LE SORELLE SUICIDE
Helen appallottolò gli asciugamani sporchi che aveva usato per coprire il materasso e le lenzuola di Elise, e li gettò nella doccia. Ci strizzò sopra l’ultimo rimasuglio di shampoo e fece scorrere l’acqua. C’era poca pressione, ma era già grata che ci fosse l’acqua. Non voleva scocciare Althea con la richiesta di un altro cambio di biancheria: l’ultima volta che l’aveva vista, quella povera ragazza sembrava esausta.
A Helen tremavano le mani mentre inumidiva una pezzuola sotto il rubinetto. Diverse volte, nel corso della notte, si era convinta che Elise se ne fosse andata. Morta. Mancata, o qualsiasi altro eufemismo si volesse usare. Li aveva sentiti tutti, dopo la morte di Graham, insieme con: «Sentite condoglianze, il dolore passerà, se c’è qualcosa che posso fare...» Frasi di convenienza che lei stessa aveva usato un mucchio di volte. «Mi dispiace tanto, ti dispiace tanto, dispiace un casino a tutti.» Inspirò a fatica e si aggrappò al lavandino. C’era un dolore costante appena sotto il plesso solare. Se Elise fosse morta, sarebbe rimasta completamente sola su quella maledetta nave. Il solo pensiero la faceva sentire in precario equilibrio sul bordo di un edifico altissimo, a guardare in basso. Aveva i sonniferi, ma dalle sue ricerche sapeva che potevano anche fallire. Potevano non bastare. E non voleva farlo da sola.
Meglio insieme.
Non credeva che sarebbe riuscita a farlo da sola.
Le lacrime stavano premendo per uscire, ma sarebbero state solo lacrime di autocompatimento, e non poteva lasciarsi andare fino a quel punto. Giusto. Su con la vita, ragazza mia, disse nella sua testa la voce di Graham. Sei forte, puoi farcela. Sei più forte di quanto credi. Il dolore nel petto s’intensificò, e si sentì travolgere da un’improvvisa quanto inaspettata ondata di nostalgia di casa.
Non ho nessuna casa dove tornare.
Imballare ogni traccia della sua vita con Graham era stata una delle faccende che si era costretta a completare la settimana prima di partire per Miami. All’inizio non sopportava l’idea di gettare via niente che lui avesse toccato – c’era voluta tutta la sua forza di volontà per frugare nella scrivania o togliere di mezzo qualsiasi oggetto conservasse anche soltanto un’ombra del suo odore – ma, dopo che era riuscita a inscatolare le sue camicie destinate all’Oxfam (un’organizzazione che l’aveva fatta piangere per un pomeriggio intero), c’era stata la svolta, e aveva finito col gettare via tutto col più completo abbandono. Meglio che lasciarlo ai nipoti di Graham, che alla fine avrebbero ereditato la casa.
Si sforzò di controllare l’emozione, si sciacquò mani e faccia, e tornò in camera. Sapeva di correre seriamente il rischio di rimanere contagiata. L’infermiera venuta a controllare Elise quella mattina, una rossa spiccia ed esausta che puzzava vagamente di alcol, le aveva spiegato con quanta facilità si trasmettesse il norovirus. Helen aveva fatto attenzione, ma dubitava di poter resistere a lungo senza prenderselo. Aveva insistito affinché Elise venisse ricoverata in infermeria e tenuta sotto osservazione, ma l’infermiera aveva detto che stava meglio nella sua cabina. Se non altro lì, col balcone, poteva avere un po’ di aria fresca.
«Helen», gracchiò Elise, annaspando alla ricerca della sua mano. Aveva la pelle calda e umida, la camicia da notte fradicia di sudore.
«Devi andare in bagno?»
«Nooo. Ho sete.»
Helen le avvicinò il bicchiere alle labbra. Elise riuscì a mandar giù tre piccoli sorsi, meglio di niente. Doveva proprio cambiarle quella camicia da notte. La prima volta che l’aveva fatto era rimasta sbalordita da quanto della sua vita Elise le avesse nascosto. Il suo corpo nudo aveva rivelato molti segreti. La cicatrice della mastectomia, una porzione di pelle crudelmente sollevata, l’aveva scossa. Elise non gliene aveva mai parlato, e Helen non si era mai accorta (o forse era stata troppo concentrata su se stessa per accorgersene) che l’amica portasse una protesi. Eppure il corpo di Elise era bellissimo, a modo suo, le cosce e il ventre lisci, paffuti ma privi della cellulite che aveva sempre tormentato Helen, indipendentemente dalle ore trascorse a camminare.
L’altoparlante emise un bip, segnalando un altro degli interminabili annunci di Damien. Poco prima ce n’era stato uno del comandante (Era anche ora, aveva pensato), con cui informava che tutti i sistemi di comunicazione erano ancora fuori servizio e che una barca di appoggio era stata mandata per comunicare la loro posizione alla guardia costiera. Era chiaro che la loro situazione era molto più seria di quanto l’equipaggio avesse lasciato intendere. Cercò di non ascoltare Damien che ripeteva tutte le solite scuse e insulsaggini, ma a un certo punto qualcosa risvegliò la sua attenzione: «... la nostra celebrità di bordo, Celine del Ray, si è generosamente offerta di intrattenere chiunque voglia raggiungerla. Vi aspetta al Dare to Dream Theatre tra cinquanta minuti».
Helen rabbrividì. Bastava il pensiero di Celine a darle la nausea. Quella donna era un’imbrogliona. Un’artista della truffa e della manipolazione.
Qualcuno bussò alla porta, forse era di nuovo Maddie che tornava a controllarle. Celine poteva anche essere un mostro, ma Maddie era sempre stata gentile. Sbirciò dallo spioncino e riconobbe il dottore, quello che era andato a visitare Celine l’ultimo dell’anno. Finalmente.
«Posso controllare la passeggera?» chiese quando Helen lo invitò a entrare con un gesto della mano. Aveva gli occhi iniettati di sangue che tendevano al giallo, mentre una mascherina chirurgica gli pendeva floscia attorno al collo. «Se non sbaglio ieri è passata a vederla l’infermiera, giusto?»
«Sì.»
«Com’è stata?» Soffocò uno sbadiglio.
«Non bene.»
«Vomito? Diarrea?»
«Sì, ma non in quest’ultima ora. È un buon segno?»
Il dottore emise un suono indistinto. «Come si chiama? Mi scusi, so che me l’ha già detto ieri sera... no, era l’altro ieri. Ho perso anche la cognizione del tempo.» Cercò di sorridere, ma senza troppo successo.
A Helen quasi dispiaceva per lui. Quasi. «Si chiama Elise. Elise Mayberry.»
«Mi scusi.»
«La prego. Le dia solo un’occhiata, dottore.»
Helen rimase a osservare ansiosa, mentre lui auscultava il petto di Elise e poi le metteva il bracciale per misurarle la pressione.
«Allora?»
Un altro grugnito poco impegnativo.
«Dottore, devo saperlo. C’è la possibilità... che possa morire per questa cosa?» Non lasciarmi, Elise. Non lasciarmi.
«È molto improbabile. Il polso è abbastanza forte. La pressione non mi preoccupa, ma deve assicurarsi che assuma liquidi a sufficienza. Se non migliora, potrebbe essere necessario farle una flebo.»
«Quando finirà questa storia?»
Lui sospirò e si raddrizzò. «Vorrei saperglielo dire. Dev’essere molto dura per lei. Riesce a riposarsi abbastanza?»
«Sto bene.» Non era vero. Praticamente non aveva più chiuso occhio da quando Elise si era ammalata. Ma non si trattava di lei.
Accompagnò fuori il dottore e poi si distese sul proprio letto. Sarebbe stato così facile da fare. I sonniferi erano nella borsa di Elise appesa alla sedia. Però adesso non si sarebbero potute lasciar scivolare in mare, anche se Elise fosse stata abbastanza in forze. Anche ammesso di poter evitare che le ripescassero, l’acqua attorno alla nave era piatta come uno stagno, la superficie ingombra di sacchetti di plastica rossa. Se si fosse buttata, rischiava d’inghiottire il sudiciume di qualcun altro. No. Doveva essere coraggiosa. Non poteva volerci molto...
Sul balcone c’era qualcuno... un uomo. Strillò, ripensando alla figura intravista nel buio nella cabina di Celine, l’ultimo dell’anno. Socchiuse gli occhi per limitare il riverbero della luce e guardò meglio. Aveva qualcosa di familiare, e poi lo riconobbe. Jaco, il musicista. Corse alla portafinestra e la chiuse di colpo, proprio mentre lui si voltava per tendere la mano a una bionda alta, che stava salendo dalla scaletta metallica che portava alla scialuppa davanti alla cabina. Helen non si era mai accorta che fosse così facile raggiungere la loro cabina dal ponte sottostante.
Jaco bussò al vetro e le fece un gran sorriso. «Ehi. Ci farebbe entrare?»
«Cosa... che ci fate qui?»
«Là sul ponte è un macello. Cercavamo solo un posto per stare un po’ tranquilli. Io sono Jaco e lei è Lulia. Lulia è una delle ballerine.»
«Salve, lieta di conoscerla», disse Lulia. Lunghi capelli ossigenati e truccata di tutto punto. La donna aveva quelli che Graham avrebbe definito «occhi sfuggenti». Giudicava sempre le persone a prima vista e, per quanto lei ricordasse, non si era mai sbagliato.
«Non dovreste essere quassù. La mia amica è malata. Ha bisogno di riposo.»
La ragazza fece per ritrarsi, ma Jaco la tenne per il polso. «Ci chiedevamo se potevamo starcene solo seduti sul suo balcone per un po’. Magari bere qualcosa.»
«Come dicevo, la mia amica sta molto male.»
«Non ci fermeremo per molto.»
«La prego. La gente si sta ammalando ovunque. Vogliamo solo un posto tranquillo dove poterci sedere per aspettare che finisca», disse Lulia.
«Ci sarà qualche altro posto dove potete andare.»
«No. La zona dell’equipaggio è messa male. L’aria è terribile.»
L’istinto di Helen le diceva di liberarsi di loro, ma che razza di persona sarebbe stata se non avesse offerto loro almeno qualcosa da bere? Riluttante, aprì la portafinestra. «Entrate. Ma solo per un momento.»
«Grazie. Lo apprezzo davvero», le sorrise Jaco.
«Puzza.» Lulia agitò una mano davanti alla faccia. «Dovevamo provare a entrare nella suite dell’armatore.»
«Ve l’avevo detto che la mia amica sta male. È contagiosa.»
«Staremo attenti», disse Jaco.
«Lei come si chiama?» chiese Lulia.
«Helen.»
Lulia si sedette sul divano e accavallò le gambe, scure di autoabbronzante e irte di ricrescita. Era scalza, le dita così lunghe da fare quasi impressione. «Lei ha visto gli spettacoli?»
«Sì.» Era una bugia. Detestava con tutto il cuore il cabaret. Elise era andata a vedere Daydream Fantastique Extravaganza o un altro assurdo titolo del genere la prima sera passata a bordo, e aveva detto che era stato «interessante», la critica più distruttiva di cui fosse capace Elise.
«Dobbiamo cantare e anche ballare.»
«È stata molto brava.»
«Grazie. La sua amica, siete amanti?»
«No, solo amiche.»
«Come mai questa crociera? È per gente giovane.»
«Basta con le domande.» Jaco rise. «Di nuovo, Helen, non sa quanto l’apprezzi. La gente sembra impazzita, in giro. Vedono i fantasmi.»
Helen impallidì. «Fantasmi?»
«Sì. Sulle navi ci sono un sacco di persone superstiziose.»
«E c’è un puzzo terribile. La gente la fa ovunque. Peggio dei maiali.»
Jaco indicò il minibar. «Le dispiace se beviamo un po’ di acqua? Poi vado a prendergliene dell’altra.»
«Faccia pure.»
Jaco si sedette sui talloni e guardò nel frigo. «Champagne. Non l’avete bevuto per l’ultimo dell’anno, eh?»
«No.»
«Le dico io cosa facciamo. Lei aiuta noi, noi aiutiamo lei. Che gliene pare del piano?»
«Non credo che sia una buona idea.»
Lui si voltò e le sorrise. «Ehi, può fidarsi di me. Sono un musicista.»