L’ANGELO DELLA MISERICORDIA

«Sveglia. Sveglia, dottore.»

Jesse si coprì la faccia con un braccio quando la luce gli trafisse gli occhi. «Va’ via.»

«Jesse.»

Era disteso supino, con qualcosa che gli premeva nella schiena. Una sagoma indistinta incombeva su di lui. Il pavimento ondeggiò. Bleah. Deglutì. In bocca aveva un saporaccio amaro. «Chi è?»

L’uomo nero.

«Sono io, Bin.»

Un ronzio basso e le luci si accesero, crepitarono incerte, per poi risplendere a piena potenza. Un rombo risuonò chissà da dove. Il pavimento vibrava.

«Sei ferito, dottore? Credevo che te ne fossi andato con gli altri.»

Jesse ebbe un accesso di nausea mentre sollevava la testa, ma nello stomaco non gli era rimasto niente da rigettare. «Martha?»

«Non lo so, dottore.»

«È tornata la luce?»

Bin annuì e fece una smorfia.

«Abbiamo ripreso a muoverci?»

«Ancora no, ma ci muoveremo presto.»

«Come fai a saperlo?»

Bin fece un’altra smorfia. «C’è gente dell’equipaggio là sotto. Li ho visti mentre venivo qui. Non tutti hanno abbandonato la nave.»

«Possono rimetterla in funzione? Guidarla?» Ma una nave si guidava? Non gli veniva la parola. Cristo, la sua testa...

Bin lo aiutò a mettersi in piedi. Quel posto era un cesso. Cartelle e fiale ovunque. Un groviglio di aste da flebo. In preda al panico guardò verso l’armadietto dei medicinali. Sembrava intatto. Grazie al cielo.

«C’è gente ferita, dottore.»

«Dove?»

«L’atrio, il ponte principale. Li portano al Dare to Dream Theatre.»

«Qualcosa di grave?»

«Nessuno a rischio di vita. Forse qualche frattura. Ho fatto quello che potevo. Penso ci sia una commozione cerebrale.» Bin fece un’altra smorfia, alzò una mano e si allontanò per vomitare discretamente in una catinella.

Jesse notò che l’infermiere sembrava fare persino quello con grazia e precisione. Gli porse un telo. «Bin, vai di sopra. Non sei nelle condizioni di aiutare nessuno. Porterò io tutto quello che potrebbe servire.»

«Sicuro?»

«Sì.»

Jesse trattenne il fiato mentre Bin usciva dalla stanza. Con dita tremanti si avvicinò all’armadietto dei medicinali.

Poi se ne rese conto di colpo. Era sopravvissuto a una terribile tempesta in mare relativamente incolume. Voleva davvero continuare su quella strada?

’Fanculo.

Si cacciò in tasca le fiale che restavano e coi denti strappò l’involucro di plastica di una siringa. In pochi minuti avrebbe riavuto la sua armatura.

Erano tutti nel foyer del teatro, distesi per le scale e sulla moquette davanti alla porta. L’interno della nave non se l’era cavata tanto male: Jesse aveva calpestato dei vetri rotti e in certi punti c’erano pozze d’acqua, specie sui ponti di servizio, ma non era neppure lontanamente danneggiato come ci si poteva aspettare. Anzi, si poteva quasi dire che la tempesta avesse dato una bella rinfrescata. Adesso c’era odore di bagnato e di salmastro, anziché puzzo di fogna. E il vento aveva disperso l’ammasso di sacchetti rossi che seguiva la nave come una scia.

Alcuni membri dell’equipaggio distribuivano l’acqua, tornando così alle vecchie abitudini, e chi era in grado di camminare aiutava gli altri a uscire dal teatro. Confortevolmente avvolto nell’abbraccio della petidina, Jesse passò in rassegna i passeggeri per valutare chi avesse più bisogno della sua assistenza. Aveva ragione Bin. Sembrava non ci fosse nessun caso particolarmente grave. In molti avevano un colorito verdastro – difficile stabilire se fosse per il mal di mare o per il norovirus – e c’era qualche contusione. Una donnona seduta accanto a un tizio col braccio bendato gli scoccò un sorriso di esitante riconoscenza. Ricambiò automaticamente il sorriso, cercando di ricordarsi dove l’aveva già vista. Poi gli venne in mente: la passeggera isterica del ponte VIP. Aveva cercato di picchiarlo, e così aveva pensato di andare a prenderle dello Xanax. Senza di lei, avrebbe mai avuto la tentazione di ricadere nelle vecchie abitudini? Ma sapeva benissimo la risposta. Ja, l’avrebbe avuta. Prima o poi avrebbe comunque trovato una scusa.

Il rombo delle macchine s’interruppe, ci fu un attimo di silenzio durante il quale tutti sembrarono trattenere il fiato, poi ricominciarono a pulsare. Chi poteva eruppe in una fiacca acclamazione.

Jesse concluse che doveva fare qualcosa di meglio che starsene lì a ciondolare come una riserva in panchina. Si stava dirigendo verso il ponte VIP quando qualcuno gridò: «Dottore!» Un filippino di bell’aspetto agitava la mano verso di lui dalla sommità delle scale.

Jesse si fece largo tra gli infortunati fino a una delle colonne, contro la quale si appoggiava un uomo con la camicia bianca macchiata di sangue. Cristo. Riconobbe Devi, l’addetto alla sicurezza che lo aveva aiutato a tirarsi fuori da quel casino all’obitorio. La parte sinistra della mascella gli si era gonfiata, e un taglio dietro l’orecchio sembrava aver bisogno di qualche punto. Trasalì appena mentre Jesse esaminava la ferita dietro l’orecchio, e intanto si guardava attorno osservando tutte le persone nelle vicinanze.

«Cerca qualcuno?»

«Quell’uomo. Gary Johansson.»

L’uomo che aveva invaso il suo nascondiglio la sera prima. Jesse non ci aveva più pensato fino a quel momento. Aveva avuto cose più importanti di cui preoccuparsi. «Per quello posso aiutarla io.»