LE SORELLE SUICIDE

Gli annunci di Damien, il direttore di crociera, arrivavano rapidi e frequenti, ciascuno più insensato del precedente: «Per la pipì la doccia va bene, ma per la pupù il sacchetto conviene». Helen aveva il sospetto che per qualche suo recondito motivo si stesse godendo quella situazione. E non le era comunque sfuggito il fatto che mancavano vere informazioni: nessun messaggio del comandante, né perché non fossero arrivati soccorsi della Foveros o almeno dei rimorchiatori per trainarli in porto. Lanciò un’occhiata alla pila di sacchetti di plastica rossi lasciati sul divano mentre lei ed Elise erano fuori. Per fortuna il loro bagno funzionava ancora, anche se aveva emesso uno stridio preoccupante l’ultima volta che aveva azionato lo sciacquone.

«Helen?» la chiamò Elise dal letto. «Mi daresti un po’ di acqua?»

«Ma certo. Come ti senti?»

Elise le fece un sorrisetto coraggioso. «Meglio, grazie. Dev’essere stato il caldo a darmi fastidio.»

Erano sul ponte Lido, in coda per la colazione, quando Elise aveva detto che si sentiva svenire. Helen l’aveva aiutata a tornare in cabina e le aveva detto di stendersi per un po’. Non aveva un bell’aspetto: era rossa in faccia e sembrava riuscisse appena a tenere gli occhi aperti.

«Sei sicura?»

«Mmm-mmm. Forse farò un altro sonnellino. Ti spiace?»

«Ma figurati, dormi tranquilla.» Helen le versò un bicchiere di acqua tiepida – il frigobar non funzionava più – e glielo posò accanto al letto. Irrequieta, mise in ordine la stanza, poi uscì sul balcone col computer portatile e col Kobo. Era un paio di gradi più fresco che all’interno della cabina: il caldo le aveva colpite come uno schiaffo quand’erano rientrate dal ponte. Eppure erano tra i fortunati. Se non altro avevano il balcone (anche se in parte coperto da una scialuppa di salvataggio) che garantiva un minimo d’aria fresca. La nave era ancora inclinata, e sembrava completamente ferma. La superficie dell’oceano era immobile, l’acqua ricoperta da una pellicola untuosa che le ricordava quella su una tazza di tè abbandonata.

Si sedette e accese il computer. La sua lettera da suicida era ancora sullo schermo, in attesa di essere copiata e incollata in un’e-mail. Ci aveva impiegato settimane a scrivere quelle tre righe, con l’intenzione d’inviarle ai suoi amici e ai nipoti di Graham che la tenevano al corrente delle loro vite su Facebook. Ma forse poteva semplicemente cambiare il suo status in morta.

Non era divertente.

Ho deciso che non voglio più vivere. Sono sana di mente. Vi prego di non sentirvi in colpa per la mia decisione, non l’ho presa a cuor leggero.

Una bugia, ovviamente. Non era il tipo da fare qualcosa a cuor leggero, ma quella decisione era stata... cercò il termine adatto... quasi impudente.

Le era venuto in mente per caso, in una giornata insolitamente afosa di giugno. Stava lavorando in giardino, chiacchierando nella sua mente con Graham come faceva sempre. Aveva tagliato uno stelo e poi si era chiesta: Ma chi me lo fa fare? A chi importa se taglio la siepe? Il resto della giornata le si stendeva davanti, pianificato con precisione militare in modo che non le restasse troppo tempo per pensare. Giardinaggio dalle dieci a mezzogiorno, poi la spesa con molta calma da Waitrose, una riunione con l’associazione Salviamo il Tasso di cui era segretaria, poi lettura dalle tre alle cinque del pomeriggio, un paio d’ore di televisione, preparazione di una cena solitaria, una pillola per dormire, e poi ricominciare da capo il giorno successivo. Era stufa di vivere ora per ora, cercando di riempire i vuoti. Aveva degli amici, certo, ma si faceva un punto d’onore di non diventare un peso, e del resto erano presi con le loro vite e i nipotini. Rinfrancata da una strana esaltazione, si era pulita le mani dalla terra, era corsa in casa e aveva acceso il computer. Era rimasta travolta dalla massa d’informazioni disponibili per i potenziali suicidi. C’erano Exit International e Dignitas, ovviamente, decine di siti di counseling e centinaia di siti web che elencavano i dieci modi migliori per compiere quell’atto. Era rimasta in piedi per venti ore filate, finendo a un certo punto su Meglioinsieme.com, un forum per chi non vuole morire solo. Un messaggio di Rimasta Vedova colpì la sua attenzione, un resoconto dolceamaro sul modo in cui l’autrice si sforzava di riempire le sue giornate: giri sempre più lunghi per fare la spesa, volontariato per tutte le associazioni benefiche che riusciva a trovare, iscrizione a corsi per corrispondenza per imparare lo spagnolo e il francese. Un’anima gemella. Helen ci aveva messo delle ore a comporre un messaggio, e poi aveva ricaricato la pagina ogni trenta secondi nella speranza di trovare una risposta. Era arrivata dopo dieci minuti: Che bello trovare un altro cigno! Era così che Elise definiva loro due: cigni. Perennemente costretti nel limbo del lutto per la metà perduta.

Avevano chattato online ogni giorno, per settimane, discutendo di tutto, dai dettagli della loro vita a lunghe e sincere confessioni sui motivi per cui erano finite entrambe su quel forum. Strano, adesso che stavano insieme di persona, sentiva la mancanza delle e-mail di Elise, e anche Elise aveva ammesso che le mancavano i messaggi di Helen. Nella scrittura sembrava esserci un’intimità che in qualche modo latitava nel contatto personale, anche se non poteva certo lamentarsi. Strano, ripensare ora al nervosismo che aveva provato al suo primo incontro con Elise. Avevano programmato di trascorrere un paio di giorni insieme in un alberghetto modesto di South Beach prima della crociera, e aveva atteso l’arrivo di Elise al bar, con le farfalle nello stomaco, nemmeno stesse per incontrare un amante. In effetti lo era, in un certo qual modo. Cosa poteva esserci di più intimo che morire insieme? Era arrivata a dipendere da quei loro scambi quotidiani e aveva il terrore che, faccia a faccia, sarebbe stato tutto diverso. In effetti, sulla carta, non avrebbero potuto essere più diverse: Elise, una casalinga della Pennsylvania; Helen, una fiscalista in pensione. Helen: inglese, riservata e amante dei libri (sapeva che nel suo studio la chiamavano «la regina di ghiaccio»); Elise: aperta, cordiale, spudorata divoratrice di giornali parrocchiali e soap-opera. Helen da sempre atea; Elise che frequentava regolarmente la chiesa. Nessuna delle due aveva figli, ma contrariamente a Elise che, lo sapeva, rimpiangeva di non aver avuto quella possibilità, Helen non aveva mai provato la necessità di trasmettere i propri geni. In realtà era incredibile che avessero anche solo qualcosa di cui parlare. Invece, nell’attimo stesso in cui si erano incontrate, avevano condiviso il cameratismo senza complicazioni già sperimentato online, prova evidente che gli opposti si attraggono.

Lasciò indugiare il cursore sul comando CANCELLA.

Il giorno prima – erano ormai trascorse undici ore – doveva morire. Fletté le dita. Stava ufficialmente vivendo oltre il suo tempo limite.

Ho sempre sognato di morire con un bel medico di bordo che mi teneva la mano, dopo aver mangiato uva avvelenata.

Come faceva Celine a sapere che poco prima Helen aveva pensato proprio a quella citazione? Non aveva con sé una copia di Un tram che si chiama desiderio, e il suo e-reader lo teneva sempre in borsa. Tutta la serata era stata inquietante. La musica che avevano sentito in bagno, le ombre che aveva visto sui vetri del balcone. Tutto poteva avere una spiegazione, ma il terrore che aveva provato – la sensazione primitiva e fortissima di doversi dare alla fuga – la turbava ancora. Spense il computer e si sventolò, poi cercò d’immergersi di nuovo in Persuasione. Poteva essere la sua ultima occasione per leggerlo, e provò una fitta di dolore per tutti i libri sull’e-reader che non avrebbe mai letto. Trascorse alcuni minuti a cancellare i titoli più imbarazzanti: tra Graham Greene, José Saramago e David Mitchell, facevano capolino titolacci erotici di bassa lega. Incapace di star ferma, rientrò in camera.

Elise mormorò qualcosa nel sonno, si mosse e poi aprì gli occhi. Si guardò attorno confusa, come se cercasse di ricordarsi dov’era.

«Come ti senti?» le sorrise Helen.

«Helen... Lo stavo sognando. Parlava con me.»

«Peter?»

Elise annuì e sospirò. «Era così reale, Helen.»

«Lo so», disse, ma in realtà non lo sapeva. Lei non sognava mai Graham anche se a volte, molto di rado, le sembrava di sentire il suo odore sul cuscino, la mattina.

«Dice che devo smetterla di sentirmi in colpa.»

«In colpa? E per cosa?»

«Per essere uscita mentre moriva. Io non c’ero.»

Un’altra cosa che avevano in comune: nemmeno Helen era stata con Graham mentre esalava il suo ultimo respiro. «Non è colpa tua.»

«Lo so, mia cara. Helen... vuoi ancora farlo?»

Lo voleva? Helen cercò di nuovo la risposta dentro di sé. La sua unica alternativa era tornare a casa. Aveva spento lo scaldabagno, svuotato frigo e freezer. Immaginò di prendere un taxi a Heathrow, arrivare davanti alla porta di casa in una serata piovosa, posare le chiavi sul tavolino dell’ingresso in cui Graham teneva la sua scorta segreta di sigarette, attraversare la cucina fredda, spogliata di ogni tocco personale, spogliata di ogni traccia della presenza di suo marito. «Sì, voglio ancora farlo. E tu?»

«Sì, cara, lo voglio.»

Elise, per molti versi, era in condizioni ancora peggiori delle sue: le spese mediche di Peter l’avevano rovinata. Helen l’avrebbe aiutata volentieri se gliel’avesse chiesto, ma non lo aveva mai fatto. E perché avrebbe dovuto? Non era che Elise dovesse preoccuparsi dei suoi debiti. Erano decise a portare a termine il loro piano. Quanto a Helen, in mancanza di figli o di parenti stretti ancora in vita, aveva considerato l’idea di lasciare i suoi consistenti risparmi a qualche ente benefico – magari un rifugio per gatti – ma esistevano ancora enti del genere? Era in momenti come quello che le pareva di sentire chiaramente la voce di Graham, come se ce l’avesse davanti a parlare con lei. Non puoi essere così stupida, ragazza mia.

«Dormo ancora un po’, Helen», disse Elise, gli occhi che già le si chiudevano. Helen le tenne la mano finché il suo respiro non si fece regolare. Amore. Ecco cosa provava per Elise. E sapeva che era reciproco. Una volta avevano parlato di andare ad abitare insieme, vivere i loro ultimi giorni in un appartamento in Florida, o magari una casetta a St Ives. Ma sarebbe stato solo un modo per rimandare l’inevitabile. Meglio farlo subito, finché erano tutt’e due autonome e nel pieno possesso delle loro facoltà mentali. Si alzò e si mise a camminare avanti e indietro. Si sentiva claustrofobica. Non era abituata a quell’inattività. Non le piaceva l’idea di aggirarsi per la nave da sola, ma due passi non le avrebbero fatto male. Scribacchiò un biglietto per Elise, che adesso russava sommessamente, e uscì senza far rumore; si stava abituando all’inclinazione della nave. Arrivò fino alla balconata e abbassò lo sguardo verso l’atrio sottostante. Il banco del servizio clienti adesso era chiuso e diversi passeggeri vagavano senza meta, come palloncini senza filo. Scese la scalinata principale e superò il centro informatico e i negozi, con gli interni bui e le serrande abbassate. Non ci aveva mai trovato una sola cosa che le interessasse, anche se Elise aveva ammirato qualche pezzo di bigiotteria e aveva poi scherzato dicendo che di certo non le sarebbero serviti degli orecchini di corallo, dove stavano andando.

Svoltò un angolo a caso e si ritrovò nella biblioteca, decorata a imitazione di uno studio vittoriano. Non era del tutto sgradevole; le luci smorzate si adattavano al mobilio scuro di antiquariato, ovviamente falso, e stranamente faceva più fresco, là dentro. Esaminò i libri custoditi in vetrinette chiuse a chiave, per la maggior parte malridotte edizioni economiche di Jeffrey Archer e Jodi Picoult. Stava per sedersi su una delle poltrone di pelle quando si accorse di non essere sola. In un angolo c’era un gruppetto di persone sedute attorno a un tavolo, che si tenevano per mano a occhi chiusi. Un circolo di preghiera, forse. Con la spiacevole sensazione di essere un’intrusa, Helen prese una copia delle Cinque persone che incontri in cielo che trovò abbandonata su uno dei tavolini, e se ne andò.

Superò quindi il casinò e il bar, entrambi chiusi, salutando con un cenno del capo Jaco, che si preparava a cantare sul piccolo palcoscenico allestito accanto al bar del casinò. Provò di nuovo una certa pietà per lui; non aveva pubblico, a parte un paio di membri dell’equipaggio che stavano lucidando gli ottoni. Proseguì per la sua strada, costeggiando la sala da pranzo Dreamscapes foderata di cartelli CHIUSO, e scivolò a un tavolo davanti al duty-free, di fianco a un’enorme vetrata affacciata sull’oceano immobile. Una coppia ben vestita, più o meno della sua età, le passò davanti. Helen percepì il loro sguardo e si finse immersa nella lettura.

«Salve», disse la donna.

«Buongiorno.» Helen si augurò che proseguissero.

«Spero non le dispiaccia se glielo dico, ma ha l’aria un po’ sperduta. L’ho vista nella sala da pranzo Dreamscapes: è anche lei nell’ultimo turno della cena, vero?» I vividi occhi azzurri della donna sembravano quasi radioattivi, in contrasto con la pelle abbronzatissima.

Helen annuì e fissò ostentatamente il libro, nella speranza che la donna afferrasse il messaggio.

Invece no. «Non dovrebbe starsene da sola.»

«Sto bene. Leggo.»

«Oh, ma lei è inglese!»

«Sì.» Vattene.

La donna scivolò sul sedile accanto e il suo compagno, un tizio dalle palpebre cascanti che doveva essere il marito, si sedette di fronte. La donna tirò fuori un telefono e fece scorrere le schermate. «Sono stata a Londra l’anno scorso. L’ho adorata. Aspetti. Guardi questa!» La donna le mise il cellulare davanti al naso e Helen vide una foto del marito della donna che posava senza sorridere al fianco della principessa Diana. «Com’è che si chiamava quel posto, Jimmy?»

«Da Madame Tussaud.»

«Ah, sì, Madame Tussaud. A proposito, mi chiamo Annabeth, e lui è mio marito Jimmy.»

«Helen.»

«Helen! Che bel nome. Avevo una zia che si chiamava Helen. Te la ricordi, Jimmy?»

Un segno di assenso.

«Viaggia da sola, Helen?»

«No, sono con un’amica. Sta facendo un sonnellino in cabina.»

«Ah, sì, giusto. Ricordo di averla vista con un’altra persona in sala da pranzo, adesso che ci penso. Non ha mica torto. Fa un caldo infernale, non trova? Io e Jimmy veniamo dalla Florida, quindi non dobbiamo preoccuparci di perdere il volo per tornare a casa, ma gli altri non sono certo sulla nostra stessa barca. Oh, Jimmy, ma l’hai sentito cos’ho appena detto?»

Il marito le scoccò un sorrisetto rassegnato.

«Non dovrebbe stare qui da sola, Helen. La gente comincia a innervosirsi. E quella storia dei bagni che non funzionano. Perché non viene con noi? Siamo un bel gruppetto, ci prendiamo cura l’uno dell’altro. Per la maggior parte anziani, ma adesso c’è anche qualcuno più giovane.»

Un cameriere si avvicinò e in silenzio consegnò una bottiglia di acqua a ognuno di loro. Annabeth afferrò il braccio del cameriere, le vene che spiccavano come lombrichi sulla pelle abbronzata. «Grazie. Come sta? Come se la sta cavando l’equipaggio?»

«Stiamo tutti bene, grazie, signora.»

«Vi siamo molto grati per quello che state facendo per noi. C’è qualche novità?»

«No, signora, mi dispiace.»

Annabeth mollò la presa e gli diede un colpetto sul braccio. «Sono certa che Damien ci farà sapere quando il guasto verrà riparato.»

Il cameriere annuì e si allontanò.

«Helen, la prenderemo sotto la nostra ala. Venga con noi a conoscere il resto del gruppo.»

«No, vi ringrazio, sto bene così.»

«Non accetterò un no come risposta. Vi conosco, voi inglesi, sempre così educati. Su, venga a conoscere gli altri. Siamo un bel gruppo amichevole. E potrà conoscere Celine.»

«Celine del Ray?»

«Sì! Sa chi è?»

«L’ho conosciuta ieri sera.»

«Al suo punto di raccolta?» chiese Jimmy, quasi stupito di essere riuscito a infilare una parola anche lui.

«Oh, ma è splendido», rise Annabeth. «È il motivo per cui io e Jimmy siamo a bordo. Una nostra amica, Leila, ci ha iscritti appena ha letto su Facebook che Celine avrebbe fatto questa crociera con la Foveros. Celine ci ha aiutati così tanto, non è vero, Jimmy?» L’uomo annuì. «Sa, abbiamo perso nostra figlia», disse la donna in tono pratico.

«Mi dispiace.»

«Sette anni fa, cancro al seno.»

«Mi dispiace molto, dev’essere stato terribile.»

«Oh. È molto dolce da parte sua averlo detto. E così ho pensato... Se solo potessi parlare un’ultima volta con lei, sapere per certo che non soffre più, allora riuscirei ad andare avanti. La prima volta che sono andata da un sensitivo, Jimmy mi ha detto che ero pazza. Non credeva che fosse possibile parlare con qualcuno che è passato dall’altra parte. E, sa, nel profondo del cuore nemmeno io ci credevo davvero. Quelli da cui siamo stati... be’, si vedeva che nemmeno loro sapevano cosa stessero facendo. E avevamo i nostri dubbi anche su Celine, vero, Jimmy?» Annabeth si sporse verso di lei. «Avevamo sentito delle storie.»

Il mento dell’uomo tremolò. Annabeth allungò la mano a stringere quella del marito, e si scambiarono uno sguardo così carico di devozione che Helen non poté evitare di sentirsi commossa. «Ma quello che ci ha detto stamattina... Celine ha qualcosa di speciale. Un vero dono. Era come se Julia fosse proprio lì con noi. Sono sicura che farebbe una seduta anche per lei se glielo chiedesse.»

«Sto bene così, davvero.»

«Ci dev’essere qualcuno che vorrebbe contattare.»

«Non c’è.» E, anche se ci fosse stato, la donna volgare e inquietante con cui lei ed Elise avevano passato la serata precedente era l’ultima persona alla quale lo avrebbe chiesto.

«Lei non crede nell’anima, Helen?»

«Non so bene a cosa credo.» Una bugia. Solo che non aveva nessuna voglia di farsi convertire. A volte le sarebbe piaciuto poter credere in Dio e nel paradiso. Di tanto in tanto invidiava Elise, così sicura che Peter sarebbe stato lì ad aspettarla quando fosse morta. Helen non poteva contare su quelle rassicurazioni. E cos’avrebbe detto a Graham, se l’avesse rivisto? Era successo così all’improvviso. Una vittima delle quaranta sigarette al giorno che aveva fumato fin da quando aveva sedici anni. Dopo il dolore era venuto il rancore per essere stata abbandonata. Graham c’era sempre stato, per lei, a pungolarla, a ridere di lei, a vivere con lei. Sarà anche stato un cliché, ma era il suo migliore amico. Facevano tutto insieme, non avevano bisogno di nessun altro. Senza di lui la vita era... grigia. Ecco come. Spenta.

Helen si alzò. «Adesso devo proprio tornare dalla mia amica.»

«Bastano cinque minuti, Helen. Le facciamo solo vedere chi siamo, poi potrà sempre tornare a trovarci più tardi.»

Sarebbe stato facile andare con loro. In ogni caso, non aveva niente da perdere e niente da guadagnare. Appena la nave si fosse rimessa in movimento, lei ed Elise avrebbero potuto riesaminare i loro piani.

Helen si lasciò guidare verso l’ingresso della Starlight Dreamer Lounge, dove trovò ad accoglierla un gruppetto di gioviali uomini e donne di mezza età. La sala era quasi piena, con la maggior parte delle sedie occupata. Sul palco un tizio paffuto sulla ventina stava trafficando con un generatore portatile. Vide Maddie seduta da una parte, a testa china.

«La conosco», disse ad Annabeth.

«Maddie? È adorabile. Inglese anche lei. Celine non era in lei, i primi giorni della crociera, e Maddie si è presa cura di tutti noi.»

«Vado solo un momento a salutarla. Scusatemi.»

«Ma tornerà da noi, vero? Voglio presentarla agli altri.»

«Oh, certo», mentì Helen. Avrebbe scambiato due parole e poi se la sarebbe svignata di lì prima che Celine facesse la sua comparsa. Alcune persone si erano appisolate sulle sedie, ma le altre sorrisero amichevoli al suo passaggio. Sembrava davvero un’oasi di pace. Le luci erano smorzate, l’aria meno soffocante che in cabina, il che era strano considerato il numero di persone che c’era là dentro. Maddie non sollevò la testa quando si avvicinò al suo tavolo, tanto che Helen fu costretta a sfiorarle un braccio.

L’altra sussultò, facendo cadere la sua bottiglia di acqua. «Helen, cosa ci fa qui?»

L’anziana donna guardò verso il tavolo da dove Annabeth e Jimmy la stavano osservando. «Mi hanno invitata.»

«Gli Amici l’hanno trovata, eh? E messa alle strette.»

«Gli Amici?»

«Gli Amici di Celine. Il gruppo che ha pagato un sovrapprezzo per la crociera con lei.» Maddie agitò la mano. «Ma non ha importanza.»

«Celine dov’è?»

«Dietro le quinte a prepararsi. L’ho lasciata fare da sola.»

«A prepararsi per cosa?»

«Farà un’altra seduta. La terza di oggi, da non crederci.»

«Allora si sente decisamente meglio.»

«Oh, sì. Anzi, arriverei a dire che...»

Senza fanfare né annunci, Celine avanzò sul palco sulla sua sedia a rotelle. Helen gettò un’occhiata bramosa verso l’uscita. Decise di aspettare che il pubblico si distraesse per sgusciare via. «Prima di tutto vorrei dare il benvenuto ai nostri nuovi amici. Sono così contenta che vi siate potuti unire a noi. Qui ci prenderemo cura l’uno dell’altro. È un posto sicuro. Finché resteremo tutti insieme, staremo benissimo. Sappiate questo. Ciascuno di voi ha i propri angeli custodi e guide incaricati di proteggervi. Voi forse non li vedete, però potete percepirli, non è vero?»

Un’increspatura di assensi percorse la sala. Helen si sedette e guardò Maddie, che però si stava studiando il dorso delle mani. Tutti gli altri sembravano affascinati da Celine.

«Sappiate questo, i vostri guardiani e le vostre guide e gli spiriti dei trapassati si stanno facendo avanti. Sappiate questo, la morte non esiste.» Celine fece una pausa, e Helen era quasi sicura che stesse guardando dritta verso di lei. «Ma ciò non significa che la vita non sia un dono prezioso.» Un sorriso sardonico. Helen si agitò a disagio sulla sedia. «Un momento... Le mie guide, Archie e la mia cara Lizzie Bean, mi comunicano che ci sono messaggi urgenti da trasmettere e contatti da prendere.»

Il pubblico sembrava aver smesso di respirare.

«Un uomo... Si sta facendo avanti un uomo. Sì. Sappiate questo, sta cercando di mettersi in contatto con qualcuno. La lettera G significa niente per qualcuno di voi? Aspettate... Oooh. È molto alto. Un bell’uomo. Un po’ di pancetta, ma siamo esseri umani, no? Possiamo passare sopra certi piccoli dettagli, non è vero, Amici?»

La folla fu percorsa da una risata. Helen avvertì sulla pelle una specie di formicolio. Sapeva cosa stava per arrivare. «E sappiate questo: il corpo fisico non è qualcosa di cui dobbiamo preoccuparci quando passiamo dall’altra parte. Adesso... Ecco... Perdonatemi, ma sento il bisogno di cantare. La mia voce non è un granché, ma l’uomo che si sta facendo avanti vuole che la canti. She was right next door, and such a strong persuader...» Celine s’interruppe. «Ha un senso per qualcuno di voi?»

Una mano strizzò il cuore di Helen e, per un secondo, fu sicura che avrebbe vomitato. Calmati, si disse. Erano dei furbacchioni, sensitivi e medium. Sapevano leggere le minime tracce ed escogitare astuti raggiri.

«Nessuno? Adesso lo ricevo con molta forza. E, sapete, mi viene da tossire.» Una risata sommessa. «Ho smesso di fumare da molti anni, ma devo dirvi che in questo momento ne ho una gran voglia.»

Helen si alzò rigida. «Ci vediamo più tardi, Maddie», si sentì dire.

Maddie alzò lo sguardo su di lei. «Si sente bene?»

«Ho solo bisogno di aria fresca.»

Helen si affrettò fuori, sbattendo lo stinco contro il bordo di un tavolino nella furia di uscire. Quasi non se ne accorse.

«Helen? Dove va?» la inseguì la voce di Annabeth.

Asciugandosi le lacrime – senza sapere se fossero dovute allo shock, alla rabbia, o alla tristezza – Helen corse via. Sfrecciò oltre il casinò e i battenti neri e serrati della Sandman Lounge, per un attimo spaventata dal suo stesso riflesso. Non c’era verso che Celine potesse conoscere quella canzone. Doveva essere entrata nella loro cabina, o forse aveva guardato il suo profilo su Facebook: sulla sua bacheca c’era una foto di Robert Cray, dai tempi dell’ultima volta in cui lei e Graham avevano assistito a un suo concerto dal vivo a Londra, anni addietro. Ecco tutto. Cominciò a rilassarsi. Trucchi da quattro soldi.

Quando raggiunse il ponte Verandah il suo respiro si era un po’ calmato, ma si concesse un attimo per ricomporsi prima di rientrare in cabina. Non voleva certo far preoccupare Elise. «Elise?»

Il letto di Elise era vuoto, lenzuola e cuscini in disordine.

«Elise?»

Un grido strozzato venne dal bagno. Helen spalancò la porta. Elise era stesa in terra, la sottana sollevata. «Non mi sento tanto bene, Helen. Mi fa male la testa. Credo, credo che...»