LE SORELLE SUICIDE
Urla. Sentiva urlare.
Il movimento della nave era molto più accentuato – su e giù, destra e sinistra – beccheggiava e rollava, rollava e beccheggiava.
Helen aveva tirato le tende e chiuso a chiave la portafinestra del terrazzino appena i loro sgraditi ospiti se n’erano andati. Una volta o due le era sembrato di sentire dei rumori provenienti dal corridoio. I sonniferi l’avevano stesa. Ne aveva presi solo due (per ora), ma avevano fatto il loro lavoro, tagliandola fuori da quasi tutto. Si mise a sedere, incapace di guardare verso Elise, temendo che se ne fosse andata a raggiungere Peter. Per amor del cielo! Morta. Non «andata». Morta. La stanza era al buio, ma non ricordava di aver spento la luce.
Cercando di resistere al rollio, andò lentamente verso la finestra e, con un gesto degno di un prestigiatore che sfila la tovaglia da sotto i piatti, spalancò le tende. Fece un salto. C’erano delle sagome, sagome scure, che strisciavano a pochi metri da lei.
Sono tornati.
Invece no. Erano solo altri passeggeri, passeggeri che si arrampicavano nella scialuppa davanti al suo terrazzino. Un fiore di luce rossa esplose sopra di lei, trasformando le gocce di spuma che coronavano le ampie onde oceaniche in rubini, e per diversi secondi la scena che si svolgeva davanti al terrazzino fu perfettamente visibile. Un uomo e una donna, i vestiti bagnati appiccicati addosso, azionavano freneticamente il verricello che muoveva la gru della scialuppa. Una figura corpulenta (no, non era lui, il suo salvatore) si teneva in equilibrio sulla scialuppa e cercava di sganciare una cima. La nave s’inclinò, lui perse l’equilibrio, scivolò e scomparve.
Lei fece un passo indietro e richiuse le tende.
«Helen?»
Il sollievo nel sentire la voce di Elise la lasciò quasi senza parole. «Stanno evacuando la nave. La gente abbandona la nave.»
«Oh.»
Oh, infatti.
Helen strisciò più o meno verso il letto di Elise. Dopo le brillanti luci rosse (razzi di segnalazione, dovevano essere razzi), aveva qualche difficoltà a riabituarsi al buio della cabina.
«C’è tempesta?» Tra una parola e l’altra, Elise ansimava come un mantice bucato.
«Grazie...» – respiro, ansito, pausa – «... per esserti presa cura di me, Helen.»
«Avresti fatto lo stesso anche tu.»
«La nave... è in difficoltà?»
«In che senso, vuoi dire più di prima?»
Elise cercò di ridere, ma ciò le scatenò un accesso di tosse sibilante. Liquido nei polmoni, pensò Helen, anche se non aveva idea di cosa significasse davvero. «Tu vai. Lasciami qui. Salvati.»
Non c’è salvezza. La nave beccheggiò di nuovo e le sembrò di essere sulle montagne russe, con lo stomaco che faceva le capriole. Era quasi eccitante. «Non ho intenzione di lasciarti.» Cercò la mano dell’amica. «Credi forse che sarà come una scena di Titanic?»
Un’altra risata ansimante. «Sto morendo, Helen, lo sento.»
«Non stai morendo.»
«Non ho paura. Credevo... credevo che mi sarei spaventata, invece no.»
Un altro rollio, o beccheggio, o imbardata, o come diavolo si chiamava. Sentì qualcosa che si rompeva in bagno e il rumore del suo computer – dove aveva scritto il suo ultimo messaggio – che scivolava giù dal mobile accanto al televisore e si fracassava sul pavimento.