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Arrivai in ufficio alle sei, e siccome sapevo che Wolfe non sarebbe sceso che di lì a qualche minuto, andai nel suo studio per vedere se la meraviglia del Wyoming aveva concepito qualche nuovo sospetto e se i suoi compagni erano arrivati. Lo studio era deserto. Passai nella stanza attigua per vedere se aveva creduto bene di traslocare là, ma anche quel locale era deserto. Corsi in cucina. Fritz se ne stava seduto, si era tolto le pantofole e leggeva un giornale francese. Gli domandai: — Che cosa ne hai fatto?
— De quoi? Ah, du monsieur… — Fritz ridacchiò. — Ha ricevuto una telefonata. li signor Wolfe sarà giù tra poco.
— Come? Ha ricevuto una telefonata?
Fritz fece un cenno d’assenso.
— Circa una mezz’ora dopo che tu te ne sei andato. Forse anche più. Aspetta, vado a vedere. — Si avvicinò alla mensola su cui stava la derivazione del telefono della cucina e guardò il taccuino delle annotazioni.
— Proprio così… ore diciassette e ventisei.
— Ma chi gli ha telefonato?
Fritz inarcò le sopracciglia.
— Che ne so io, Archie? Era un signore che ha detto che voleva parlare con il signor Scovil, sempre che fosse qui. Sono andato nello studio e ho domandato a quel tale se era il signor Scovil; ha parlato dall’apparecchio della tua scrivania, dopo di che si è messo il cappello ed è uscito.
— Ha lasciato detto niente?
— No. Ero ritornato in cucina chiudendo la porta dello studio, perché potesse parlare tranquillamente, ma lasciando aperta questa, come mi avevi detto tu; quel tale è uscito in fretta senza dire una parola.
Scrollai le spalle. — Ritornerà.
Un momento dopo udii l’ascensore che scendeva e ritornai nello studio. Wolfe entrò, attraversò la stanza e andò a incastrarsi nella sua poltrona, poi suonò il campanello per chiedere della birra, tirò fuori da un cassetto l’apribottiglie e infine mi degnò di uno sguardo. — Pomeriggio piacevole, Archie? Che cosa ha concluso?
— Ecco, Perry se n’è andato di qui poco dopo che io sono sceso, ma non erano passati dieci minuti quando mi ha telefonato pregandomi vivamente d’andare da lui al galoppo. Siccome ho sempre in testa gli interessi del mio principale, sono andato.
— Già, ha sempre in testa gli interessi del suo principale… a dispetto di quella legge fisica secondo la quale il contenuto non può essere più grande del contenente. — Fritz arrivò con due bottigliette di birra; Wolfe ne aprì una, la versò in un bicchiere e bevve. Poi disse: — Continui. — Sissignore. Trascuro di rispondere ai suoi insulti, perché devo metterla al corrente di questa faccenda prima che arrivi la compagnia che aspettiamo… è già in ritardo di dieci minuti. A proposito, la staffetta che era qui prima, se n’è andata. Aveva dichiarato di essere uno di quelli delle sei e aveva detto che avrebbe aspettato, ma Fritz dice che ha ricevuto una telefonata e che se n’è andato in tutta fretta. Forse l’appuntamento è andato a monte. Comunque, ritorniamo alla faccenda di Perry.
Gli esposi la cosa, nel modo che piaceva a lui, con tutti i particolari possibili e immaginabili, banali o importanti che mi sembrassero. Frattanto lui aveva terminato la prima bottiglia di birra e prima che giungessi alla fine del mio racconto aveva già bevuto buona parte della seconda. Quando mi parve di aver detto tutto, mi appoggiai all’indietro contro lo schienale della sedia e bevvi una sorsata di un bicchiere di latte che mi ero portato dalla cucina. Wolfe si strofinò il naso.
— Uhm! Che iene! E quali sono le sue conclusioni?
— Le mie forse coincidono con le sue. Pare anche a me che siano iene… — mormorai e bevvi un’altra sorsata di latte. — Nel complesso, Perry non mi piace affatto; però non si può escludere che oggi si stia valendo di quel poco di rettitudine morale che gli resta, dopo una vita tutt’altro che ineccepibile. Clara Fox è l’ideale dei miei sogni. Mi meraviglierei molto se venissi a sapere che effettivamente è stata lei a impossessarsi di quel denaro, però ne ho viste tante, che non posso neppure escludere una cosa simile.
Wolfe fece un cenno d’assenso. — Forse ricorderà che quattro anni fa il signor Perry trovò da ridire sulla nostra parcella per un’indagine sulle manovre dei suoi concorrenti. Immagino che ora pretenda che noi spazziamo il fango dagli uffici direttivi della sua società per una dozzina di dollari al giorno. D’altra parte non si può sempre ignorare il fango, a questo mondo; ce n’è troppo. Perciò fa piacere scoparne via un poco, quando ce lo si può permettere. Ultimamente, il nostro bilancio bancario è piacevole a contemplarsi. Uhm!
Alzò il bicchiere, lo vuotò e si asciugò le labbra col fazzoletto.
— Sta bene — approvai. — Però c’è qualcos’altro da considerare. Perry la prega di telefonargli questa sera. Se assume l’incarico, ci saranno delle spese da affrontare, e se non lo assume, Clara Fox può buscarsi cinque anni per furto e io dovrò traslocare per essere vicino al carcere dove la rinchiudono e portarle delle ghiottonerie nei giorni di visita. Sta a lei giudicare se conviene di più fare la fatica di spazzare del fango o perdere i miei servigi… ma mi sembra che arrivi qualcuno. Finirò la mia arringa più tardi.
Avevo udito il campanello della porta sulla strada e Fritz era già andato ad aprire. Guardai l’orologio; erano le sei e mezzo. I visitatori erano in ritardo di mezz’ora. Mi ricordai la voce affascinante che avevo udita al telefono e mi domandai se ci saremmo trovati sulle braccia, come si suol dire, un’altra ninfa nell’imbarazzo.
Fritz entrò, chiuse la porta dietro di sé e annunciò che c’erano dei visitatori. Wolfe gli fece cenno di farli passare. Fritz uscì e un secondo dopo apparvero sulla soglia un uomo e due donne. Della presenza dell’uomo e della seconda donna mi accorsi appena perché ero troppo intento a guardare l’altra donna che era entrata prima. Evidentemente sapeva abbastanza sul conto di Nero Wolfe per riconoscerlo, poiché, dopo avermi dato una rapida occhiata, avanzò subito verso la scrivania del mio principale e parlò.
— Il signor Wolfe, non è vero? Ho telefonato sabato. Sono dolente di essere arrivata tardi all’appuntamento. Mi chiamo Clara Fox. — Si volse: — Le presento la signorina Hilda Lindquist e il signor Mike Walsh.
Wolfe fece un leggero inchino col capo e disse:
— È la mia mole, non la mia cattiva educazione, che mi costringe a rimaner seduto. — Mi additò. — Le presento il signor Archie Goodwin; Archie, delle sedie, per favore. Obbedii, mentre Clara Fox diceva: — Ho conosciuto il signor Goodwin nel pomeriggio di oggi, nello studio del signor Perry.
— Davvero? — diceva intanto Wolfe e aveva gli occhi socchiusi, il che significava che non perdeva né una parola né un gesto delle persone che lo circondavano. — Sistemi la sedia del signor Walsh a destra, per cortesia; grazie.
La signorina Fox si stava togliendo i guanti.
— Innanzi tutto vorrei spiegarle perché siamo in ritardo. Ho detto al telefono che non avrei potuto fissare l’appuntamento prima di lunedì, perché aspettavo qualcuno che doveva venire di fuori città e che dovrebbe essere qui. Si tratta di un uomo che viene dall’ovest, di nome Harlan Scovil. È arrivato questa mattina e l’ho visto all’ora di colazione; mi ero accordata per trovarlo alle cinque e un quarto al suo albergo e per portarlo qui, sono andata a cercarlo, ma lui non c’era. Ho aspettato… poi ho fatto un giro per cercarlo. Infine ho trovato la signorina Lindquist e il signor Walsh come eravamo d’accordo e siamo tornati insieme all’albergo del signor Scovil. Abbiamo aspettato fino alle sei e un quarto, dopo di che abbiamo concluso che sarebbe stato meglio venire qui senza di lui.
— La sua presenza è essenziale?
— Non direi che sia essenziale, almeno in questo momento. Gli abbiamo lasciato detto qualcosa all’albergo e può darsi che ci raggiunga da un momento all’altro. È necessario che parli con lei prima di iniziare ad agire.
Non mi aveva mai guardato. Decisi di smettere di guardarla e mi diedi a osservare i suoi compagni. Erano persone abbastanza comuni. Ricordavo naturalmente che Harlan Scovil aveva guardato Perry e gli aveva detto che non era Mike Walsh. A quanto sembrava, costui lo era. Era un ometto ossuto e allampanato; aveva passato i sessanta e forse anche i settanta. Era vestito modestamente, ma decorosamente e se ne stava seduto a metà sulla sua sedia, tenendosi continuamente una mano su un orecchio. La signorina Lindquist, con la sua faccia squadrata e rubiconda, era alquanto prosperosa; però non si poteva definire obesa. Portava un vestito marrone comodo e pratico. In quel momento, ricordandomi Harlan Scovil, mi venne fatto di pensare che qualunque fosse la partita che la signorina Fox si accingeva a giocare, la sua squadra era composta da elementi abbastanza originali.
Wolfe le aveva detto che se la sua storia era lunga era meglio che cominciasse subito, e lei stava dicendo: — Devo risalire a quarant’anni fa… un episodio avvenuto a Silver City, nel Nevada. Però, prima di cominciare il mio racconto, signor Wolfe, devo dirle qualcosa che spero desterà il suo interesse. Ho assunto ampie informazioni sul suo conto e ho saputo che ha delle abilità notevoli e un’opinione parimenti notevole del valore che esse hanno in denaro per le persone per cui lavorate.
Wolfe sospirò. — Ognuno di noi deve scegliere la propria forma di banditismo, signorina Fox. — Certamente. È quello che ho fatto anch’io. Se sarà disposto ad aiutarci e se riuscirà nell’impresa, il suo compenso sarà di centomila dollari.
Mike Walsh si protese in avanti e brontolò: — Il dieci per cento! Mi pare una buona condizione. Hilda Lindquist gli lanciò un’occhiata di traverso. Clara non gli badò nemmeno. Wolfe disse: — Bisogna vedere di che cosa si tratta.
La ragazza rise e, quantunque avessi già davanti a me il taccuino, decisi di approfittare delle pause per guardarla.
— Non le chiederò la luna, signor Wolfe. Il signor Goodwin si accinge a prendere delle note su ciò che io sto per dire, è vero? Però restiamo intesi che se lei deciderà di non aiutarci, le sue note dovranno essere consegnate a me.
Quella ragazza pensava proprio a tutto. Sul faccione di Wolfe passò un lieve sorriso. — Va bene. — Clara si ravviò i capelli con una mano. — Ho detto dunque che la storia ha inizio quarant’anni fa, ma non comincerò di là. Comincerò dall’epoca in cui avevo nove anni… nel 1918, l’anno in cui mio padre fu ucciso in guerra, in Francia. Non ricordo molto di mio padre. Fu ucciso nel 1918, ma, prima di morire, mandò a mia madre una lettera che lei non ricevette che un anno dopo, perché, invece di affidarla alla posta dell’esercito, lui la consegnò a un altro soldato, perché la portasse a casa. Mia madre la lesse allora, ma io non ne seppi nulla fino a otto anni dopo, nel 1926, quando mia madre me la diede, al suo letto di morte. Amavo molto mia madre. Lessi la lettera soltanto un mese più tardi. L’ho con me. Bisognerà che ve la legga. — Aprì la borsetta di coccodrillo e ne trasse un foglietto piegato. Lo stese, lo scorse un momento con gli occhi, poi il suo sguardo si posò di nuovo su Wolfe. — Posso? — Se non sbaglio, è scritta a macchina — fece il mio principale.
— Questa è una copia. Ho messo l’originale in luogo sicuro. — Ancora una volta si ravviò i capelli con la mano. — Non è una copia completa, c’è… c’è soltanto la parte che merita di essere letta.

…Così, mia adorata Lola, siccome qui non si sa mai che cosa possa accadere, ho deciso di scriverti, a proposito di un piccolo incidente occorso la settimana scorsa e di accertarmi, per quanto possibile, che la lettera ti arrivi regolarmente, nel caso che io non ritorni per spiegarti ogni cosa di persona. Dovrò cominciare col risalire a tempi lontani.
Ti ho raccontato molte storie strane a proposito della mia permanenza nel Nevada. Ti ho raccontato anche questa, ma te la ripeterò qui in breve. Accadde a Silver City, nel 1895. Avevo venticinque anni, quindi la cosa è accaduta dieci anni prima che ti conoscessi. Io ero al verde e lo era anche la squadra di ragazzi di cui ti devo parlare. Erano tutti giovani, salvo uno. Non eravamo amici, nel vero senso della parola… laggiù l’amicizia non esisteva. Dell’agglomerato di duemila persone circa che abitavano al campo di Silver City, a quel tempo, i più erano molto più anziani di noi. ed ecco perché ci eravamo raggruppati… temporaneamente.
Il capo della nostra banda era un ragazzo che noi chiamavamo “Caucciù” per il modo in cui si rialzava quando qualcuno lo gettava in terra. Si chiamava Coleman, ma non seppi mai il suo nome di battesimo. Siccome Caucciù era, in certo qual modo, il nostro capo, qualcuno propose un giorno per scherzo che ci chiamassimo la “banda di caucciù”. La nostra compagnia finì per assumere questo nome. Ben presto tutta Silver City ci chiamava così. Un giorno uno della banda, un ragazzo di nome George Rowley, uccise un uomo. Io non ero presente; tuttavia, per quanto seppi, aveva perfettamente ragione di ucciderlo, sempre partendo dai concetti che vigevano laggiù: ma il guaio fu che il morto era un membro del Comitato di Vigilanza. La notte, ventiquattr’ore dopo il delitto, quelle che si potrebbero chiamare le autorità locali, decisero di impiccare Rowley. Questi non aveva avuto il buon senso di filare, cosicché l’avevano preso e rinchiuso in una baracca, in attesa che si facesse giorno, mettendovi a guardia un tale del Comitato, un irlandese, di nome Mike Walsh. Rowley girò un po’ attorno a Walsh… gli fece molti discorsi e alla fine, verso mezzanotte, lo persuase a mandare a chiamare Caucciù. Caucciù ebbe un colloquio con Rowley e con Mike. Noialtri eravamo raccolti nelle tenebre, in un campo, dietro una baracca, ai margini della “città”…
Avevamo bevuto parecchio e stavamo divertendoci. Verso le due, Caucciù ricomparve e, al lume di diversi fiammiferi, ci mostrò una carta che George Rowley aveva firmato, la quale portava inoltre la firma sua e quella di Mike Walsh come testimoni. Di questo ti ho già parlato. Non posso ripeterti, parola per parola, quel che diceva il documento ma, in sostanza, eccotene il contenuto: il prigioniero dichiarava che il suo vero nome non era George Rowley e che, quantunque non volesse mettere il suo vero nome per iscritto, lo aveva confidato a voce a Caucciù. Diceva di appartenere a una ricchissima famiglia inglese e aggiungeva che, se mai fosse uscito vivo da Silver City, sarebbe ritornato laggiù e, un giorno o l’altro, avrebbe avuto la sua parte del patrimonio familiare. Diceva che non sarebbe stata la parte maggiore, perché lui non era il primogenito, ma che si trattava tuttavia di una cifra cospicua. Si impegnava quindi, qualunque fosse stata la somma che gli fosse destinata come eredità di famiglia, a darcene la metà, purché lo facessimo uscire sano e salvo da Silver City, impedendo ogni inseguimento, prima che venisse l’ora stabilita per la sua impiccagione. Eravamo giovani e credevamo di essere degli avventurieri, inoltre eravamo mezzo ubriachi… se non di più. Non credo che uno solo di noi fosse convinto di veder mai un centesimo di quel patrimonio della nobile famiglia inglese a cui Rowley diceva di appartenere, eccetto forse Caucciù, ma l’idea di quel salvataggio notturno di un membro della nostra banda ci attraeva. Caucciù aveva un’altra carta pronta, tutta scritta. Era intestata con le parole “Patto dei Sei” e noi tutti la firmammo. Era già stata firmata da Mike Walsh. In questo patto stipulavamo un accordo che prevedeva di dividere in parti uguali qualunque cifra provenisse da George Rowley, chiunque di noi effettuasse l’incasso e non importa quando.
Eravamo tutti al verde, eccetto Victor Lindquist che aveva un sacchetto di polvere d’oro. Fu lo stesso Caucciù a proporre di associare nella cosa anche Tartaruga. Tartaruga era un veterano che possedeva il più rapido cavallo di Silver City. A lui non serviva un cavallo simile; lo possedeva per caso, perché lo aveva vinto a una partita di poker, pochi giorni prima. Andai con Caucciù alla baracca di Tartaruga. Caucciù gli spiegò la situazione. Gli raccontò tutta la storia e gli offerse oltre al sacchetto d’oro una parte uguale a quella di ognuno di noialtri, dell’ipotetica somma che, un giorno o l’altro, sarebbe arrivata dall’Inghilterra. Tartaruga era ancora mezzo addormentato. Alla fine, quando riuscì ad afferrare l’idea, ci guardò a lungo battendo le palpebre, poi, tutto a un tratto, si batté una manata sul ginocchio e cominciò a ridere. Disse che, perdiana, aveva sempre desiderato di esse re padrone di una parte dell’Inghilterra e che, tutto considerato, aveva una buona probabilità di riperdere il cavallo al gioco prima di poterlo montare a lungo. Caucciù tirò fuori il “Patto dei Sei”, ma Tartaruga non ci volle mettere il suo nome dicendo che non gli era mai piaciuto vedere il suo nome scritto in nessun documento. Si sarebbe fidato di noi, purché gli facessimo avere regolarmente la sua parte. Caucciù scarabocchiò un contrattino di vendita per il cavallo, ma Tartaruga non volle firmare nemmeno quello; disse che, dal momento che c’ero io a far da testimone, il cavallo era nostro e non c’era altro da dire. Si mise gli stivali e ci condusse al recinto di Johnson; sellammo il cavallo e, facendo un lungo giro dietro le baracche e le tende, lo portammo nel luogo in cui era radunata la banda.
Il salvataggio di George Rowley avvenne regolarmente. Ricorderai di avermi sentito raccontare come strappammo via alcune tavole della baracca dov’era rinchiuso dando fuoco alla baracca stessa, come lui fuggisse a cavallo e come Mike Walsh, che era un tiratore infallibile, scaricasse due rivoltelle senza che un solo proiettile colpisse il fuggitivo. Rowley era già lontano prima che qualcuno si accorgesse della sua fuga, e nessuno si prese il disturbo di dargli la caccia; erano troppo occupati a spegnere l’incendio.
Più tardi si seppe che noi avevamo comperato il cavallo di Tartaruga, ma ormai la gente pensava ad altro e, comunque, il più grave reato a nostro carico era quello di aver provocato un incendio e nessuno avrebbe potuto provare che eravamo stati noi.
Per quanto ne so io, nessuno di noi rivide mai Rowley, né ebbe sue notizie dopo quella notte. Mi hai udito molte volte dire, quando ci trovavamo in difficoltà, che mi sarebbe piaciuto trovarlo e sapere se c’era qualcosa da prendere, ma tu sai che non sono mai riuscito a sapere dove fosse andato a finire e s’intende che io stesso non pensavo seriamente a quella storia. Però, in questi ultimi tempi, qui in Francia, due cose mi hanno indotto a ripensare alle possibilità che il famoso patto potrebbe offrire. Innanzitutto c’è un pensiero che mi ossessiona: se ci rimettessi la pelle qui, in che situazione lascerei te e la piccina? La mia piccola Clara… Dio mio, come vorrei rivederti, Lola! Ma basta con queste tristezze, dal momento che non serve ripensarci. Però ti dico che se potessi sapere che voi due siete a posto, non me ne importerebbe niente di farmi accoppare. Invece, data la situazione, mi aggrappo un po’ alla vita, perché se andassi all’altro mondo oggi, la mia esistenza terminerebbe senza che io avessi potuto far niente di buono e lascerei mia moglie e mia figlia senza un soldo.
L’altra cosa che mi ha indotto a ripensare al “Patto dei Sei” è che ho visto George Rowley. È stato la settimana scorsa. Forse ti ho detto che gli mancava il lobo dell’orecchio destro… Diceva di averlo perduto in Australia, in un incidente… Però non credo di averlo riconosciuto soltanto per questo. In qualche angolo della mia memoria ci doveva essere un ricordo abbastanza preciso del suo muso, cosicché quando l’ho visto l’ho riconosciuto subito. Dopo ventitré anni! Ero fuori con una squadra di esploratori, circa un chilometro più indietro delle trincee e stavo montando una nuova linea telefonica, quando è sopraggiunta una grossa automobile. Era una macchina del comando inglese. Si è fermata. C’erano sopra quattro ufficiali inglesi. Uno di loro mi ha chiamato; mi sono avvicinato e quello mi ha domandato la strada per il nostro Quartier Generale. Gli ho dato le indicazioni e lui ha guardato i miei galloni. Dai suoi galloni avevo visto a mia volta che era un comandante di brigata. Gli ho sorriso e lui mi ha guardato fisso, poi ha detto: “Perdiana, Gilbert Fox!”. Io ho detto: “Signorsì. Il generale Rowley?”. Lui ha scosso il capo, si è messo a ridere e ha detto al conducente di proseguire. La macchina è ripartita e lui si è voltato per farmi un cenno di saluto con la mano.
Dunque è vivo, o almeno era vivo la settimana scorsa e non ha certo l’aria di essere in miseria. Ho fatto vari tentativi per scoprire come si chiama adesso, ma non ci sono riuscito. Forse ci riuscirò, intanto ti scrivo tutto ciò e affido la lettera in mani sicure, perché, quantunque la possibilità possa sembrare remota e fantastica, la verità è che purtroppo questa è l’unica parvenza di eredità che posso lasciare a te e a Clara. Dopo tutto io rischiai la pelle quella notte a Silver City, in base a un contratto regolarmente firmato, con tanto di testimoni, e se quell’inglese nuota nell’oro, non c’è ragione che non paghi quello che deve. Io spero e desidero che tu faccia il possibile per ottenere quello che ti spetta, non solo per te, ma anche per la nostra piccina. Se per caso io scoprissi il vero nome di Rowley, mi farò restituire questa lettera che avrò consegnata a un compagno che non parte subito e aggiungerò un poscritto in proposito.
Un’altra cosa: se per caso tu lo trovassi e riuscissi a farti dare una discreta somma, non devi servirtene per pagare i ventiseimila dollari che devo a quella gente di California. Me lo devi promettere, lo devi, cara Lola. Io destino questa eredità a te e a Clara, non a loro! Dico questo perché immagino che tu ricordi quanto quel debito mi abbia preoccupato per dieci anni. Anche se non ero io il vero responsabile di quel pasticcio, mi farebbe molto piacere saldare quella pendenza; mi farebbe piacere più di qualunque altra cosa al mondo, eccettuata quella di vedere te e Clara, ma se io muoio, quella faccenda può morire con me. Se c’è qualcosa da prendere dev’essere diviso con gli altri della banda, se li puoi trovare. Non ho più saputo nulla di loro, eccetto di Harlan Scovil, e anche di lui non ho notizie da diversi anni. L’ultimo indirizzo che ho avuto è nel libriccino rosso, nel cassetto della mia scrivania. La maggior difficoltà sta nel fatto che tu non sei in possesso della carta che George Rowley ha firmato. Di comune accordo la lasciammo a Coleman, assieme al “Patto dei Sei”. Forse potrai ritrovare Coleman. O fors’anche Rowley, da galantuomo, pagherà senza alcuna carta. L’una cosa e l’altra non sono molto probabili, comunque ho tutta la buona intenzione di ritornare da te sano e salvo e in tal caso non vedrai mai questa mia, a meno che non la riporti io stesso come ricordo.

Clara Fox si fermò. Rilesse l’ultima frase, poi piegò il foglio e lo ripose nella borsetta. Guardò Wolfe. Nessuno parlava.
Finalmente il mio principale sospirò. Aprì gli occhi e la guardò a sua volta: — Ebbene, signorina Fox, in fin dei conti sembra proprio che lei voglia proprio la luna.
Lei scosse il capo.
— Io so chi è George Rowley. Ora si trova a New York.
Wolfe additò uno dopo l’altro i due compagni della ragazza.
— Questa, immagino, è la figlia del signor Victor Lindquist; e questo signore è quel tale Walsh che scaricò due rivoltelle contro il signor Rowley senza colpirlo.
Mike Walsh borbottò: — Avrei potuto colpirlo, se avessi voluto.
— D’accordo. E lei, signorina Fox, desidererebbe senza dubbio entrare in possesso di ventiseimila dollari, con interessi composti, per pagare i debiti del vostro defunto padre. In altre parole, chiede qualcosa di più di trentamila dollari.
Lei lo guardò fisso, poi il suo sguardo si posò su di me e infine di nuovo su Wolfe. —Signor Wolfe, sono qui come sua cliente oppure come una persona sospettata di furto? Lui agitò l’indice verso di lei con gesto ammonitore.
— Né l’una né l’altra per ora. Non è il caso di offendersi. Se le rivelo apertamente il mio pensiero è soltanto per risparmiare tempo e inutili complicazioni. Mi dica qualcosa di questo signor George Rowley.
Ma era destino che quella faccenda fosse rimandata. Feci un cenno a Clara Fox perché tacesse, mentre la porta dello studio si apriva e Fritz entrava richiudendola dietro di sé. — C’è un tale che vuol vederla, signor Wolfe. Gli ho detto che è occupato.
Scattai in piedi. C’erano soltanto due tipi di persone che Fritz non annunciava come “signori”: i venditori ambulanti e gli agenti di polizia, in uniforme o no. Li riconosceva a fiuto, a un miglio di distanza. Domandai: — Un agente?
— Sissignore.
Mi volsi a Wolfe: — Da quando ho veduto Muir guardare la signorina Fox, oggi, non ho potuto fare a meno di pensare che la signorina avrebbe bisogno di un parafulmine. Preferisce che la becchino qui, oppure fuori nell’atrio?
Wolfe corrugò la fronte e si rivolse a me, con aria impaziente: — Provveda lei, Archie. Attraversai la stanza e andai ad appoggiarmi con la schiena alla porta dello studio; parlai a voce bassa con Fritz additando la porta della stanza attigua: — Entra là e chiudi la porta di comunicazione coll’atrio. — Lui obbedì e io mi voltai verso gli altri: — Entrate là, anche voi, e sedete. Cercate di non parlare e nessuno vi disturberà.
Walsh e la signorina Lindquist mi guardarono a bocca aperta, Clara Fox disse a Wolfe: — Non sono ancora una sua cliente.
Lui rispose: — Ma non è ancora una persona sospetta. Suvvia, accontenti il signor Goodwin. La ragazza si alzò e s’incamminò verso la porta della stanza attigua seguita dagli altri. Fritz ritornò; gli dissi di chiudere a chiave la porta di comunicazione e di darmi la chiave. Infine, obbedendo a un cenno di Wolfe, tornò nuovamente nell’atrio per far passare il visitatore.
L’agente di polizia entrò e, con mio stupore, constatai che era un tale che conoscevo. Dico, con mio stupore, perché l’ultima volta che avevo avuto notizie di Slim Foltz, avevo saputo che era alla Sezione Omicidi, addetto all’ufficio del procuratore distrettuale.
— Oilà, Slim!
— Ehi, Goodwin!
Era in borghese. Si avvicinò rigirandosi il cappello in mano.
— Buona sera, signor Wolfe. Sono Foltz, della Sezione Omicidi.
— Buona sera, signor Foltz, si accomodi.
L’agente posò il cappello sulla scrivania e sedette, poi si frugò in tasca e trasse un foglietto di carta.
— Un uomo è stato abbattuto a colpi di rivoltella, nella via, circa un’ora fa. È stato bucherellato abbondantemente… cinque proiettili addosso… è morto, naturalmente. Questo pezzetto di carta era nella sua tasca; c’è scritto il vostro nome e indirizzo. Ci sono scritti altri nomi. Sa qualcosa sul suo conto?
Wolfe scosse il capo. — So soltanto che è morto, se ho ben compreso quel che ha appena detto. Non so nulla di lui, almeno per ora. Se sapessi il suo nome, forse…
— Già. Ho trovato anche il suo nome su una licenza di caccia che aveva in tasca. È un certo Harlan Scovil, proveniente dallo Stato del Wyoming.
— Davvero? Può darsi che il signor Goodwin la possa aiutare. Archie…