei confronti della
signorina?
— Non c’è bisogno che assuma quel tono, Wolfe. — Anche Perry
diventò un po’ brusco. — Le ho detto che non sono un imperatore.
Muir insiste perché si vada fino in fondo. Sarò franco con lei. Non
mi riesce di fargli cambiare idea…
— Insomma, lei e d’accordo con lui, ora, è vero? Una pausa.
— No… no, no, non ho detto questo. Io… io ho la massima…
comprensione per Clara… per la signorina Fox. Sarei ben lieto se si
potesse evitarle il trattamento che la giustizia le può riservare.
Per esempio, se ci fosse qualche difficoltà… se mancasse la cifra
necessaria per il deposito di garanzia, per ottenere la libertà
provvisoria, sarei lieto di sborsare… — La ringrazio. Per la
libertà provvisoria penseremo noi. Mi ha pregato di esser breve,
signor Perry. Innanzi tutto, le propongo di fare in modo che la
denuncia contro la signorina Fox venga ritirata immediatamente.
Secondo, desidero informarla di quali sono le nostre intenzioni,
nel caso che questo non venga fatto subito. Alle dieci di domani
mattina indurrò la signorina Fox a costituirsi e la farò liberare
immediatamente versando la necessaria cauzione. Lei inizierà
allora, senza indugio, un’azione contro Ramsey Muir e contro la
compagnia Mercantile chiedendo un milione di dollari di indennizzo
per falsa denuncia. Vede, qui non ci muoviamo più che per milioni.
Credo di poterle assicurare che non ci mancheranno gli elementi per
intraprendere quest’azione. Se la signorina Fox verrà processata
prima, tanto meglio. La assolveranno.
— Ma come può… è assurdo… se ha delle prove…
— Basta così, signor Perry. Tengo molto alla brevità. Buon
giorno.
Udii lo scatto del ricevitore che Wolfe appendeva. Perry stava
balbettando ancora qualcosa, ma riappesi anch’io. Gettai il
taccuino sulla scrivania, mi alzai, mi cacciai le mani nelle tasche
dei calzoni e mi misi a passeggiare per la stanza. Forse
borbottavo. Pensavo: “Se Wolfe vince la partita con le carte che ha
in mano è certamente più bravo di quanto lui stesso non creda, ed è
tutto dire”.
Il telefono squillò di nuovo. Mi sedetti alla scrivania e presi il
ricevitore sperando che fosse Perry che richiamava per offrire una
tregua. Invece il mio orecchio fu colpito dalla voce di basso di
Fred Durkin che, fra l’altro, sembrava molto irritato.
— Sei tu, Archie?
— Sì. Cos’hai trovato?
— Niente… peggio ancora… ascolta: ti sto chiamando dal posto di
polizia della Quarantasettesima Strada.
— Dal… che cosa? Dal posto di polizia? E perché?
— Perché diavolo credi che possa essere al posto di polizia? Sono
stato “un po’” arrestato. Feci una smorfia e trassi un profondo
sospiro.
— Bella trovata! — dissi digrignando i denti. — Bell’aiuto ci dai!
Continua.
La voce di Fred si fece piagnucolosa.
— E che ci potevo fare io? Mi hanno beccato alla rimessa quando
sono andato là per fare delle domande al custode. Dicono che ho
commesso qualcosa, quando ho preso la macchina ieri sera. Mi pare
che si stiano preparando a mandarmi da qualche parte… alla
Centrale, suppongo. Che cosa volevi che facessi? Dovevo forse
darmela a gambe? Mi avrebbero preso lo stesso. Adesso non avrei
potuto nemmeno telefonarti se, per un caso fortunato, il sergente
di guardia non fosse un mio amico.
— Pazienza. Se ti portano nell’ufficio del procuratore distrettuale
tieni le orecchie aperte e la bocca chiusa il più possibile. Ora
vedremo di toglierti dai guai.
— Sta bene. Senti… ti dispiace telefonare a mia moglie?
Lo rassicurai e riappesi il ricevitore. Sedetti, mi grattai il naso
per benino, poi salii le scale. Wolfe era ancora nel settore delle
piante tropicali. Continuò a tagliare i ramoscelli secchi e ascoltò
il mio racconto senza neppure voltare il capo. Riferii l’accaduto.
Disse: — Telefoni all’avvocato Barber. Può trovare Keems? No, non
può. Se per caso telefona, si ricordi che voglio parlargli.
Ridiscesi, telefonai all’ufficio di Barber e pregai l’avvocato di
mandare qualcuno alla Centrale di polizia per fare in modo che Fred
potesse dormire con sua moglie quella sera. Continuai le mie
funzioni di telefonista. Poco prima delle dieci, Saul telefonò e,
dall’apparecchio della serra, Wolfe ascoltò il suo resoconto,
mentre io prendevo nota dei particolari che Saul aveva raccolti da
Hilda Lindquist riguardo a suo padre che si trovava nel Nebraska.
La ragazza riteneva che se fosse salito su un aeroplano, suo padre
sarebbe morto di paura. A quanto sembrava, Saul aveva altre
istruzioni, perché Wolfe gli disse semplicemente di procedere. Poco
più tardi, Orde telefonò a sua volta e quel che riferì a Wolfe mi
consenti di intravedere un nuovo aspetto della situazione, aspetto
che ancora non mi era passato per la mente. Presentandosi all’acida
signorina Vawter come elettricista, lui era stato introdotto nella
sala delle riunioni della American Trade Company e aveva appurato
che, oltre alla doppia porta che avevo visto in fondo al corridoio,
c’era un’altra porta che dava su un corridoio esterno. Orrie
l’aveva potuta aprire dall’interno della sala e aveva constatato
che da quella parte si poteva arrivare direttamente agli ascensori
e uscire dallo stabile. Wolfe aveva detto a Orrie di aspettare e si
era rivolto a me: — Non ricopi a macchina questa parte del
resoconto di Orrie, Archie. Le note relative al resto le metta
subito in cassaforte. Mi lasci in comunicazione con Orrie e vada ad
accertarsi che l’altra linea sia libera. Aspetto una telefonata.
Quando Keems telefonerà, gli parlerò io; affiderò a Orrie le
commissioni che doveva fare Fred. Compresi a volo che il principale
non voleva confondermi le idee con le istruzioni che doveva
impartire a Orrie e appesi il ricevitore. Andai a mettere gli
appunti nella cassaforte, poi riempii la penna stilografica di
Wolfe e la provai… distrattamente, poiché il mio pensiero era
lontano… seguiva una nuova pista.
Non sapevo che cosa avesse orientato le ricerche di Wolfe in quella
direzione. Quella pista non era priva di interesse, ma c’era una
probabilità su cento di arrivare a risultati concreti… anzi,
riflettendo bene, dovetti concludere che c’era una probabilità su
un milione. Avrei forse continuato ad aumentare il numero delle
probabilità contrarie, se non fossi stato interrotto dal campanello
della porta. Andai nell’atrio, scostai la tendina della finestra
per vedere chi c’era ed ebbi una sorpresa. Era la prima volta che
la casa di Wolfe veniva scambiata per una chiesa, ma non ci poteva
essere altra spiegazione, poiché l’esemplare che stava davanti
all’ingresso era decisamente vestito come si conviene a un
testimone di una cerimonia nuziale. I due agenti se ne stavano
tuttora sul marciapiede e fissavano il testimone, come se
rappresentasse per loro un fenomeno inesplicabile. Tolsi il
catenaccio e tirai il battente, aprendo una fessura di cinque o sei
centimetri e lasciando la catena, poi in tono cerimonioso dissi: —
Buon giorno.
Il visitatore cercò di guardarmi attraverso la fessura, poi parlò,
con una voce da persona educata, quantunque fosse un poco
stridula.
— È questa l’abitazione del signor Nero Wolfe?
— Sissignore.
Lui esitò, si volse a dare un’occhiata ai poliziotti fermi sul
marciapiede, che continuavano a squadrarlo senza riguardi, poi si
avvicinò alquanto e, cacciando il naso nella fessura della porta, a
voce bassissima disse: — Mi manda lord Clivers. Desidero parlare
col signor Wolfe. Riflettei un secondo, poi tolsi il catenaccio e
aprii la porta. Lo sconosciuto entrò e io richiusi il battente
tirando il catenaccio. Quando mi voltai, se ne stava col bastone
appeso al braccio e si toglieva i guanti. Era alto circa un metro e
novanta, snello, ma non allampanato; poteva avere la mia età, aveva
la carnagione chiara e due occhi azzurri freddissimi. Era
indiscutibilmente vestito con troppa ricercatezza. Con un cenno lo
invitai a entrare nello studio e lo seguii. Frattanto gli avevo
comunicato che il signor Wolfe era occupato e che sarebbe stato
occupato fino alle undici, aggiungendo che ero il suo assistente di
fiducia e che mi tenevo a sua disposizione. Quando si fu
accomodato, mi guardò come se volesse accertarsi del mio diritto di
esistere, prima di entrare in conversazione con me.
Disse: — Dunque, lei è il signor Goodwin? Vedo. Forse sono andato
un po’ troppo in fretta… quando mi ha aperto la porta. Cioè… avrei
proprio bisogno di veder subito il signor Wolfe. Se vuole essere
tanto gentile… Mi chiamo Horrocks… Frank Horrocks.
Lo guardai. Dunque quello era il ganimede che comprava delle rose
con uno stelo lungo un metro. Feci descrivere un mezzo giro al mio
trespolo e premetti il bottone della serra. Un istante dopo udii la
voce di Wolfe e dissi: — C’è qui un tale che vuol vederla… il
signor Frank Horrocks. È mandato dal marchese di Clivers… Sì, nello
studio… Non gliel’ho domandato… Gliel’ho detto, certo… Va bene.
Riappesi il ricevitore e feci girare il trespolo in senso
inverso.
— Il signor Wolfe dice che potrà vederla alle undici, e che, nel
frattempo, può provare se le basto io.
— Avrei avuto piacere di vedere il signor Wolfe — disse il
giovanotto ricominciando a scrutarmi. — Tuttavia non sono che il
latore di un messaggio. Prima di tutto, però, desidererei… ehm…
desidererei spiegarle che sono qui in una duplice veste. La cosa
può sembrare complicata, ma in realtà non lo è. Sono qui, per così
dire, per scopi personali… e anche per scopi semi-ufficiali. Sarà
forse opportuno che dapprima faccia la commissione di lord
Clivers.
— Sta bene. Spari.
— Come ha detto? Ah, capisco. Lord Clivers desidererebbe sapere se
il signor Wolfe è disposto a recarsi da lui, al suo albergo. Si
potrebbe fissare un’ora…
— Su questo punto posso risparmiarle il fiato. Il signor Wolfe non
ha mai fatto visita a nessuno e non farà mai visita a nessuno.
— Che dice mai! Ebbene, lord Clivers desidera ardentemente
vederlo.
— Forse il signor Wolfe sarebbe lieto di parlare col marchese per
telefono…
— Ma il marchese preferisce non discutere questa faccenda per
telefono.
— Capisco. — Però stavo per aggiungere: “Oppure il marchese può
venir qui”. — S’intende che la parte legale della vertenza è nelle
mani del nostro avvocato.
Il giovane diplomatico se ne stava ritto sulla sua sedia, a braccia
conserte e mi guardava. Domandò: — Vi siete assicurati i servigi di
un avvocato?
— Certamente. Se si dovesse arrivare a un’azione legale, cosa che
spero si eviterà, non vogliamo perdere del tempo. Abbiamo saputo
che il marchese resterà a New York per un’altra settimana, cosicché
dobbiamo essere pronti per citarlo prima della sua partenza. —
Vedo. Questa si chiama franchezza. — Si mordicchiò le labbra e
reclinò leggermente la testa da un lato. — Mi pare che, per il
momento, non ci sia altro da dire. La vostra situazione è chiara.
Riferirò… è l’unica cosa che io possa fare. — Cambiò posizione
sulla sedia, come se fosse a disagio, e si schiarì la voce. — Ora,
se non le dispiace, abbandono la mia veste d’ambasciatore per
parlare di una questione di carattere privato. Mi chiamo Frank
Horrocks… — Sì, ho capito.
— Vorrei parlare con la signorina Fox… con la signorina Clara
Fox.
— Capisco benissimo il suo desiderio. Ho avuto il piacere di
conoscere la signorina. Parlatele pure. Lui corrugò la fronte.
— Se volesse essere tanto gentile da dirle che sono qui… Non deve
temere nulla. So benissimo che deve stare nascosta, ma io voglio
vederla soltanto per un momento. Vede, quando questa mattina mi ha
telefonato ho insistito per sapere l’indirizzo del suo rifugio. Ho
insistito molto. Confesso che lei mi aveva implorato di non venir
qui a cercarla, ma io non mi sono impegnato. Del resto, non si può
nemmeno dire che io sia venuto qui apposta per cercarla. Sono
venuto per una missione semi-ufficiale, che ne dice? Dal momento
poi che ero già qui, ho chiesto di vederla. Mi pare che non ci sia
niente di male.
Dopo il primo colpo, avevo ripreso il pieno controllo dei miei
muscoli facciali. Dissi: — Non c’è niente da ridire… per quanto
riguarda la sua richiesta… quanto poi a vedere la signorina è
un’altra faccenda. Deve aver sentito male l’indirizzo o forse si è
sognato questa telefonata. — Ma no, no davvero! — Si mise di nuovo
a braccia conserte. — Mi ascolti, signor Goodwin, veniamo al
dunque. Devo vedere la signorina Fox. Devo vederla come amico,
capisce?… per ragioni puramente personali. Su questo punto sono
assolutamente deciso.
— Bene, bene. La trovi. Qui non ha lasciato alcun indirizzo.
Il giovanotto scosse il capo, senza perdere la pazienza.
— Così non va, glielo assicuro. Non va. La signorina mi ha
telefonato. Si trova in difficoltà? Io non so nulla di preciso.
Bisogna che la veda. Se vuole dirle… Mi alzai.
— Dolente, signor Horrocks. Deve proprio andarsene? Spero che
troverà la signorina Fox. Dica al marchese di Clivers…
Quello rimase inchiodato sulla sedia, tornò a scuotere il capo e
corrugò la fronte. — Accidenti! Questa storia non mi piace! Mi
ascolti, suppongo che comprenda la mia situazione… io ho bisogno di
sapere come stanno le cose in realtà… se mi mette alla porta, non
potrò fare a meno di andare da quei poliziotti che stanno fuori e
dir loro che la signorina Fox mi ha telefonato da questo indirizzo
alle nove di stamane. Dovrei inoltre andare alla ricerca di un
telefono e ripetere immediatamente l’informazione alla Centrale di
polizia. Che ne dice? Lo guardai sconcertato e dovetti ammettere
che per il momento ero battuto. Non avrei saputo dire se mi trovavo
di fronte a uno sciocco irriflessivo e impulsivo o a un uomo astuto
e deciso. Dissi: — Mi aspetti qui. Salgo un momento dal signor
Wolfe. Resti in questa stanza. Lo lasciai, feci una corsa in cucina
e dissi a Fritz di vigilare e di gettare uno strillo se mai avesse
visto comparire un inglese sulla soglia dello studio. Poi misi le
ali ai piedi e salii al secondo piano; bussai alla porta della
camera a mezzogiorno e annunciai il mio nome con voce moderata.
Quando udii la chiave che girava nella serratura, aprii la porta ed
entrai. La signorina Fox stava davanti allo specchio intenta a
spazzolarsi i capelli; mi guardò con una espressione mezza
allarmata e mezza speranzosa. Dissi: — A che ora di stamane ha
telefonato a Frank Horrocks?
La ragazza mi guardò a bocca aperta. Avevo fatto centro.
— Ma io… lui… mi aveva promesso…
— Davvero? — Alzai ambo le mani con un gesto scoraggiato. —
Lasciamo andare. Mi dica piuttosto perché diavolo gli ha
telefonato. Spero che non si tratti di un segreto. — No, no. — Lei
misi avvicinò. — C’è proprio bisogno che faccia del sarcasmo? Non
c’era niente… era semplicemente una questione personale… Anzitutto
mi aveva mandato delle rose e poi… poi mi ero impegnata a cenare
con lui, lunedì sera. Quando ho preso l’appuntamento col signor
Wolfe ho dovuto ritirare la promessa fatta al signor Horrocks e
quando lui ha insistito per vedermi in serata, ho pensato che tre
ore sarebbero state più che sufficienti per il mio colloquio con il
signor Wolfe e gli ho detto che sarei andata con lui a ballare alle
dieci. Sapevo che probabilmente sarebbe andato a casa mia e avrebbe
aspettato chissà quanto tempo, poi questa mattina avrebbe tentato
di telefonarmi senza, naturalmente, ottenere risposta, né mi
avrebbe trovato all’ufficio. D’altra parte, non l’avevo ringraziato
per le rose… Alzai una mano. — Tiri il fiato. Vedo che in questa
faccenda c’è qualcosa di romantico. Sarebbe ancor più romantico se
il signor Horrocks venisse a farle visita in galera. Con la dose di
irriflessione di cui sta dando prova, avrebbe davvero potuto fare
l’avventuriera. Non so se le consti che, secondo ciò che dice un
articolo comparso nel “New York Times” di ieri, questo Horrocks è
nipote del marchese di Clivers e presunto erede del titolo.
— Oh, sì, lo so. Lui mi ha spiegato tutto…
— Ora c’è una cosa che non sa. Horrocks è giù al pianterreno, nello
studio, e dice che deve vederla, altrimenti si rivolgerà alla
polizia.
— Che cosa? Non è possibile.
— Possibilissimo.
— Ma non dovrebbe… mi aveva promesso… lo mandi via!
— Non vuole andarsene. Se lo butto fuori, quello mi chiama il primo
poliziotto che gli capita a tiro. Comunque non c’è via di scampo.
Lo porterò quassù e, per l’amor del cielo, cerchi di tagliar corto
e di lasciarlo ritornare subito da suo zio.
— Ma io… misericordia… — si diede un’altra spazzolata ai capelli. —
Non voglio vederlo. Non ora. Lei dice… però potrei… sì… scenderò io
e gli dirò…
— Niente affatto. Ancora un poco e lei vorrà andare a fare il giro
dell’isolato con lui. Rimanga qui.
Sul pianerottolo esitai un attimo domandandomi se non avrei fatto
bene a salire per mettere al corrente Wolfe della situazione, ma
decisi che non serviva a nulla contrariarlo. Ritornai da basso e,
passando per l’atrio, feci un cenno a Fritz di tornare in
cucina.
Trovai il giovane diplomatico nello studio, come l’avevo lasciato,
seduto, con le braccia conserte. Quando entrai, mi fissò
accigliato. Gli dissi di venire con me e lasciai che mi precedesse.
Aprii la porta della camera, mi scostai per lasciarlo passare e
quando fu entrato lo seguii.
Clara Fox gli corse incontro. Lui la guardò con un sorriso
stomachevole tanto era mellifluo, e tese la mano. La ragazza scosse
il capo.
— No, non voglio stringerle la mano. Non si vergogna? Mi aveva
promesso di non venire. Ha dato tutto questo disturbo al signor
Goodwin.
— Suvvia, non si adiri… senta… — La sua voce era cambiata, aveva
assunto un tono melato. — Dopo tutto deve capire che io sono stato
in ansia… Il suo aspetto mi preoccupa, ha gli occhi stanchi.
— La ringrazio — disse Clara e, tutt’a un tratto, cominciò a
ridere.
Era la prima volta che la sentivo ridere. Continuò per un poco a
sghignazzargli in faccia, tanto che se fossi stato al posto di
Horrocks avrei avuto qualcosa a ridire. Finalmente gli tese la
mano.
— Va bene, facciamo la pace. Il signor Goodwin dice che è venuto
per trarmi in salvo. L’avevo avvertita di lasciar perdere le
ragazze americane…
Lui le aveva afferrato la mano con la sua grossa zampa e se la
teneva stretta, come se l’avesse presa a nolo.
— Ha davvero gli occhi stanchi — ripeté. — Non si sente bene?
In quel momento dovetti intervenire. Avevo lasciato l’uscio aperto
e il trillo del campanello della porta era pervenuto al mio
orecchio. Mi rivolsi a Clara in tono brusco: — Senta, suonano al
portone. Ora chiudo questa porta e scendo ad aprire. Sarà bene che
voi due non facciate alcun rumore fino al mio ritorno. — Il
campanello suonò di nuovo. — Avete capito? I due annuirono.
Scesi di corsa. Fritz stava nell’atrio, con fare bellicoso;
detestava la gente che suonava con impazienza. Mi avvicinai alla
porta, scostai la tendina e guardai fuori; allora ebbi la netta
sensazione che mi corresse del mercurio lungo la spina dorsale.
C’era un quartetto e in prima fila riconobbi il tenente Rowcliff.
Era un pezzo che non mi trovavo in una situazione tanto
imbarazzante. Tolsi il catenaccio e socchiusi la porta lasciando la
catena.
Rowcliff attraverso la fessura disse: — E allora? Non siamo mica
formiche. Avanti, apra. — Adagio. Io sono soltanto il
fattorino.
— Ah, sì? Dia un’occhiata qui, se sa leggere.
Spiegò un foglio che teneva in mano e siccome avevo già visto un
mandato di perquisizione, non ebbi bisogno della lente
d’ingrandimento. Rowcliff disse: — Che cosa aspetta? Vuole che
conti fino a dieci?