IL CONDANNATO
Gary premette la fronte contro la parete, rabbrividendo quando l’acqua fredda gli scivolò lungo la schiena. La pelle del ventre e all’interno delle cosce bruciava dove se l’era strofinata con lo spazzolino da unghie di Marilyn; aveva i polpastrelli cotti dall’acqua. Era rimasto sotto la doccia per più di un’ora e il puzzo di Pantene stava diventando insopportabile: aveva usato tutto il bagnoschiuma omaggio e lo shampoo di Marilyn sui vestiti della sera prima, pesticciandoli come un pigiauva impazzito. Erano appallottolati in un angolo della doccia. Senza candeggina a disposizione, non c’era garanzia che non trattenessero tracce del DNA della sua ragazza. Doveva gettarli fuori bordo appena possibile.
Concentrati sull’acqua. Pensa al freddo. Ma non funzionava: i pensieri neri stavano tornando. Marilyn aveva abboccato alla sua frottola del mal di stomaco, ma dubitava che gli avrebbe permesso di scansare i festeggiamenti della serata, a meno che non fosse stato davvero in punto di morte. Forse poteva sforzarsi di vomitare facendosi sentire da lei, magari cacciandosi le dita in gola, ma era così attanagliato dall’ansia che cominciava a temere di non doverlo nemmeno simulare.
Perché ormai dovevano aver trovato la sua ragazza. Il personale di cabina era meticoloso, gli steward sistemavano le cabine due volte al giorno e ormai erano passate più di dodici ore da quando lei...
Un rombo sotto i piedi; un sussulto. La doccia sputacchiò e Gary spalancò gli occhi nel buio. Per un secondo si convinse di essere diventato cieco – La punizione di Dio! – e poi, mentre una vibrazione gli risaliva dalla pianta dei piedi, capì che doveva esserci qualcosa che non andava nella nave. Chiuse l’acqua, annaspò alla ricerca di un asciugamano e rimase in ascolto. Il ronzio di fondo dell’aria condizionata era scomparso, e ciò lo fece sentire in qualche modo più leggero, come se potesse finalmente pensare in maniera razionale. Tastò attorno al lavandino per trovare gli occhiali, poi si avventurò fuori dal bagno. Attese che gli occhi si abituassero all’oscurità, ma ovviamente non lo fecero: non c’era nessuna fonte di luce naturale in cabina; d’altronde, prenotava sempre le cabine interne perché costavano meno. Un cicalino risuonò ripetutamente, si sentì un messaggio reso indecifrabile dai crepitii dell’altoparlante e poi: «Salve, gente. È Damien che vi parla, il vostro direttore di crociera. Solo per informarvi che abbiamo avuto un problema con l’impianto elettrico. Niente per cui allarmarsi. Per la vostra sicurezza, vi preghiamo di voler cortesemente rientrare nelle vostre cabine e attendere ulteriori istruzioni, grazie. Ribadisco, non c’è niente di cui preoccuparsi. Vi aggiorneremo al più presto».
Gary si avvicinò lentamente alla porta e riuscì ad aprirla. Un tizio a torso nudo, con corna di plastica da diavolo in testa, girò l’angolo, con una donna in bikini e scarpe alte dorate che gli trotterellava dietro. Quando si avvicinarono, le strisce delle luci di emergenza tinsero la loro pelle di una sinistra sfumatura verdognola. Il pavimento sembrò abbassarsi di colpo e Gary fece un passo indietro, lasciando che la porta si richiudesse di colpo. La bocca gli si riempì di saliva. Fuori si sentirono sbattere altre porte, una donna urlò, qualcuno gridò a un certo Kevin di «muovere il culo».
Tornò verso il letto trascinando i piedi e sussultò quando le luci tornarono lampeggiando. Erano molto più fioche del solito e gettavano un chiarore malsano in cabina. L’acqua gli colava lungo i peli delle gambe. Il panico era adesso così intenso che poteva quasi scorgerlo, come un oggetto tangibile ai margini della sua visuale.
Era solo un guasto tecnico, capitavano di continuo, la Foveros era famosa per quello. E, anche se l’avessero trovata, l’ultima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata fermare la nave. No, stava solo lasciando campo libero alla sua paranoia. Si afferrò un polso, aggrappandosi alla pulsazione appena percettibile e si costrinse a contare alla rovescia a partire da cento. Poi di nuovo, e poi ancora. Bene. Adesso respirare era più facile.
La serratura scattò, si spalancò la porta e Marilyn si precipitò dentro. «Gary! Sei qui!»
Parla. «E dove dovrei essere?»
«Tesoro, credo che dovremmo uscire di qui. Andare al punto di raccolta. Giurerei di aver sentito odore di fumo.»
«Damien ha detto di restare nelle cabine.»
«Non hai capito? Ho sentito odore di fumo, Gary.» Era senza fiato, la faccia grassa lucida di sudore. «Gli ascensori hanno smesso di funzionare, dev’esserci gente intrappolata dentro. Cosa credi che sia successo?»
«Un qualche guasto meccanico. Niente di serio, vedrai.» La sua voce suonava spezzata, più stridula del solito, ma lei sembrò non badarci. Marilyn non era certo una grande osservatrice: era uno dei motivi per cui l’aveva sposata.
La donna socchiuse gli occhi. «Tesoro... com’è che non sei vestito?»
«Ero sotto la doccia.»
«Di nuovo? Con tutto quello che succede?»
Respira a fondo, non tradirti. «Ero sotto la doccia quand’è successo.»
«E sei davvero convinto che non sia niente di grave?»
«Certo. Ti ricordi cos’era successo sulla Beautiful Wonder? L’hanno sistemato in un batter d’occhio.»
«Oh, immagino che... Be’, continuo a credere che dovremmo andare. Paulie e Selena hanno detto che ci aspettano sull’Undici. Tesoro, il nostro punto di raccolta è proprio lì.»
«Chi diavolo sono Paulie e Selena?»
«La coppia più simpatica del mondo. Abbiamo fatto amicizia a cena. Ho deciso di andare al buffet del Lido invece che al Dreamscapes, anche se le file al tavolo degli spaghetti erano così lunghe! È stato lì che ci siamo messi a chiacchierare, in coda. Quand’è successo eravamo seduti insieme sul ponte Tranquillity. E poi, amore, non lo indovineresti mai.»
«Cosa?» Gary fece del suo meglio per apparire interessato. Gli facevano male le guance.
«Sono crocieristi Silver della Foveros, proprio come noi, ed erano anche sulla Beautiful Wish l’anno scorso, la rotta delle Bahamas, solo una settimana dopo di noi!»
«Incredibile!»
«Vero? Proprio come ho detto io. Erano preoccupatissimi quando gli ho detto che non ti sentivi bene.» Tipico di Marilyn: sembrava fosse la sua missione attaccare discorso con più estranei possibili durante la loro crociera annuale. La maggior parte delle sue nuove amicizie aveva vita breve, volubile com’era. Gary si baloccò con l’idea di chiederle se si fosse accorta della sua assenza, quella mattina presto. Non ci sarebbe stato niente di strano, erano anni che fingeva di soffrire d’insonnia e lei non si era ancora chiesta come mai l’unico rimedio efficace fosse uscire a fare due passi. Ma stavolta era diverso. Se si era svegliata presto e si era accorta che lui non c’era, sarebbe stata disposta a fornirgli un alibi? Non poteva giurarci. Se la immaginava al banco dei testimoni, a singhiozzare che non aveva idea di aver sposato un mostro.
«Gary!»
«Eh?»
«Ho detto che secondo me dovremmo andare lo stesso. Non hai intenzione di vestirti?»
«Tu intanto vai, ti raggiungo.»
«E se poi...»
«Va’ e basta, Marilyn.»
«Non c’è bisogno che ti arrabbi con me.»
Fai marcia indietro. «Andrà tutto bene, tesoro. Sono cose che succedono sempre, in crociera.»
«Ma io ho bisogno di te, Gary.»
«Tesoro, ho ancora il pancino in subbuglio.» Trasalì usando quel diminutivo da Marilyn, ma funzionò.
«Oh, Gary. Non ti ho neppure chiesto come stai.»
«Ho vomitato di nuovo, ho dovuto usare il tuo shampoo per lavarmi i vestiti.»
«Oh, povero amore, non preoccuparti.»
Gary si congratulò mentalmente con se stesso. «Tu adesso va’ a raggiungere i tuoi amici e non preoccuparti per me. Damien non ci avrebbe invitati a restare in cabina se ci fosse qualche pericolo.»
«Se ne sei sicuro...»
«Sicurissimo. Se dovessero dirci di raggiungere i punti di raccolta, verrò subito a cercarti.»
«Va bene. Detesto andarmene ma è solo... Non credo che riuscirei a stare qua sotto.»
Fece per abbracciarlo e lui si ritrasse, ricadendo sui gomiti. «Meglio di no. Non vorrei rischiare di contagiarti.»
«Sei sempre così premuroso. Nel caso sai dove devi andare, vero?»
«Certo. Mi sentirò molto meglio sapendoti al sicuro.»
Quasi urlò di sollievo quando la porta si chiuse dietro di lei.
Adesso a noi. Pensaci bene e con calma. Ripeti tutto dal principio, e senza perdere la calma, stavolta.
Le pillole rimaste le aveva buttate nel cesso del bagno degli uomini davanti alla Sandman Lounge, quindi restavano i suoi vestiti, i guanti e il berretto. Poteva liberarsene con facilità durante la festa, quando sarebbero stati tutti presi a brindare. Ma... e se avessero cancellato i festeggiamenti? Tutto dipendeva dal fatto che risolvessero in tempo il guasto meccanico o quel che era. Sì, l’avrebbero sistemato. Non poteva stare a preoccuparsi anche per quello.
E poi... gli amici della ragazza si sarebbero ricordati di lui? Non aveva fatto niente per attirare l’attenzione, non aveva neppure parlato con lei al bar, ed era orgoglioso del proprio aspetto comune. Dopo anni di attenti studi aveva imparato che la gente tendeva a fissare l’attenzione sui dettagli più caratteristici: baffi, occhiali, vestiti sgargianti, difetti fisici. Le telecamere di sicurezza e il riconoscimento facciale non erano un problema: aveva tenuto la testa bassa seguendola in cabina, e il berretto aveva nascosto la sua calvizie. Una volta che si fosse liberato dei vestiti non ci sarebbe stato modo d’identificarlo, e comunque la normalissima camicia sportiva blu e gli shorts kaki non si facevano certo notare, anzi, potevano addirittura confondersi con l’uniforme del personale di basso livello.
Tanto meglio.
E allora perché continuava ad avere la sensazione di essersi perso qualcosa per strada? Pensa.
Arrivò come uno scroscio di acqua gelata: il cartello NON DISTURBARE, IN CROCIERA ME LA DORMO. Di colpo ebbe la sconvolgente sensazione di essersi già sfilato i guanti da chirurgo quando l’aveva fatto scivolare sulla maniglia della porta. Oh, Dio. Lì sopra c’erano il suo DNA e le sue impronte. Forse poteva dire di averlo sfiorato passando?
Sì. No. Come spiegare cosa ci faceva su quel ponte? La cabina era un ponte più in alto della sua, ma a metà strada di un corridoio che non portava da nessuna parte.
Era la sua punizione per essersi scostato dal piano. Sarebbe dovuto succedere quella sera, la notte di Capodanno, quand’erano tutti ubriachi e presi da tutt’altro. Di solito era così meticoloso. Mr Opportunità. Non correva mai rischi. Non trascurava mai nulla. Aveva un sistema. Ma se l’era trovata davanti sola al bar, a guardare tristemente gli amici che ballavano e flirtavano con gli altri single del gruppo. Un’occasione troppo ghiotta per rinunciarci. Aveva ceduto alla tentazione e adesso doveva pagare. C’era una buona ragione per farlo sempre l’ultima notte della crociera: la confusione che regnava il mattino successivo, mentre tutti i passeggeri venivano fatti sbarcare, garantiva altissime possibilità di passare inosservati. Buona parte delle ragazze non si ricordava neppure cos’era successo fino a molto dopo. Giorni, a volte persino settimane. E a quel punto era troppo tardi. Senza contare che aveva letto su innumerevoli forum che il personale della sicurezza faceva di tutto per convincere le vittime di aggressioni sessuali a bordo a non presentare denuncia. L’ultima cosa che la Foveros desiderava era altra pubblicità negativa.
Se però l’avevano già trovata sarebbero stati costretti a indagare. La Foveros aveva già una brutta fama per quanto riguardava la sicurezza a bordo, che si aggiungeva a tutte quelle accuse di non rispettare gli standard di igiene richiesti. Non avrebbero fatto la stupidaggine di cercare di coprire una cosa del genere. Ma che gli era preso?
Forse si era lasciato cullare da un falso senso di sicurezza perché fino ad allora era sempre andato tutto liscio. Il primo giorno si mostrava sempre particolarmente premuroso con Marilyn, arrivava presto per prenotarle dei trattamenti al centro benessere, così da tenerla occupata mentre lui passava in rassegna le passeggere. Le crociere newyorkesi della Foveros attiravano sempre un bell’assortimento di single vogliose, e lui non faceva troppo il difficile sull’età. Le preferiva leggermente sovrappeso, bionde o rosse. Non troppo sicure di sé: gregarie più che leader. Nel corso degli anni aveva raffinato l’arte di pescare il brutto anatroccolo della festa, quella destinata a fare tappezzeria, la damigella di nozze scelta all’ultimo momento. Alla crociera di Capodanno partecipavano di solito centinaia di inglesi, che approfittavano allegramente delle offerte speciali sulle cabine e sui cocktail. Le inglesi tendevano a godersela molto più delle americane, e di solito avevano (secondo lui) una minore autostima.
Aveva individuato la sua ragazza all’happy hour della Sandman Lounge, e l’aveva sorvegliata con la coda dell’occhio mentre Marilyn si manteneva costantemente ubriaca di Mai Tai a metà prezzo. Riusciva sempre a stupirsi per la facilità con cui riconosceva subito le sue ragazze, nemmeno fossero loro a chiamarlo. Era proprio il suo tipo, quindici o venti chili di troppo, flosci capelli biondi, gravitava ai margini di un folto gruppo di trentenni che se la ridevano alle loro stesse battute. Il secondo giorno l’aveva rivista in coda per la pizza, cosce e spalle rosso ciliegia per essersi scottata al sole, ed era ancora più evidente che il resto del gruppo tendeva a emarginarla (aveva gioito alla desolazione nei suoi occhi). Un’altra tessera era andata al suo posto quando aveva mollato il gruppo, e lui l’aveva seguita a una certa distanza mentre tornava verso la sua cabina imboccando le scale anziché prendere l’ascensore. Gary aveva preso nota del suo numero di cabina – M446 – ed era passato oltre.
E la sera precedente, be’... sembrava tutto predestinato. Quand’erano tornati a bordo dopo la gita a Cozumel, Marilyn era esausta. Gary aveva prenotato apposta un’escursione che includeva una giornata in spiaggia seguita da una visita a certe noiosissime rovine maya. Per tutto il tempo Marilyn non aveva fatto altro che lagnarsi per il caldo e le zanzare (come buona parte dei loro compagni di crociera) e poi, stroncata dall’insolito esercizio fisico, si era addormentata come un sasso appena risaliti sulla nave. Lui era scivolato fuori con l’intenzione di limitarsi a completare il suo esame preliminare per assicurarsi che la ragazza prescelta fosse davvero lei.
Ed eccola, che pareva aspettarlo.
Portava sempre con sé i ferri del mestiere: non era il caso che Marilyn trovasse per caso la piccola borsa con la sua roba. Era stato facile sgusciare nel bagno degli uomini per togliersi gli occhiali e metterli in tasca, e infilarsi il berretto. Facile anche controllare che il barista e gli altri clienti badassero ad altro. Facile sbriciolarle la pillola nel bicchiere da cocktail. Facile aspettare che cominciasse a mostrare segni di cedimento. Facile aspettare che uscisse barcollando dal salone. Facile aspettare che s’infilasse a fatica nell’ascensore mentre lui scendeva le scale fino al suo ponte. Facile rintracciarla nel corridoio, col cuore che batteva forte e con l’inguine che fremeva nell’attesa. Facile darle una mano quando non era riuscita a usare la chiave elettronica. Facile introdursi in cabina con lei, mormorandole che voleva solo aiutarla. Facile...
Gary trasalì quando sette fortissimi bip echeggiarono dall’altoparlante seguiti da: «Salve, gente, è ancora Damien, il vostro direttore di crociera, che vi parla. Dobbiamo chiedervi la cortesia di dirigervi con calma verso i punti di raccolta a voi assegnati. Questa non è un’esercitazione, ma non c’è comunque motivo di allarmarsi. Personale ed equipaggio saranno a vostra disposizione per aiutarvi a trovare i punti di raccolta, che sono anche indicati sul lato interno della porta della vostra cabina e sulla vostra card Foveros Fun. Ripeto, non c’è motivo di allarmarsi. La vostra sicurezza è il nostro primo pensiero».
Il suono di voci esagitate, porte che sbattevano e passi di corsa filtrava dal corridoio. Gary non si mosse, limitandosi ad ascoltare la confusione che svaniva in lontananza.
Contò di nuovo all’indietro a partire da cento, ed era arrivato a cinquanta quando sentì qualcuno – probabilmente uno degli steward – che bussava alla porta. Gli dolevano le dita a forza di serrarle e rilassarle. Le viscere gli si annodarono. Doveva nascondersi? Forse poteva infilarsi nell’armadio. E se lo steward avesse avuto istruzioni di perquisire la cabina? Non avrebbe fatto una buona impressione se l’avessero beccato che cercava di nascondersi nell’armadio.
La ragazza doveva essere la sua numero quattro. Il suo numero fortunato.
L’aveva accompagnata fino al letto. Lei non aveva detto molto, aveva solo borbottato di avere la nausea, o qualcosa del genere. Si era abbandonata sul materasso, supina, lo sguardo vitreo. Quando i muscoli del viso si erano afflosciati, lui aveva cominciato. All’inizio non si era permesso di toccare, solo guardare. Poi piano, con tocco lieve, le aveva fatto scorrere le mani sulle cosce, sul seno, sul ventre. Calzoncini attillati, un top con le spalline. Le aveva sollevato il top scoprendo un reggiseno color carne. Doveva farla rotolare su un fianco per slacciarlo e stava giusto per farlo quando lei aveva tossito, poi un rigurgito, e lui era dovuto schizzare indietro per evitare il vomito che le usciva di bocca. Lei aveva rabbrividito e poi tossito ancora. Soffocava. Stava soffocando. Lui...
Bam, bam, bam, alla porta. Rimase seduto assolutamente immobile, mordendosi la lingua, nell’assurda speranza che, chiunque fosse, passasse oltre. La serratura scattò, la porta si aprì e un asiatico infilò la testa nella cabina. Non era la solita steward, una bella ragazza filippina che Marilyn aveva detestato a prima vista. «Non si sente bene, signore?» chiese lo steward. «Non mi ha sentito bussare?»
«No. Sto bene, sono solo stanco.»
«Signore, deve raggiungere il suo punto di raccolta. Sa come arrivarci?»
«Sta controllando tutte le cabine?»
Lo steward si accigliò.
Gary quasi non riuscì a credere di aver fatto una domanda così stupida. «Voglio dire, per essere certo che siano tutti al sicuro.»
«Oh, sì, signore. La vostra sicurezza è molto importante per noi.»
«Devo vestirmi.»
«La prego di sbrigarsi, signore. Ripasserò tra poco.»
Ecco fatto. Se anche non se n’erano ancora accorti, se per qualche miracolo i suoi amici o lo steward della sua cabina ancora non l’avevano trovata, adesso non c’era verso che non la scoprissero. S’infilò un paio di calzoni corti e una camicia, cercando di non pensare ai vestiti fradici in un angolo della doccia. Poi inspirò a fondo e si mise i sandali ai piedi.
La sua unica speranza era cavarsela a suon di faccia tosta.
Non aveva neppure controllato se fosse ancora viva, ma lo sapeva. Se lo sentiva fin nelle ossa, che non lo era. La sua ragazza era soffocata a morte, mentre Damien cinguettava dalla TV, il dorso della mano che sbatteva sul materasso – tac, tac, tac: «... e non dimenticate i nostri spettacoli esclusivi nella Starlight Dreamer Lounge...» – tac, tac – «... solo per un periodo limitato troverete gli orologi Xenus in offerta con l’incredibile sconto del quaranta per cento...»
Dopo molti lunghissimi minuti dalla gola le era scaturito un suono... Non era proprio un rantolo di morte, quanto piuttosto un sibilo. Un’ultima esalazione sconfitta. Senza considerare le implicazioni di quello che stava facendo, con un piede l’aveva fatta rotolare giù dal materasso matrimoniale, nello spazio tra il letto e la parete, e le aveva gettato sopra la trapunta.
Quello era stato l’errore più grave. Adesso avrebbero capito subito che era coinvolto qualcun altro. Se l’avesse semplicemente lasciata sul letto, con ogni probabilità avrebbero attribuito la sua morte a una fatale intossicazione alcolica.
Sgusciò nel corridoio ormai deserto e fece cenno allo steward, che controllava le ultime cabine e inseriva chiavi elettroniche rosse nelle fessure delle serrature. «Grazie per avermi aspettato», gli disse Gary. «Mi scusi se le ho fatto perdere tempo.» Bene. La sua voce sembrava calma, controllata. «L’uomo che ho incontrato non aveva l’aria nervosa o colpevole», immaginava avrebbe riferito lo steward al capo della sicurezza o, Dio non volesse, all’FBI o Scotland Yard o qualsiasi altra agenzia incaricata di indagare sulla morte di un passeggero di nazionalità britannica.
«Nessun problema, signore. La prego di fare presto. Troverà il suo giubbotto di salvataggio al punto di raccolta.»
Gary si diresse rigidamente verso le scale, i sandali che ciabattavano sulla moquette. Era più buio lì, il corrimano metallico delle scale intiepidito dal contatto di innumerevoli mani. Annusò l’aria. Aveva ragione Marilyn, c’era odore di fumo che sembrava salire dai livelli inferiori. Aumentò il passo, esitando quando arrivò al piano della sua ragazza.
Sarebbe stato così facile girare l’angolo e sbirciare nel corridoio verso la sua cabina. Fece un paio di scalini verso il livello successivo, poi fece dietrofront e corse verso l’imboccatura del corridoio. Gli si contrassero le viscere, quasi non ci credeva nemmeno lui a quello che stava facendo, ma qualcosa aveva preso il sopravvento e non riusciva a fermarsi.
Le chiavi elettroniche rosse che indicavano le cabine non occupate erano infilate in tutte le porte. Il corridoio si allungava come in un’illusione ottica, il fondo che si perdeva nell’oscurità. Si affrettò, fermandosi di botto quando vide che anche nella fessura della porta della sua ragazza c’era una chiave elettronica rossa.
Qualcuno aveva controllato la cabina. Se l’avessero trovata ci sarebbe stato da aspettarsi qualcuno della sicurezza davanti alla porta, a meno che sulla nave non avessero già deciso di mettere tutto a tacere. O forse non è morta, dopotutto. Potrebbe anche trovarsi in infermeria, inebetita e confusa, a cercare ancora di rimettere insieme i fatti della serata. Tornò sui suoi passi, più in fretta che poteva, e fu solo quando arrivò alle scale che gli venne in mente. Non si era ricordato di nascondere la faccia alle telecamere di sicurezza.