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Arrivai in ufficio alle sei, e siccome sapevo che Wolfe non
sarebbe sceso che di lì a qualche minuto, andai nel suo studio per
vedere se la meraviglia del Wyoming aveva concepito qualche nuovo
sospetto e se i suoi compagni erano arrivati. Lo studio era
deserto. Passai nella stanza attigua per vedere se aveva creduto
bene di traslocare là, ma anche quel locale era deserto. Corsi in
cucina. Fritz se ne stava seduto, si era tolto le pantofole e
leggeva un giornale francese. Gli domandai: — Che cosa ne hai
fatto?
— De quoi? Ah, du monsieur… — Fritz ridacchiò. — Ha ricevuto una
telefonata. li signor Wolfe sarà giù tra poco.
— Come? Ha ricevuto una telefonata?
Fritz fece un cenno d’assenso.
— Circa una mezz’ora dopo che tu te ne sei andato. Forse anche più.
Aspetta, vado a vedere. — Si avvicinò alla mensola su cui stava la
derivazione del telefono della cucina e guardò il taccuino delle
annotazioni.
— Proprio così… ore diciassette e ventisei.
— Ma chi gli ha telefonato?
Fritz inarcò le sopracciglia.
— Che ne so io, Archie? Era un signore che ha detto che voleva
parlare con il signor Scovil, sempre che fosse qui. Sono andato
nello studio e ho domandato a quel tale se era il signor Scovil; ha
parlato dall’apparecchio della tua scrivania, dopo di che si è
messo il cappello ed è uscito.
— Ha lasciato detto niente?
— No. Ero ritornato in cucina chiudendo la porta dello studio,
perché potesse parlare tranquillamente, ma lasciando aperta questa,
come mi avevi detto tu; quel tale è uscito in fretta senza dire una
parola.
Scrollai le spalle. — Ritornerà.
Un momento dopo udii l’ascensore che scendeva e ritornai nello
studio. Wolfe entrò, attraversò la stanza e andò a incastrarsi
nella sua poltrona, poi suonò il campanello per chiedere della
birra, tirò fuori da un cassetto l’apribottiglie e infine mi degnò
di uno sguardo. — Pomeriggio piacevole, Archie? Che cosa ha
concluso?
— Ecco, Perry se n’è andato di qui poco dopo che io sono sceso, ma
non erano passati dieci minuti quando mi ha telefonato pregandomi
vivamente d’andare da lui al galoppo. Siccome ho sempre in testa
gli interessi del mio principale, sono andato.
— Già, ha sempre in testa gli interessi del suo principale… a
dispetto di quella legge fisica secondo la quale il contenuto non
può essere più grande del contenente. — Fritz arrivò con due
bottigliette di birra; Wolfe ne aprì una, la versò in un bicchiere
e bevve. Poi disse: — Continui. — Sissignore. Trascuro di
rispondere ai suoi insulti, perché devo metterla al corrente di
questa faccenda prima che arrivi la compagnia che aspettiamo… è già
in ritardo di dieci minuti. A proposito, la staffetta che era qui
prima, se n’è andata. Aveva dichiarato di essere uno di quelli
delle sei e aveva detto che avrebbe aspettato, ma Fritz dice che ha
ricevuto una telefonata e che se n’è andato in tutta fretta. Forse
l’appuntamento è andato a monte. Comunque, ritorniamo alla faccenda
di Perry.
Gli esposi la cosa, nel modo che piaceva a lui, con tutti i
particolari possibili e immaginabili, banali o importanti che mi
sembrassero. Frattanto lui aveva terminato la prima bottiglia di
birra e prima che giungessi alla fine del mio racconto aveva già
bevuto buona parte della seconda. Quando mi parve di aver detto
tutto, mi appoggiai all’indietro contro lo schienale della sedia e
bevvi una sorsata di un bicchiere di latte che mi ero portato dalla
cucina. Wolfe si strofinò il naso.
— Uhm! Che iene! E quali sono le sue conclusioni?
— Le mie forse coincidono con le sue. Pare anche a me che siano
iene… — mormorai e bevvi un’altra sorsata di latte. — Nel
complesso, Perry non mi piace affatto; però non si può escludere
che oggi si stia valendo di quel poco di rettitudine morale che gli
resta, dopo una vita tutt’altro che ineccepibile. Clara Fox è
l’ideale dei miei sogni. Mi meraviglierei molto se venissi a sapere
che effettivamente è stata lei a impossessarsi di quel denaro, però
ne ho viste tante, che non posso neppure escludere una cosa
simile.
Wolfe fece un cenno d’assenso. — Forse ricorderà che quattro anni
fa il signor Perry trovò da ridire sulla nostra parcella per
un’indagine sulle manovre dei suoi concorrenti. Immagino che ora
pretenda che noi spazziamo il fango dagli uffici direttivi della
sua società per una dozzina di dollari al giorno. D’altra parte non
si può sempre ignorare il fango, a questo mondo; ce n’è troppo.
Perciò fa piacere scoparne via un poco, quando ce lo si può
permettere. Ultimamente, il nostro bilancio bancario è piacevole a
contemplarsi. Uhm!
Alzò il bicchiere, lo vuotò e si asciugò le labbra col
fazzoletto.
— Sta bene — approvai. — Però c’è qualcos’altro da considerare.
Perry la prega di telefonargli questa sera. Se assume l’incarico,
ci saranno delle spese da affrontare, e se non lo assume, Clara Fox
può buscarsi cinque anni per furto e io dovrò traslocare per essere
vicino al carcere dove la rinchiudono e portarle delle ghiottonerie
nei giorni di visita. Sta a lei giudicare se conviene di più fare
la fatica di spazzare del fango o perdere i miei servigi… ma mi
sembra che arrivi qualcuno. Finirò la mia arringa più tardi.
Avevo udito il campanello della porta sulla strada e Fritz era già
andato ad aprire. Guardai l’orologio; erano le sei e mezzo. I
visitatori erano in ritardo di mezz’ora. Mi ricordai la voce
affascinante che avevo udita al telefono e mi domandai se ci
saremmo trovati sulle braccia, come si suol dire, un’altra ninfa
nell’imbarazzo.
Fritz entrò, chiuse la porta dietro di sé e annunciò che c’erano
dei visitatori. Wolfe gli fece cenno di farli passare. Fritz uscì e
un secondo dopo apparvero sulla soglia un uomo e due donne. Della
presenza dell’uomo e della seconda donna mi accorsi appena perché
ero troppo intento a guardare l’altra donna che era entrata prima.
Evidentemente sapeva abbastanza sul conto di Nero Wolfe per
riconoscerlo, poiché, dopo avermi dato una rapida occhiata, avanzò
subito verso la scrivania del mio principale e parlò.
— Il signor Wolfe, non è vero? Ho telefonato sabato. Sono dolente
di essere arrivata tardi all’appuntamento. Mi chiamo Clara Fox. —
Si volse: — Le presento la signorina Hilda Lindquist e il signor
Mike Walsh.
Wolfe fece un leggero inchino col capo e disse:
— È la mia mole, non la mia cattiva educazione, che mi costringe a
rimaner seduto. — Mi additò. — Le presento il signor Archie
Goodwin; Archie, delle sedie, per favore. Obbedii, mentre Clara Fox
diceva: — Ho conosciuto il signor Goodwin nel pomeriggio di oggi,
nello studio del signor Perry.
— Davvero? — diceva intanto Wolfe e aveva gli occhi socchiusi, il
che significava che non perdeva né una parola né un gesto delle
persone che lo circondavano. — Sistemi la sedia del signor Walsh a
destra, per cortesia; grazie.
La signorina Fox si stava togliendo i guanti.
— Innanzi tutto vorrei spiegarle perché siamo in ritardo. Ho detto
al telefono che non avrei potuto fissare l’appuntamento prima di
lunedì, perché aspettavo qualcuno che doveva venire di fuori città
e che dovrebbe essere qui. Si tratta di un uomo che viene
dall’ovest, di nome Harlan Scovil. È arrivato questa mattina e l’ho
visto all’ora di colazione; mi ero accordata per trovarlo alle
cinque e un quarto al suo albergo e per portarlo qui, sono andata a
cercarlo, ma lui non c’era. Ho aspettato… poi ho fatto un giro per
cercarlo. Infine ho trovato la signorina Lindquist e il signor
Walsh come eravamo d’accordo e siamo tornati insieme all’albergo
del signor Scovil. Abbiamo aspettato fino alle sei e un quarto,
dopo di che abbiamo concluso che sarebbe stato meglio venire qui
senza di lui.
— La sua presenza è essenziale?
— Non direi che sia essenziale, almeno in questo momento. Gli
abbiamo lasciato detto qualcosa all’albergo e può darsi che ci
raggiunga da un momento all’altro. È necessario che parli con lei
prima di iniziare ad agire.
Non mi aveva mai guardato. Decisi di smettere di guardarla e mi
diedi a osservare i suoi compagni. Erano persone abbastanza comuni.
Ricordavo naturalmente che Harlan Scovil aveva guardato Perry e gli
aveva detto che non era Mike Walsh. A quanto sembrava, costui lo
era. Era un ometto ossuto e allampanato; aveva passato i sessanta e
forse anche i settanta. Era vestito modestamente, ma decorosamente
e se ne stava seduto a metà sulla sua sedia, tenendosi
continuamente una mano su un orecchio. La signorina Lindquist, con
la sua faccia squadrata e rubiconda, era alquanto prosperosa; però
non si poteva definire obesa. Portava un vestito marrone comodo e
pratico. In quel momento, ricordandomi Harlan Scovil, mi venne
fatto di pensare che qualunque fosse la partita che la signorina
Fox si accingeva a giocare, la sua squadra era composta da elementi
abbastanza originali.
Wolfe le aveva detto che se la sua storia era lunga era meglio che
cominciasse subito, e lei stava dicendo: — Devo risalire a
quarant’anni fa… un episodio avvenuto a Silver City, nel Nevada.
Però, prima di cominciare il mio racconto, signor Wolfe, devo dirle
qualcosa che spero desterà il suo interesse. Ho assunto ampie
informazioni sul suo conto e ho saputo che ha delle abilità
notevoli e un’opinione parimenti notevole del valore che esse hanno
in denaro per le persone per cui lavorate.
Wolfe sospirò. — Ognuno di noi deve scegliere la propria forma di
banditismo, signorina Fox. — Certamente. È quello che ho fatto
anch’io. Se sarà disposto ad aiutarci e se riuscirà nell’impresa,
il suo compenso sarà di centomila dollari.
Mike Walsh si protese in avanti e brontolò: — Il dieci per cento!
Mi pare una buona condizione. Hilda Lindquist gli lanciò
un’occhiata di traverso. Clara non gli badò nemmeno. Wolfe disse: —
Bisogna vedere di che cosa si tratta.
La ragazza rise e, quantunque avessi già davanti a me il taccuino,
decisi di approfittare delle pause per guardarla.
— Non le chiederò la luna, signor Wolfe. Il signor Goodwin si
accinge a prendere delle note su ciò che io sto per dire, è vero?
Però restiamo intesi che se lei deciderà di non aiutarci, le sue
note dovranno essere consegnate a me.
Quella ragazza pensava proprio a tutto. Sul faccione di Wolfe passò
un lieve sorriso. — Va bene. — Clara si ravviò i capelli con una
mano. — Ho detto dunque che la storia ha inizio quarant’anni fa, ma
non comincerò di là. Comincerò dall’epoca in cui avevo nove anni…
nel 1918, l’anno in cui mio padre fu ucciso in guerra, in Francia.
Non ricordo molto di mio padre. Fu ucciso nel 1918, ma, prima di
morire, mandò a mia madre una lettera che lei non ricevette che un
anno dopo, perché, invece di affidarla alla posta dell’esercito,
lui la consegnò a un altro soldato, perché la portasse a casa. Mia
madre la lesse allora, ma io non ne seppi nulla fino a otto anni
dopo, nel 1926, quando mia madre me la diede, al suo letto di
morte. Amavo molto mia madre. Lessi la lettera soltanto un mese più
tardi. L’ho con me. Bisognerà che ve la legga. — Aprì la borsetta
di coccodrillo e ne trasse un foglietto piegato. Lo stese, lo
scorse un momento con gli occhi, poi il suo sguardo si posò di
nuovo su Wolfe. — Posso? — Se non sbaglio, è scritta a macchina —
fece il mio principale.
— Questa è una copia. Ho messo l’originale in luogo sicuro. —
Ancora una volta si ravviò i capelli con la mano. — Non è una copia
completa, c’è… c’è soltanto la parte che merita di essere
letta.
…Così, mia adorata Lola, siccome qui non si sa mai che cosa
possa accadere, ho deciso di scriverti, a proposito di un piccolo
incidente occorso la settimana scorsa e di accertarmi, per quanto
possibile, che la lettera ti arrivi regolarmente, nel caso che io
non ritorni per spiegarti ogni cosa di persona. Dovrò cominciare
col risalire a tempi lontani.
Ti ho raccontato molte storie strane a proposito della mia
permanenza nel Nevada. Ti ho raccontato anche questa, ma te la
ripeterò qui in breve. Accadde a Silver City, nel 1895. Avevo
venticinque anni, quindi la cosa è accaduta dieci anni prima che ti
conoscessi. Io ero al verde e lo era anche la squadra di ragazzi di
cui ti devo parlare. Erano tutti giovani, salvo uno. Non eravamo
amici, nel vero senso della parola… laggiù l’amicizia non esisteva.
Dell’agglomerato di duemila persone circa che abitavano al campo di
Silver City, a quel tempo, i più erano molto più anziani di noi. ed
ecco perché ci eravamo raggruppati… temporaneamente.
Il capo della nostra banda era un ragazzo che noi chiamavamo
“Caucciù” per il modo in cui si rialzava quando qualcuno lo gettava
in terra. Si chiamava Coleman, ma non seppi mai il suo nome di
battesimo. Siccome Caucciù era, in certo qual modo, il nostro capo,
qualcuno propose un giorno per scherzo che ci chiamassimo la “banda
di caucciù”. La nostra compagnia finì per assumere questo nome. Ben
presto tutta Silver City ci chiamava così. Un giorno uno della
banda, un ragazzo di nome George Rowley, uccise un uomo. Io non ero
presente; tuttavia, per quanto seppi, aveva perfettamente ragione
di ucciderlo, sempre partendo dai concetti che vigevano laggiù: ma
il guaio fu che il morto era un membro del Comitato di Vigilanza.
La notte, ventiquattr’ore dopo il delitto, quelle che si potrebbero
chiamare le autorità locali, decisero di impiccare Rowley. Questi
non aveva avuto il buon senso di filare, cosicché l’avevano preso e
rinchiuso in una baracca, in attesa che si facesse giorno,
mettendovi a guardia un tale del Comitato, un irlandese, di nome
Mike Walsh. Rowley girò un po’ attorno a Walsh… gli fece molti
discorsi e alla fine, verso mezzanotte, lo persuase a mandare a
chiamare Caucciù. Caucciù ebbe un colloquio con Rowley e con Mike.
Noialtri eravamo raccolti nelle tenebre, in un campo, dietro una
baracca, ai margini della “città”…
Avevamo bevuto parecchio e stavamo divertendoci. Verso le due,
Caucciù ricomparve e, al lume di diversi fiammiferi, ci mostrò una
carta che George Rowley aveva firmato, la quale portava inoltre la
firma sua e quella di Mike Walsh come testimoni. Di questo ti ho
già parlato. Non posso ripeterti, parola per parola, quel che
diceva il documento ma, in sostanza, eccotene il contenuto: il
prigioniero dichiarava che il suo vero nome non era George Rowley e
che, quantunque non volesse mettere il suo vero nome per iscritto,
lo aveva confidato a voce a Caucciù. Diceva di appartenere a una
ricchissima famiglia inglese e aggiungeva che, se mai fosse uscito
vivo da Silver City, sarebbe ritornato laggiù e, un giorno o
l’altro, avrebbe avuto la sua parte del patrimonio familiare.
Diceva che non sarebbe stata la parte maggiore, perché lui non era
il primogenito, ma che si trattava tuttavia di una cifra cospicua.
Si impegnava quindi, qualunque fosse stata la somma che gli fosse
destinata come eredità di famiglia, a darcene la metà, purché lo
facessimo uscire sano e salvo da Silver City, impedendo ogni
inseguimento, prima che venisse l’ora stabilita per la sua
impiccagione. Eravamo giovani e credevamo di essere degli
avventurieri, inoltre eravamo mezzo ubriachi… se non di più. Non
credo che uno solo di noi fosse convinto di veder mai un centesimo
di quel patrimonio della nobile famiglia inglese a cui Rowley
diceva di appartenere, eccetto forse Caucciù, ma l’idea di quel
salvataggio notturno di un membro della nostra banda ci attraeva.
Caucciù aveva un’altra carta pronta, tutta scritta. Era intestata
con le parole “Patto dei Sei” e noi tutti la firmammo. Era già
stata firmata da Mike Walsh. In questo patto stipulavamo un accordo
che prevedeva di dividere in parti uguali qualunque cifra
provenisse da George Rowley, chiunque di noi effettuasse l’incasso
e non importa quando.
Eravamo tutti al verde, eccetto Victor Lindquist che aveva un
sacchetto di polvere d’oro. Fu lo stesso Caucciù a proporre di
associare nella cosa anche Tartaruga. Tartaruga era un veterano che
possedeva il più rapido cavallo di Silver City. A lui non serviva
un cavallo simile; lo possedeva per caso, perché lo aveva vinto a
una partita di poker, pochi giorni prima. Andai con Caucciù alla
baracca di Tartaruga. Caucciù gli spiegò la situazione. Gli
raccontò tutta la storia e gli offerse oltre al sacchetto d’oro una
parte uguale a quella di ognuno di noialtri, dell’ipotetica somma
che, un giorno o l’altro, sarebbe arrivata dall’Inghilterra.
Tartaruga era ancora mezzo addormentato. Alla fine, quando riuscì
ad afferrare l’idea, ci guardò a lungo battendo le palpebre, poi,
tutto a un tratto, si batté una manata sul ginocchio e cominciò a
ridere. Disse che, perdiana, aveva sempre desiderato di esse re
padrone di una parte dell’Inghilterra e che, tutto considerato,
aveva una buona probabilità di riperdere il cavallo al gioco prima
di poterlo montare a lungo. Caucciù tirò fuori il “Patto dei Sei”,
ma Tartaruga non ci volle mettere il suo nome dicendo che non gli
era mai piaciuto vedere il suo nome scritto in nessun documento. Si
sarebbe fidato di noi, purché gli facessimo avere regolarmente la
sua parte. Caucciù scarabocchiò un contrattino di vendita per il
cavallo, ma Tartaruga non volle firmare nemmeno quello; disse che,
dal momento che c’ero io a far da testimone, il cavallo era nostro
e non c’era altro da dire. Si mise gli stivali e ci condusse al
recinto di Johnson; sellammo il cavallo e, facendo un lungo giro
dietro le baracche e le tende, lo portammo nel luogo in cui era
radunata la banda.
Il salvataggio di George Rowley avvenne regolarmente. Ricorderai di
avermi sentito raccontare come strappammo via alcune tavole della
baracca dov’era rinchiuso dando fuoco alla baracca stessa, come lui
fuggisse a cavallo e come Mike Walsh, che era un tiratore
infallibile, scaricasse due rivoltelle senza che un solo proiettile
colpisse il fuggitivo. Rowley era già lontano prima che qualcuno si
accorgesse della sua fuga, e nessuno si prese il disturbo di dargli
la caccia; erano troppo occupati a spegnere l’incendio.
Più tardi si seppe che noi avevamo comperato il cavallo di
Tartaruga, ma ormai la gente pensava ad altro e, comunque, il più
grave reato a nostro carico era quello di aver provocato un
incendio e nessuno avrebbe potuto provare che eravamo stati
noi.
Per quanto ne so io, nessuno di noi rivide mai Rowley, né ebbe sue
notizie dopo quella notte. Mi hai udito molte volte dire, quando ci
trovavamo in difficoltà, che mi sarebbe piaciuto trovarlo e sapere
se c’era qualcosa da prendere, ma tu sai che non sono mai riuscito
a sapere dove fosse andato a finire e s’intende che io stesso non
pensavo seriamente a quella storia. Però, in questi ultimi tempi,
qui in Francia, due cose mi hanno indotto a ripensare alle
possibilità che il famoso patto potrebbe offrire. Innanzitutto c’è
un pensiero che mi ossessiona: se ci rimettessi la pelle qui, in
che situazione lascerei te e la piccina? La mia piccola Clara… Dio
mio, come vorrei rivederti, Lola! Ma basta con queste tristezze,
dal momento che non serve ripensarci. Però ti dico che se potessi
sapere che voi due siete a posto, non me ne importerebbe niente di
farmi accoppare. Invece, data la situazione, mi aggrappo un po’
alla vita, perché se andassi all’altro mondo oggi, la mia esistenza
terminerebbe senza che io avessi potuto far niente di buono e
lascerei mia moglie e mia figlia senza un soldo.
L’altra cosa che mi ha indotto a ripensare al “Patto dei Sei” è che
ho visto George Rowley. È stato la settimana scorsa. Forse ti ho
detto che gli mancava il lobo dell’orecchio destro… Diceva di
averlo perduto in Australia, in un incidente… Però non credo di
averlo riconosciuto soltanto per questo. In qualche angolo della
mia memoria ci doveva essere un ricordo abbastanza preciso del suo
muso, cosicché quando l’ho visto l’ho riconosciuto subito. Dopo
ventitré anni! Ero fuori con una squadra di esploratori, circa un
chilometro più indietro delle trincee e stavo montando una nuova
linea telefonica, quando è sopraggiunta una grossa automobile. Era
una macchina del comando inglese. Si è fermata. C’erano sopra
quattro ufficiali inglesi. Uno di loro mi ha chiamato; mi sono
avvicinato e quello mi ha domandato la strada per il nostro
Quartier Generale. Gli ho dato le indicazioni e lui ha guardato i
miei galloni. Dai suoi galloni avevo visto a mia volta che era un
comandante di brigata. Gli ho sorriso e lui mi ha guardato fisso,
poi ha detto: “Perdiana, Gilbert Fox!”. Io ho detto: “Signorsì. Il
generale Rowley?”. Lui ha scosso il capo, si è messo a ridere e ha
detto al conducente di proseguire. La macchina è ripartita e lui si
è voltato per farmi un cenno di saluto con la mano.
Dunque è vivo, o almeno era vivo la settimana scorsa e non ha certo
l’aria di essere in miseria. Ho fatto vari tentativi per scoprire
come si chiama adesso, ma non ci sono riuscito. Forse ci riuscirò,
intanto ti scrivo tutto ciò e affido la lettera in mani sicure,
perché, quantunque la possibilità possa sembrare remota e
fantastica, la verità è che purtroppo questa è l’unica parvenza di
eredità che posso lasciare a te e a Clara. Dopo tutto io rischiai
la pelle quella notte a Silver City, in base a un contratto
regolarmente firmato, con tanto di testimoni, e se quell’inglese
nuota nell’oro, non c’è ragione che non paghi quello che deve. Io
spero e desidero che tu faccia il possibile per ottenere quello che
ti spetta, non solo per te, ma anche per la nostra piccina. Se per
caso io scoprissi il vero nome di Rowley, mi farò restituire questa
lettera che avrò consegnata a un compagno che non parte subito e
aggiungerò un poscritto in proposito.
Un’altra cosa: se per caso tu lo trovassi e riuscissi a farti dare
una discreta somma, non devi servirtene per pagare i ventiseimila
dollari che devo a quella gente di California. Me lo devi
promettere, lo devi, cara Lola. Io destino questa eredità a te e a
Clara, non a loro! Dico questo perché immagino che tu ricordi
quanto quel debito mi abbia preoccupato per dieci anni. Anche se
non ero io il vero responsabile di quel pasticcio, mi farebbe molto
piacere saldare quella pendenza; mi farebbe piacere più di
qualunque altra cosa al mondo, eccettuata quella di vedere te e
Clara, ma se io muoio, quella faccenda può morire con me. Se c’è
qualcosa da prendere dev’essere diviso con gli altri della banda,
se li puoi trovare. Non ho più saputo nulla di loro, eccetto di
Harlan Scovil, e anche di lui non ho notizie da diversi anni.
L’ultimo indirizzo che ho avuto è nel libriccino rosso, nel
cassetto della mia scrivania. La maggior difficoltà sta nel fatto
che tu non sei in possesso della carta che George Rowley ha
firmato. Di comune accordo la lasciammo a Coleman, assieme al
“Patto dei Sei”. Forse potrai ritrovare Coleman. O fors’anche
Rowley, da galantuomo, pagherà senza alcuna carta. L’una cosa e
l’altra non sono molto probabili, comunque ho tutta la buona
intenzione di ritornare da te sano e salvo e in tal caso non vedrai
mai questa mia, a meno che non la riporti io stesso come
ricordo.
Clara Fox si fermò. Rilesse l’ultima frase, poi piegò il foglio
e lo ripose nella borsetta. Guardò Wolfe. Nessuno parlava.
Finalmente il mio principale sospirò. Aprì gli occhi e la guardò a
sua volta: — Ebbene, signorina Fox, in fin dei conti sembra proprio
che lei voglia proprio la luna.
Lei scosse il capo.
— Io so chi è George Rowley. Ora si trova a New York.
Wolfe additò uno dopo l’altro i due compagni della ragazza.
— Questa, immagino, è la figlia del signor Victor Lindquist; e
questo signore è quel tale Walsh che scaricò due rivoltelle contro
il signor Rowley senza colpirlo.
Mike Walsh borbottò: — Avrei potuto colpirlo, se avessi voluto.
— D’accordo. E lei, signorina Fox, desidererebbe senza dubbio
entrare in possesso di ventiseimila dollari, con interessi
composti, per pagare i debiti del vostro defunto padre. In altre
parole, chiede qualcosa di più di trentamila dollari.
Lei lo guardò fisso, poi il suo sguardo si posò su di me e infine
di nuovo su Wolfe. —Signor Wolfe, sono qui come sua cliente oppure
come una persona sospettata di furto? Lui agitò l’indice verso di
lei con gesto ammonitore.
— Né l’una né l’altra per ora. Non è il caso di offendersi. Se le
rivelo apertamente il mio pensiero è soltanto per risparmiare tempo
e inutili complicazioni. Mi dica qualcosa di questo signor George
Rowley.
Ma era destino che quella faccenda fosse rimandata. Feci un cenno a
Clara Fox perché tacesse, mentre la porta dello studio si apriva e
Fritz entrava richiudendola dietro di sé. — C’è un tale che vuol
vederla, signor Wolfe. Gli ho detto che è occupato.
Scattai in piedi. C’erano soltanto due tipi di persone che Fritz
non annunciava come “signori”: i venditori ambulanti e gli agenti
di polizia, in uniforme o no. Li riconosceva a fiuto, a un miglio
di distanza. Domandai: — Un agente?
— Sissignore.
Mi volsi a Wolfe: — Da quando ho veduto Muir guardare la signorina
Fox, oggi, non ho potuto fare a meno di pensare che la signorina
avrebbe bisogno di un parafulmine. Preferisce che la becchino qui,
oppure fuori nell’atrio?
Wolfe corrugò la fronte e si rivolse a me, con aria impaziente: —
Provveda lei, Archie. Attraversai la stanza e andai ad appoggiarmi
con la schiena alla porta dello studio; parlai a voce bassa con
Fritz additando la porta della stanza attigua: — Entra là e chiudi
la porta di comunicazione coll’atrio. — Lui obbedì e io mi voltai
verso gli altri: — Entrate là, anche voi, e sedete. Cercate di non
parlare e nessuno vi disturberà.
Walsh e la signorina Lindquist mi guardarono a bocca aperta, Clara
Fox disse a Wolfe: — Non sono ancora una sua cliente.
Lui rispose: — Ma non è ancora una persona sospetta. Suvvia,
accontenti il signor Goodwin. La ragazza si alzò e s’incamminò
verso la porta della stanza attigua seguita dagli altri. Fritz
ritornò; gli dissi di chiudere a chiave la porta di comunicazione e
di darmi la chiave. Infine, obbedendo a un cenno di Wolfe, tornò
nuovamente nell’atrio per far passare il visitatore.
L’agente di polizia entrò e, con mio stupore, constatai che era un
tale che conoscevo. Dico, con mio stupore, perché l’ultima volta
che avevo avuto notizie di Slim Foltz, avevo saputo che era alla
Sezione Omicidi, addetto all’ufficio del procuratore
distrettuale.
— Oilà, Slim!
— Ehi, Goodwin!
Era in borghese. Si avvicinò rigirandosi il cappello in mano.
— Buona sera, signor Wolfe. Sono Foltz, della Sezione Omicidi.
— Buona sera, signor Foltz, si accomodi.
L’agente posò il cappello sulla scrivania e sedette, poi si frugò
in tasca e trasse un foglietto di carta.
— Un uomo è stato abbattuto a colpi di rivoltella, nella via, circa
un’ora fa. È stato bucherellato abbondantemente… cinque proiettili
addosso… è morto, naturalmente. Questo pezzetto di carta era nella
sua tasca; c’è scritto il vostro nome e indirizzo. Ci sono scritti
altri nomi. Sa qualcosa sul suo conto?
Wolfe scosse il capo. — So soltanto che è morto, se ho ben compreso
quel che ha appena detto. Non so nulla di lui, almeno per ora. Se
sapessi il suo nome, forse…
— Già. Ho trovato anche il suo nome su una licenza di caccia che
aveva in tasca. È un certo Harlan Scovil, proveniente dallo Stato
del Wyoming.
— Davvero? Può darsi che il signor Goodwin la possa aiutare.
Archie…